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BREVE GUIDA SUL MEDIATORE ED IL MERCATO IMMOBILIARE | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
1.
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Beni |
regola |
in
mala fede |
in
buona fede |
in
buona fede con titolo astrattamente idoneo |
Immobili
e diritti reali di godimento su immobili |
20 art. 1158 |
20 art. 1158 |
20 art. 1158 |
10 art.
1159 |
Universalità
di mobili e relativi diritti reali di godimento |
20 art. 1160 |
20 art. 1160 |
20 art. 1160 |
10 art.
1160 |
Fondi
rustici con abitazioni annesse in località montane o con basso
reddito |
15 art. 1159 bis |
15 art. 1159 bis |
15 art.
1159 bis |
5 con
titolo registrato art. 1159 bis L.346/76 |
Mobili
e relativi diritti reali di godimento |
20 art. 1161 |
20 art. 1161 |
10 art. 1161 |
alla
consegna art.
1153 |
Mobili
registrati e relativi diritti reali di godimento |
10 art. 1162 |
10 art. 1162 |
10 art. 1162 |
con
titolo trascritto 3 anni
dalla trascrizione art.
1162 |
Normalmente
non è richiesto il possesso in buona fede, ma ad
usucapionem, o qualificato, cioè pacifico, pubblico (nec vis,
nec clam) e
continuato (non interrotto). Se c'è clandestinità o
violenza, finchè non
cessano tali circostanze non decorre il tempo per l'usucapione.
Continuo
significa che non ci deve essere interruzione della situazione di fatto
per
oltre un anno (1167). Dopo l'interruzione il tempo deve decorrere per
intero
come se iniziasse ex novo il possesso.
Mentre
le azioni per la tutela della proprietà si chiamano petitorie,
quelle per la tutela del
possesso si chiamano possessorie.
Reintegrazione
o spoglio.
Quando un possessore è spogliato della cosa con violenza o
occultazione, entro un anno dallo spoglio, può chiedere al
giudice la
restituzione della cosa (1168). L'azione spetta anche al proprietario o
al
detentore a meno che non lo sia per servizio, tolleranza o
ospitalità. Se lo
spoglio è clandestino, l'azione si prescrive a partire dal
giorno in cui se n'è
avuta notizia. Il terzo acquirente a conoscenza dello spoglio (pertanto
in mala
fede) non può esimersi dal subire l'azione (1169).
Manutenzione.
È l'azione con cui si interrompe una
turbativa nei confronti di chi possiede, da più di un anno,
senza violenza o
clandestinità (o a un anno dalla cessazione di tali circostanze)
un immobile,
un diritto reale di godimento o un'universalità di mobili. In
altre parole,
quest'azione è concessa a chi ha il possesso qualificato del
bene. Quest'azione
spetta anche al possessore che abbia subito lo spoglio senza violenza o
clandestinità (1170), come alternativa all'azione di
reintegrazione. Le
molestie possono essere di fatto o di diritto, a seconda che siano
rivolte a
limitare il diritto o che siano dirette all'esercizio di un'azione
legale per
limitarlo.
Nunciazione.
È l'azione (cautelare) che si esperisce con denunzia di nuova
opera oppure con denunzia di danno temuto. La denunzia di nuova opera
spetta al
proprietario, o al titolare di un diritto reale di godimento, o al
possessore
di un fondo, che risulti danneggiato da un'opera in costruzione da meno
di un
anno (e non ancora ultimata). L'autorità giudiziaria svolge
dapprima
accertamenti sommari, quindi si pronuncia sulla sospensione o meno dei
lavori,
prendendo opportune cautele di risarcimento, o del danno al costruttore
per la
sospensione, o del danno al diritto del denunciante per la mancata
sospensione,
a seconda di come risulterà dalla sentenza definitiva (1171). Si
distingue,
quindi, una fase sommaria e una successiva fase inquisitoria più
approfondita.
La denunzia di danno temuto, invece, si riferisce a qualcosa che esiste
già e
che incombe pericolosamente sulla cosa oggetto del diritto
(proprietà,
usufrutto, servitù, possesso, ecc.). L'azione tende a che il
giudice verifichi
lo stato di pericolo immediato di un danno
grave. Anche qui il giudice prende
precauzioni per il risarcimento del danno eventuale di una delle parti.
È
logico che l'azione deve prevenire il danno, altrimenti si tratterebbe
di un
risarcimento del danno da fatto o atto illecito.
Diritti
personali, o di credito o relativi.
I
diritti reali, esaminati finora, sono quelli, come abbiamo già
detto, che si rivolgono a tutti e che non hanno bisogno del concorso
dell'opera
di nessuno al di fuori del titolare del diritto stesso. Esiste,
però, nella
vita sociale, anche la necessità di forme di relazione in cui un
soggetto operi
a vantaggio di altri per ottenere fini riconosciuti dall'ordinamento
giuridico
che altrimenti i singoli soggetti non potrebbero conseguire. Tali
situazioni
giuridiche comprendono diritti riferibili ed esigibili solo a
determinate
persone, legate in rapporti che li obbligano a tenere un preciso
comportamento,
o più in generale, una precisa prestazione. Il codice non
definisce ne' le
obbligazioni e ne' il rapporto obbligatorio, ma la dottrina classica vi
sopperisce:
Obbligatio
est iuris vinculum
quo necessitate adstringimus alicuius solvende rei secundum nostre
civitates
iura
È
un rapporto dal quale scaturisce un vincolo tra un soggetto
passivo (debitore) che deve fornire una prestazione in favore di un
soggetto
attivo (creditore).
Distinzioni
tra diritti reali e di credito.
Caratteristiche
dei diritti |
|
reali |
Di
credito |
tipicità |
Atipicità |
assolutezza |
Relatività |
immediatezza |
mediatezza |
inerenza |
non
inerenza |
Tipicità
significa tassatività dei diritti riconosciuti dall'ordinamento.
Assolutezza
con riferimento all'efficacia erga omnes. Immediatezza indica l'assenza
del
concorso e della partecipazione nell'esercizio del diritto. Inerenza
nei
riguardi della relazione che unisce il titolare del diritto all'oggetto
dello
stesso in qualunque posto si trovi. Oggi, però, tali
caratteristiche non
assicurano più una netta distinzione tra diritti reali e diritti
di credito,
perché, per esempio, un contratto preliminare, se registrato,
è opponibile ai
terzi, quindi, il contratto, pur essendo certamente espressione di un
rapporto
obbligatorio, con la registrazione perde la caratteristica della
relatività.
Per i diritti di credito non è possibile una tutela esterna,
cioè nei confronti
di chi è estraneo al rapporto, ma, oltre al caso sopra
rappresentato, a partire
dagli anni '70, la giurisprudenza ha concesso la possibilità,
per il creditore,
di ottenere il risarcimento per il danno subito derivante
dall'inadempimento
del debitore provocato dal terzo. In questa fattispecie, il debitore
inadempiente per causa a lui non imputabile (1218) (che dimostri ,
cioè, di non
avere avuto modo di fornire la prestazione, avendo tenuto un
comportamento
conforme alla normale cura o diligenza del buon padre di famiglia) non
è
ritenuto responsabile (responsabilità contrattuale), ma
sarà il terzo a dover
risarcire il danno (per responsabilità extra contrattuale) ex
art. 2043. La
giurisprudenza ci fornisce un esempio del passato remoto ed uno
più recente.
È
evidente l'evoluzione percorsa dalla giurisprudenza verso
l'appiattimento della
distinzione tra diritto reale e relativo rispetto alla caratteristica
dell'assolutezza. La distinzione che garantisce ancora una netta
distinzione è
quella basata sul tipo di titolo di acquisto. I
diritti reali si acquistano sia a titolo originario che a titolo
derivativo,
mentre i diritti relativi si acquistano solo a titolo originale.
L'obbligazione
è un vincolo giuridico per cui il debitore è tenuto
ad una prestazione, valutabile economicamente, nell'interesse del
creditore.
Elementi dell'obbligazione sono:
Dualità
del rapporto.
È chiaro
che per poter esistere un'obbligazione è necessario che nel
rapporto siano
presenti almeno due parti, di cui una passiva ed una attiva. Le due
situazioni
non è detto che siano nettamente delimitate e definite,
perché possono esserci
diritti e doveri reciproci, come nel caso della compravendita.
Interesse
del creditore.
Perché ci
sia rapporto obbligatorio bisogna individuare l'interesse del
creditore. Questo
elemento non deve mai mancare in tutta la durata del rapporto, oltre
che
esserci nel momento dell'assunzione dell'obbligo.
Prestazione.
È
l'oggetto dell'obbligazione. Deve
essere economicamente valutabile, anche se il beneficio non è di
tipo
patrimoniale (1174). La prestazione è libera, ma deve essere
degna di tutela da
parte dell'ordinamento (1322). Il concetto di "valutabilità
economica
della prestazione" collima con il contenuto dell'art. 814, che dice che
l'energia è considerata un bene quando è suscettibile di
valutazione economica.
Il carattere di patrimonialità del rapporto si evince da una
norma dettata per
i contratti, per i quali è tassativo che la prestazione (non
l'interesse del
creditore) sia di tipo patrimoniale (1321). I beni non patrimoniali (i
beni
demaniali dello stato, ad esempio) non essendo suscettibili di
valutazione
economica, perché non sono commerciabili, non possono essere
oggetto di un
contratto. Non è necessario che il beneficio diretto al
creditore (ossia il suo
interesse), sia un bene patrimoniale, ma è sufficiente che
l'interesse che questi
ha alla prestazione sia in qualche modo riconducibile, mediante un
indice di
patrimonialità, ad una valutazione economica (esempi ne sono la
caparra
penitenziale e la clausola penale, oppure la realizzazione di un'opera
pittorica).
Le
prestazioni possono essere in:
Il
rapporto obbligatorio si sviluppa intorno ai due aspetti del
credito e del debito, e la legge vuole che questa relazione sia
condotta da
ambo le parti con correttezza (1175). Il metro di valutazione della
correttezza
è quella clausola generale che va sotto il nome di buona fede
(1337). Ma non è
la buona fede del possessore che non deve possedere con la coscienza di
ledere
un diritto altrui (buona fede soggettiva), è una cosa diversa il
comportamento
delle parti che rispondere a criteri oggettivi,
per questo si tratta di una buona fede oggettiva, che si
misura
con la
diligenza del buon padre di famiglia (1176). Tra creditore e debitore
deve esistere
un rapporto di cooperazione. Il debitore deve preoccuparsi di adempiere
all'obbligo fornendo la prestazione secondo l'interesse del creditore,
il quale
a sua volta deve creare le condizioni adeguate a che possa ricevere la
prestazione, senza che il debitore sia gravato da ulteriori oneri.
Il
debitore può adempiere anche perché mosso dall'interesse
di
realizzare la sua personalità, quindi la remissione del debito
da parte del
creditore non ha efficacia se il debitore non accetta. L'interesse del
creditore è uno degli elementi costitutivi dell'obbligazione,
perché se viene a
mancare anche solo per un momento, e il debitore accetta la remissione,
l'obbligazione si estingue. Tale interesse può essere tale che
il creditore
chieda la prestazione direttamente dal debitore; a questo è
concesso di
devolvere a terzi solo se il creditore non ha un interesse a ricevere
la
prestazione personalmente dal debitore (1180), il che significa che non
basta
il capriccio del creditore, ci deve essere un interesse, come
può essere quello
di farsi dipingere un ritratto dall'artista debitore e non da un suo
allievo.
Dal
combinato disposto del 1174 e del 1218 si evince che il
mancato adempimento è gravido di effetti tendenti al
riequilibrio del rapporto.
Di fronte all'inadempimento il debitore è perseguibile. Il
creditore ha a
disposizione le azioni persecutorie
per ottenere la prestazione oppure un risarcimento del danno che il
debitore
dovrà pagare facendo conto su tutto il suo patrimonio di beni
presenti e
futuri. L'adempimento non è coercibile per i casi di
obbligazioni naturali
(debiti di gioco, sentimenti di gratitudine, ecc.) che non sono
riconosciute
dal nostro ordinamento, quindi non ricevono tutela giudiziaria (2034)
(1933),
fatta salva la soluti retentio, ovvero la prerogativa del creditore di
trattenere la prestazione se assolta volontariamente dal debitore
(eccetto che
questi sia incapace). In altri termini l'irripetibilità della
prestazione da
obbligazione naturale si applica a condizione che non ci sia violenza
(libera
volontà del debitore) e, di conseguenza, che il debitore sia in
quel momento in
grado odi intendere e di volere. L'ordinamento, se da un lato non
riconosce
effetti giuridici alle obbligazioni naturali, da un altro deve comunque
tutelare degli obblighi morali o sociali, se questi sono spontaneamente
ammessi
coi fatti dal debitore, riconoscendo effetti non all'obbligazione, ma
al suo
adempimento. Il principio giuridico è applicabile anche
all'adempimento di un
obbligazione, pur giuridicamente rilevante, si sia prescritta, o sia
stata
comunque estinta (anche annullata da sentenza passata in giudicato).
Si
distinguono 2 categorie di obbligazioni naturali, tipizzate (2°
co. art. 2034) e non tipizzate (1° co.). Qualche autore parla di
obbligazioni
rispettivamente imperfette e generiche. Imperfette (tipizzate),
perché non è
concessa l'azione legale per la sua tutela (debiti di gioco - 1933). Le
obbligazioni naturali non vanno confuse con gli atti di
liberalità (donazioni -
testamento), con i quali hanno delle attinenze. Entrambe mancano di
coercitività, cioè non costituiscono obbligo giuridico
finchè non gli si è dato
corso; chi dona non ha nessun obbligo di farlo. Differiscono
concettualmente
perché, mentre gli atti di liberalità costituiscono la
massima espressione
della libertà negoziale, quindi fondamentalmente sulla
liberà volontà del dante
causa, le obbligazioni naturali si fondano su un obbligo morale o
sociale.
Ci
sono tre elementi strutturali del rapporto obbligatorio. Uno di
questi è la dualità del rapporto, la coesistenza
cioè di due situazioni
soggettive. Si ammette che in una o in entrambe vi siano
contemporaneamente più
soggetti, implementati comunque in due fronti: la parte creditoria e la
parte
debitoria. In questo caso si distinguono obbligazioni: parziaria o
solidale.
Obbligazioni
parziarie o solidali.
Dal
lato passivo la legge fissa la presunzione di
solidarietà. Se le parti tacciono a riguardo, nel
senso che non risulti diversamente stabilito nel titolo costitutivo
dell'obbligazione, si intende che i diversi debitori sono tutti tenuti
all'adempimento per intero dal creditore. Questa presunzione va a
favore del
creditore, che vede aumentare le possibilità di ottenere la
prestazione,
potendo chiederla a uno qualunque dei creditori, e ciò fa comodo
quando uno o
alcuni dei creditori non sono solvibili. Il debitore a cui è
stato richiesto
l'adempimento può a sua voltare rivolgere agli altri debitori la
quota di
regresso, e nel caso che uno o più di questi fossero
insolvibili, il valore
della prestazione sarà ripartito tra i rimanenti debitori
solvibili.
Esistono
delle eccezioni riguardo ai coeredi, i quali rispondono
solo per la loro quota d'eredità. L'erede, se universale,
peraltro eredita il
complesso delle situazioni del dante causa, quindi anche le eventuali
passività, per le quali risponde anche con il suo patrimonio. Se
ci sono più
eredi, questi non risponderanno solidalmente delle obbligazioni, ma
solo nella
misura della quota d'eredità, e mai per l'intero debito. Il
rapporto
obbligatorio ha altri aspetti; se ad esempio uno dei creditori compie
una
ricognizione del debito per interrompere la prescrizione, anche gli
altri
debitori ne beneficiano. La prescrizione si interrompe anche per atto
di riconoscimento
del debitore. Ma l'ammissione del debito di uno dei debitori produce
effetti di
interruzione della prescrizione anche per gli altri debitori ? Oppure,
la
costituzione in mora fatta ad uno dei debitori, ha effetti anche sugli
altri ?
C'è una regola generale dettata dall'ordinamento, per cui, in
presenza di
solidarietà attiva o passiva, si estendono gli atti favorevoli
alle parti
agenti, e non invece per gli atti a sfavore delle parti (1294) (754 -
coeredi).
La costituzione in mora è un atto del creditore che crea uno
svantaggio per il
debitore, quindi in questo caso non si estendono gli effetti agli altri
debitori cui non è stata comunicata. Il riconoscimento del
debito di uno dei
debitori solidali non coinvolge gli altri, mentre andrà a
vantaggio di tutti
gli altri creditori solidali (1309). Stesso per la remissione del
debito,
essendo a favore di tutti i debitori, si estenderà anche a loro,
salvo che il
creditore non abbia specificato l'esclusione degli altri debitori. Il
creditore
può anche rinunciare alla solidarietà verso uno dei
debitori, conservandola per
i rimanenti. Il codice non si esprime per la solidarietà attiva.
Peraltro vi è
la presunzione opposta, cioè, se le parti non stabiliscono
diversamente nel
titolo, si intende che i creditori abbiano stipulato un'obbligazione
parziaria.
Pertanto, se un debitore vuole assolvere alla prestazione, la deve
rendere a
ciascun creditore per la sua quota, e non interamente ad uno solo di
essi,
perché in tal caso l'obbligazione non si estinguerebbe. Esiste
l'eccezione dei
depositi bancari (conti correnti e cassette di sicurezza), che per
legge sono
solidali dal lato attivo, ovviamente se vi fossero più
cointestarari del
deposito. Esempio di situazione attiva parziaria: se due coniugi in
regime di
comunione dei beni vendono una casa, sono titolari della metà
del credito
ciascuno, quindi l'acquirente dovrebbe pagare il prezzo metà ad
uno e metà
all'altro coniuge; a meno che non sia diversamente stabilito nel
contratto di
compravendita.
Obbligazioni
divisibili e indivisibili.
A
seconda che la stessa prestazione sia divisibile o meno:
Un'auto
non è divisibile senza che perda la sua essenza, di
conseguenza anche l'obbligazione avente ad oggetto la consegna di
un'auto sarà
indivisibile.
Alle
obbligazioni indivisibili si applicano le norme sulle
obbligazioni solidali.
Obbligazioni
cumulative e alternative.
Se
ci sono più prestazioni nell'ambito di una stessa obbligazione,
questa può rispondere a obbligazioni cumulative o alternative, a
seconda che
esista la previsione che le prestazioni siano rese tutte oppure una di
esse
soltanto, senza trascurare, nel secondo caso, a chi sia attribuita la
facoltà
di scelta della prestazione da rendere. Un esempio di obbligazione
cumulativa è
un pacchetto viaggio offerto da un tour operator, contenente il viaggio
e il
soggiorno, due prestazioni riferite ad una sola, e vanno adempiute
tutte. Se le
prestazioni sono alternative (es. 1179), il debitore si libera se
adempie ad
una di queste, a scelta, di norma, del debitore (1286), se non
stabilito
diversamente nel titolo. Per esempio la vincita di un premio per
l'acquisto di
un bene a scelta del vincitore in un determinato negozio. Il titolare
del ius
decidendi, una volta comunicata la scelta o data esecuzione a una
prestazione,
non può più cambiare idea; l'obbligazione diventa
semplice, non è più
alternativa. Da questo possono derivare effetti connessi al perimento
della
cosa.
Sono
fonti di obbligazioni, i contratti, i fatti illeciti ed ogni
altro atto o fatto idoneo a produrle (1173). Da questa classificazione
nasce il
problema aperto della tipicità delle obbligazioni, per via delle
ultime parole,
nelle quali confluiscono quei tipi che la dottrina classica definiva
quasi ex
contratto e quasi ex maleficio (fatto illecito). Ci sarebbe spazio per
supporre
che il legislatore abbia lasciato volutamente aperto il problema per
sancire
l'atipicità delle obbligazioni. Ma è forse un falso
problema, perché i 6 tipi
di obbligazione che trovano posto nel codice sono i soli che si sono
visti
nell'esperienza giuridica, e questo perché tutti i casi, nella
realtà, sono
riconducibili al contratto o al fatto illecito.
L'estinzione
naturale è quella dell'adempimento. Per adempimento
s'intende l'esatta prestazione che
emerge dal combinato disposto dei due articoli del codice:
Esatta
prestazione significa che deve soddisfare tutti gli
interessi del creditore, quindi il comportamento del debitore deve
tendere a
che il creditore sia soddisfatto nei suoi bisogni oggetto del rapporto.
Il
creditore da parte sua deve favorire l'adempimento del debitore, quindi
non
deve ostacolare, anzi deve mettere in atto tutto quanto è nelle
sue possibilità
affinchè il debitore non abbia oneri aggiuntivi. Gli articoli
seguenti al 1176,
fino al 1217, sono riferiti alle modalità che qualificano come
esatto
l'adempimento (surrogazione, mora del creditore, ecc.). Dal
Ad
esempio, se per conoscere la situazione di appartenenza di un immobile
mi
rivolgo ad un conoscente, la bontà delle informazioni
potrà non essere delle
migliori, e la responsabilità di quella persona saranno valutate
rispetto
all'uomo medio. Se invece incarico un professionista, questo
avrà
necessariamente una responsabilità maggiore. Al criterio
generale del 1° comma
del 1176 sull'uomo medio, soccorre quello del 2° che impone la
valutazione caso
per caso. Il debitore ha diritto alla quietanza, le cui spese rimangono
a suo
carico comunque. Ci sono tre elementi che influiscono sull'esatto
adempimento:
il luogo, il tempo e i soggetti (l'adempiente o il ricevente la
prestazione).
Se non ci sono accordi sul luogo di adempimento e non si può
evincere dalle
circostanze, il codice fissa alcuni principi, come il luogo dove
è sorta
l'obbligazione, o, se la prestazione è in denaro, il luogo di
domicilio del
creditore. Negli altri casi la prestazione va adempiuta al domicilio
del
creditore. Se adempiere nel domicilio del creditore, quando questi
avesse
cambiato domicilio, risultasse più oneroso, il debitore
può chiedere di
adempiere presso il proprio domicilio. Quindi, in definitiva i criteri
rispetto
al luogo sono tre.
L'altro
elemento che costituisce le modalità d'adempimento è
quello del termine. In
mancanza di accordi sul momento dell'adempimento, il creditore lo
può chiedere
la prestazione in qualsiasi momento (1183). In questo caso il debitore
può
rivolgersi al giudice perché fissi un termine. L'adempimento
può essere
lasciato all'arbitrio di una delle parti, mentre l'altra può
chiedere di
fissare un termine. Se il termine si rende necessario, lo stabilisce il
giudice. Se le parti hanno stabilito il termine (ad es. 30 gg. data
fattura
fine mese), si presume che il beneficio del termine vada a vantaggio
del
debitore, se non è stato stabilito il contrario (1184). Quando il beneficio del termine è in
favore del debitore, ma questi
decade prima della scadenza, ad esempio per diminuzione delle garanzie
prestate
per sua colpa, è tenuto all'adempimento immediato (1186) (2743).
La garanzia
principale è l'intero patrimonio del debitore, ma vi sono anche
garanzie
specifiche su una parte di esso: il pegno, l'ipoteca, ecc..
La
conseguenza più importante per la decadenza del termine, in
mancanza di adempimento immediato, è l'esecuzione forzata
dei beni del debitore. Il computo del termine è stabilito dalle
norme in materia di prescrizione, ed è lo stesso utilizzato per
computare il
trascorrere del tempo nel diritto, anche processuale. Il giorno di
partenza non
si conta. Il giorno di scadenza si calcola intero, cioè il
termine scade a
mezzanotte dell'ultimo giorno. Se la scadenza è in un giorno
festivo, salvo usi
locali, si protrae al successivo giorno feriale. Se l'unità di
misura è il
mese, il termine scade alla fine dello stesso giorno di partenza nel
mese che
risulta. L'altro elemento dell'esatto adempimento è il soggetto,
sia quello che
deve rendere la prestazione che quello che la deve ricevere.
Non
sempre ad adempiere sarà necessariamente il debitore, ma
può
essere un terzo a rendere la prestazione, come nel caso del padre che
paga il
debito del figlio. Il codice prevede che l'adempimento sia reso da un
terzo a
condizione che il creditore non abbia un interesse particolare per
richiedere
la prestazione direttamente al debitore (es. un intervento chirurgico
da parte
di un famoso specialista) (11801). Il creditore può rifiutare la
prestazione da
un terzo se il debitore ha comunicato la sua contrarietà
(11802). La scelta di
accettare la prestazione spetta in ultimo al creditore, è la sua
posizione a
ricevere la maggior tutela. Il terzo che ha reso la prestazione
può surrogarsi
al creditore, subentrando in quella posizione, ed esigendo la
prestazione a sua
volta dal debitore.
Di
regola la prestazione va resa al creditore, oppure al suo
rappresentante o comunque legittimata a ricevere, ma se avviene ad
altra
persona e il creditore ratifica l'adempimento, il debitore si libera
dal vincolo
(1188). Se mancano le circostanze della ratifica o dell'approfittamento
del
creditore, il debitore non è liberato dall'obbligazione. Esiste
differenza tra
la capacità del debitore e quella del creditore. Perché
l'obbligazione possa
estinguersi per adempimento, è richiesta la capacità del
solo creditore (1190);
il debitore, anche se incapace, non può ripetere l'adempimento
vantando la sua
incapacità (1191). Il creditore non può liberarsi
dell'obbligazione con
l'adempimento al creditore, se questo è incapace di intendere e
di volere in
quel momento, a meno che non dimostri che la prestazione è
andata comunque a
vantaggio del creditore (ed esempio se si rende al minore
d'età). La capacità
di agire del debitore è rilevante al momento del sorgere
dell'obbligazione.
Qui, il codice, per capacità intende quella naturale di
intendere e di volere,
diversa dalla capacità legale, richiesta per i contratti e i
matrimoni, che si
consegue con la maggiore età (2). L'adempimento a persona
apparentemente
legittimata libera il debitore in buona fede, ed impegna chi ha
ricevuto la
prestazione a renderla al titolare del credito (1189)(2033). Ad esempio
tizio
che afferma di essere rappresentante del creditore, vanta al debitore
una
procura (che deve avere la stessa forma dell'obbligazione, quindi
può essere
anche orale), e riceve da lui la prestazione. La procura, anche se
scritta, può
essere stata revocata; in entrambi i casi il falso rappresentante
assume
l'obbligazione verso il creditore, liberando il debitore iniziale.
Oltre
all'adempimento e all'impossibilità sopravvenuta, ci sono
altri modi di estinzione dell'obbligazione. Si è detto che
l'adempimento deve
essere esattamente eseguito, e si sono anche visti gli elementi che
influiscono
sull'esattezza della prestazione. Si è anche evidenziato il
criterio di
collaborazione tra creditore e debitore basato sulla correttezza e
buona fede.
Spesso si richiede la collaborazione del creditore, ad esempio quando
si deve
consegnare qualcosa, questi deve aprire i locali per ricevere la
consegna. Se
il creditore non pone in condizioni di poter eseguire la prestazione
possono
intervenire complicazioni del rapporto, con maggiori oneri per il
debitore, o
addirittura danni. Se le cause dell'inadempimento si riconducono
all'atteggiamento scorretto del creditore, il debitore può
considerarsi
liberato.
Mora
del creditore.
È
parificata all'esatta prestazione l'offerta formale, oppure
quando è impossibile per cause del creditore (se rifiuta
illegittimamente)
(1206). Il debitore non sarà inadempiente e non potrà
essere costituito in
mora, neanche per ritardo dell'inadempimento. Però,
perché si verifichino gli
effetti sul creditore che non collabora, lo si deve costituire in mora
in modo
formale, cioè rispondente a determinati requisiti (1208): se in
denaro (o in
beni fungibili) con offerta reale; altrimenti per mezzo di notifica
(intimazione a ricevere) fatta da un ufficiale pubblico. Gli effetti
riguardano
l'interruzione degli interessi verso il debitore, le spese di
conservazione o
deposito della cosa, nonché il risarcimento del danno (1207). In
ogni caso gli
effetti si verificano dal giorno dell'offerta se convalidata da
sentenza
passata in giudicato, oppure accettata dal creditore. Il debitore, per
impossibilità sopravvenuta, della prestazione si libera,
mantenendo ogni
diritto alla controprestazione eventuale. Il giudice, chiamato a
convalidare
l'offerta, accerterà che questa sia legittima, e poi che
risponda ai requisiti
di formalità. L'offerta reale, di per se', non libera il
debitore, ma è tesa ad
ottenere la costituzione in mora del creditore, e a far ricadere su di
lui gli
effetti. Siamo in presenza di ritardo, ma l'adempimento è ancora
possibile.
Infatti, il debitore che abbia costituito in mora il creditore, per
liberarsi
deve attuare l'azione di deposito (della merce o del denaro). L'offerta
reale è
riferita a denaro, titoli di credito o beni mobili, e si svolge presso
il
domicilio del creditore. Le cose mobili che si è stabilito di
consegnare in
altro luogo sono proposte con offerta per intimazione a ricevere,
esperita
dall'ufficiale giudiziario, nelle forme previste per l'atto di
citazione. Se è
una prestazione di fare, il creditore deve predisporre le condizioni
necessarie
per ricevere l'adempimento. Se la prestazione è la consegna di
un bene
immobile, oggetto dell'intimazione sarà la presa di possesso
dell'immobile
(1216). In ogni caso l'impossibilità di adempiere deve essere
verbalizzata da
un pubblico ufficiale autorizzato (un notaio ad esempio, non un
poliziotto)(1212).
Per
evitare che l'obbligazione resti in piedi a lungo, il debitore
può ricorrere al deposito, che deve essere approvato dal giudice
o dal
creditore stesso (1210). Ciò estingue l'obbligazione, con spese
a carico del
creditore. È comunque un procedimento che spetta solo al
debitore, è un suo
diritto potestativo. Per l'immobile è previsto l'intervento di
un
sequestratario.
Mora
del debitore.
L'inadempimento
del debitore avviene quando è scaduto il termine
per la prestazione, o quando abbia adempiuto solo in parte o in modo
non
esatto. Il ritardo è inadempimento. L'inadempimento non è
più ritardo quando la
prestazione è diventata impossibile o inopportuna (quando la
prestazione è
connessa a particolari circostanze, verificatesi le quali non ha
più ragione
d'essere). Dal momento in cui l'adempimento può avvenire,
partono i termini di
prescrizione, che devono essere interrotti dal creditore con un atto di
costituzione in mora (ritardo qualificato). Perché dal ritardo
si passi alla
mora è necessario un comportamento formale, oppure che il
ritardo si qualifichi
secondo quanto stabilito dall'ordinamento. Quindi per costituire in
mora il
debitore occorre un atto formale (ex personam), oppure, in taluni casi
previsti
dalla legge, avviene automaticamente (ex re), (quelle da fatto
illecito, quelle
per le quali esiste una dichiarazione scritta del debitore di non
volere
adempiere, quando è scaduto il termine e la prestazione andava
pagata al
domicilio del creditore). Gli effetti della mora del debitore,
conseguenza del
ritardo, sono: il risarcimento del danno (quello prevedibile al momento
in cui
sorse l'obbligazione), gli interessi moratori (al tasso che venne
stabilito o a
quello legale) (i moratori sono diversi da quelli compensativi del
mutuo). Le
conseguenze del perimento, ed il relativo risarcimento, ricadono sul
debitore,
anche se non dipendente da sua colpa. Quando la prestazione è
nel non fare, il
fare è inadempimento, e non è pensabile un ritardo
nell'adempimento o una
prestazione di mora; sarà inadempimento definitivo (1222).
Tutela.
Ci
sono due tipi di tutela: reale e risarcitoria.
Reale:
la possibilità di ottenere
comunque la prestazione anche in modo coatto.
Risarcitoria:
quando invece della
prestazione si vuole ottenere il risarcimento del danno derivante dal
mancato
adempimento.
Esistono
comunque dei casi in cui il debitore è liberato
dall'impossibilità sopravvenuta.
Se
la responsabilità è imputabile al debitore dovrà
risarcire il
danno.
L'art.
2930 del codice civile, se non è adempiuto l'obbligo di
consegnare un a cosa che si è deteriorata, mobile o immobile,
l'avente diritto
può ottenere la consegna o il rilascio forzato a norma delle
disposizioni del
codice di procedura civile.
Se
nemmeno una di queste forme è possibile, si deve far ricorso
alla tutela risarcitoria.
Sono
dei casi di tutela forzata:
I
criteri per i risarcimenti del danno sono menzionati
dall'articolo 1218 (responsabilità del debitore), e 1223:"il
risarcimento
del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere la
perdita
subita dal creditore e il mancato guadagno che siano conseguenza
immediata e
diretta".
Es:
ho consegnato ad un soggetto delle forme di formaggio perché
me le custodisse e poterne ottenere la stagionatura; a causa del
comportamento
del debitore si ha un deterioramento del formaggio; il proprietario
subirà una
perdita, ma anche un mancato guadagno per non aver potuto vendere la
merce.
Il
codice detta anche i casi dell'inadempimento da parte dei
soggetti ausiliari del debitore, che in ogni caso è tenuto al
risarcimento per
dolo o colpa di quelli.
A
garanzia del rapporto obbligatorio sono previste diverse tutele
per la conservazione del patrimonio del creditore.
Art.
2740 c.c. "il debitore risponde dell'inadempimento delle
obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri". E' una garanzia
per
il creditore che produce maggiori effetti quando l'obbligazione non
è stata
adempiuta, ma prevede anche alcuni strumenti cautelari che può
esperire nei
confronti del debitore.
Art. 2900
c.c. condizioni, modalità ed effetti per conservare la garanzia
patrimoniale.
Se si è verificato l'inadempimento, l'intero patrimonio del
debitore
costituisce garanzia. Se ci sono più debitori che hanno iniziato
l'esecuzione
forzata e il patrimonio non è sufficiente, ognuno ne può
ottenere una parte in
proporzione all'ammontare del credito.
Ci
sono però alcuni creditori particolari, così detti chirografari.
Legittime
prelazioni:
In
alcuni casi non ha carattere reale, cioè non segue il bene che
viene trasferito.
Il
privilegio trova fondamento nella causa del creditore ed è
previsto dalla legge.
Art.
2745 c.c. " Il privilegio è accordato dalla legge in
considerazione della causa del creditore. La costituzione del
privilegio può
tuttavia dalla legge essere subordina alla convezione delle parti,
può anche
essere subordinata a particolari forme di pubblicità".
Distinzione tra privilegi:
Ne
esistono alcuni convenzionali, che nascono per accordo delle
parti; es.: privilegio speciale a favore dell'albergatore sui beni
mobili
situati nell'albergo . Art.2760 c.c.
Il contratto
è un
istituto rilevante che trova il suo ambito di applicazione principale
nel
diritto privato, ma che è applicabile anche in altre materie.
Il contratto
è una
delle fonti di obbligazione.
L’art.
1321 c.c. dice
che il contratto è quell’accordo tra le parti …
È una
fonte di
obbligazione dal quale possono derivare sia effetti obbligatori che
effetti
reali con effetto circolatorio dei beni.
La permuta, ad
esempio
è un contratto di scambio di diritti reali. Da contratto
può nascere un diritto
di usufrutto, ma anche una servitù.
Anche quando
il
contratto ha effetti reali esso ha comunque sempre carattere
obbligatorio.
Il contratto
è lo
strumento più diffuso per esplicare il principio ed il potere
dell’autonomia
privata.
Riconoscimenti
dell’autonomia privata si trovano già nella costituzione,
contenuti nel
principio di iniziativa economica, art. 42.
La categoria
negoziale
privata è la più ampia espressione di autonomia
contrattuale.
Tutte queste
regole
trovano anche accesso nel diritto pubblico, dal momento che anche gli
enti
pubblici possono agire con strumenti di diritto privato. Questi,
pertanto, sono
considerati strumenti di diritto comune.
Il principio
di
autonomia privata esprime il potere che l’ordinamento riconosce
ai privati di
autoregolare i propri interessi.
Le regole
possono
essere emanate da un soggetto diverso da quello interessato, ed allora
saranno
dette eteronome, come ad esempio quelle del codice sul diritto di
famiglia,
emanate dallo Stato per curare gli interessi delle persone.
Anche un
giudice, con
una sentenza, può intervenire a regolare i rapporti di altre
persone.
L’autonomia
privata si
classifica in contrattuale e negoziale. Queste due classificazioni sono
legate
fra loro nel senso che l’autonomia contrattuale è una
specificazione
dell’autonomia negoziale.
Nel codice
civile,
l’espressione “autonomia negoziale” non
c’è, è un’elaborazione dottrinale,
mentre è citata l’autonomia privata, come espressione di
libertà del
matrimonio, o del testamento, ecc.
L’autonomia
negoziale è
il termine in cui la dottrina racchiude tutte le autonomie private che
il
codice attribuisce ai soggetti in vari istituti. Essendo la dottrina
soggetta
alle correnti di pensiero, non tutti ammettono l’esistenza della
categoria
generale dei negozi giuridici.
Il principio
dell’autonomia privata va ricondotto allo strumento del
contratto, il quale può
essere plurilaterale ed avere anche carattere patrimoniale.
Ad esempio, il
contratto di società è plurilaterale (anche se oggi
esiste anche la società
unipersonale, che è però una contraddizione in soli
termini).
Il testamento
invece,
che contratto non è, è un atto unilaterale e può
avere natura patrimoniale o
meno.
In definitiva
si può
parlare di autonomia privata generale, di autonomia contrattuale e di
autonomia
negoziale.
L’art.
1322 dice che le
parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto, nel
rispetto
dell’ordinamento.
Il contratto
ha forza
di legge tra le parti; questa è la tutela dell’autonomia
privata.
Le parti sono
libere di
scegliere il contratto più idoneo tra quelli tipici (o
nominati), ma anche
formulare un contratto atipico (innominati) che sono pur sempre
genericamente
dalla legge. I contratti non specificamente previsti dalla legge
devono, però,
perseguire fini meritevoli di tutela (13222) da parte
dell’ordinamento.
Il contratto
di
leasing, ad esempio, o quello di locazione finanziaria, sono contratti
atipici,
cioè non sono regolati dalla legge, ma trovano ugualmente
accoglimento perché
assolvono a fini utili che non contrastano con l’ordinamento.
Il leasing
finanziario
è una forma alternativa di finanziamento che ha, in certi casi,
superato le potenzialità
del contratto di mutuo. Nonostante oggi il leasing sia contemplato da
certe
norme, in materia fiscale o di incentivazione varia, non è mai
stato
disciplinato come istituto, che lo definisca come funzione e struttura.
Ogni contratto
ha una
propria causa e una propria funzione che lo distingue dagli altri
contratti.
È
proprio la causa che
permette la distinzione di n contratto atipico da un altro; in base
alla causa
si può stabilire se quel contratto persegue fini meritevoli di
tutela da parte
dell’ordinamento.
Le prime
sentenze sul
contratto di leasing lo considerarono nullo perché non ne fu
ravvisata la
causa.
L’autonomia
privata
trova esplicazione già nella decisione e determinazione a fare
un contratto,
con la libertà di applicare il tipo più idoneo ai propri
fini.
Alla stipula
del
contratto serve, poi, il consenso, oppure la convergenza degli
interessi, come
nel caso del contratto di società. I soggetti che pongono in
essere un
contratto cercano sempre di ottenere il soddisfacimento di un proprio
interesse, che può essere comune ad altri nel caso della
società.
Le parti
possono anche
scegliere le forme del contratto (libertà di forma del
contratto: scritta,
verbale, ecc.), fatte salve le norme che prevedono una particolare
forma per
certi tipi di contratto, come, ad esempio la forma scritta per la
compravendita
o per la traslazione di diritti reali. Ad esempi per le donazioni
è previsto
l’atto pubblico, alla presenza di due testimoni (atto pubblico
solenne). A
volte una norma può richiedere una forma specifica per
garantirne la prova (ad
probationem), come, ad esempio, nei contratti di assicurazione, per
poter
dirimere le controversie che potrebbero sorgere sull’applicazione
delle
clausole che il contratto contiene.
Un altro
contratto che
è previsto nella forma scritta è quello di transazione,
col quale si previene o
si risolve una lite in modo extragiudiziale.
Il principio
generale è
quello della libertà di forma, con specificazione di quei casi
previsti dalla
legge, nelle forme da essa stabilite.
È
espressione
dell’autonomia anche la libertà di scelta del contraente,
anche se pure in
questo caso ci sono limitazioni. Esistono casi in cui
l’ordinamento non lo
permette, ad esempio nel sistema delle locazioni urbane, o nella
vendita di
fondi agrari (prelazione del vicino coltivatore). Sono comunque regole
definite
da leggi speciali, ma pur sempre sulla scia di principi costituzionali.
A volte
esistono
imposizioni più forti, come l’obbligo a contrarre, ad
esempio nei confronti di
soggetti che operano in regime di monopolio. In questo caso non solo
non si
sceglie il contraente, ma si deve contrarre obbligatoriamente con
chiunque lo
chieda (2597).
Esistono poi
delle
limitazioni dettate dai criteri di protezione di determinate categorie
di
persone, o con riferimento alle modalità con cui certe
attività economiche
devono essere condotte.
L’art.
41 della
costituzione è la norma destinata a impostare la regolazione dei
rapporti
economici non senza essere subordinati ad altri valori costituzionali.
A partire
dagli anni
60, l’ordinamento, in applicazione della costituzione, ha emanato
norme
speciali che hanno limitato la libertà contrattuale, ad esempio
del lavoro
subordinato, per tutelare le categorie più deboli. Questo tipo
di leggi sono
prevalenti rispetto al codice civile che è comunque una legge
pre
costituzionale.
Il principio
costituzionale della libertà contrattuale passa in secondo piano
rispetto al
principio di uguaglianza (art. 32 cost.), infatti, quando una delle
parti si
trova in stato di inferiorità, non avrebbe la reale
possibilità di contrattare
liberamente, quindi, in tal caso, la libertà agirebbe a favore
esclusivo di una
sola delle parti, la più forte.
Altri
interventi si
sono avuti nel settore delle locazioni di immobili urbani e per i
contratti
agrari.
Recentemente
sono
intervenute normative a tutela dei consumatori, con conseguente
compressione
dell’autonomia contrattuale, per riequilibrare la posizione di
debolezza in cui
viene a trovarsi il consumatore nei confronti di produttori e
professionisti.
Quello di
applicazione
dell’articolo 3 della costituzione è un processo che
è stato anche sollecitato
dalle norme a favore del consumatore contenute nel trattato europeo, e
dalle
direttive comunitarie come quella sulla pubblicità ingannevole,
o quella sulla
tutela del consumatore per i contratti con i professionisti.
Ne sono un
esempio le
modifiche apportate al codice con l’inserimento dell’art.
1469 bis e seguenti
in materia di rapporti tra consumatori e professionisti, secondo i
quali le clausole
vessatorie (che ledono una parte ingiustamente) sono considerate nulle,
quindi
disapplicabili nel contesto del contratto.
Altre
limitazioni
derivano dal cosiddetto ordine pubblico di struttura economica del
Paese, che
limitano la libertà contrattuale a riguardo della
regolamentazione delle
attività economiche.
Anche qui ci
sono molte
norme a riguardo, come quelle sulla libera concorrenza (contenute nel
trattato
U.E.) che vietano gli accordi tra imprese volti a falsare le condizioni
di
mercato e l’equilibrio della domanda e dell’offerta. La
libera concorrenza va
in favore del consumatore, ma anche dell’impresa.
Anche
l’ordinamento
italiano ha emanato al riguardo varie norme, a partire dalla L. 287/90
(libera
concorrenza e istituzione del garante per l’editoria ed il
mercato), che per la
prima volta ha disciplinato la materia.
Ci sono poi
delle norme
che regolano la circolazione dei beni.
Nell’autonomia
privata,
e specialmente in quella contrattuale, accanto al potere di
autoregolamentarsi
che hanno i soggetti singolarmente rispetto ai rapporti,
c’è anche l’autonomia
privata collettiva, cioè il potere di autoregolamentarsi
riconosciuto anche
alle organizzazioni sociali, come i sindacati. In questo caso
l’autonomia
contrattuale è esercitata collettivamente dai soggetti
rappresentativi, e va
sotto il nome di autonomia collettiva.
Ultimamente ha
trovato
anche affermazione l’autonomia privata assistita, la quale
richiede che il
potere di autoregolamentazione sia valido solo se espletato in presenza
dei
rappresentanti di categoria. Oggi è presente solo in materia di
contratti
agrari di concessione.
In questa
materia ci
sono delle norme imperative ed inderogabili. L’istituto
dell’autonomia
contrattuale assistita bilancia le necessità sociali e quelle
private. Qui il
legislatore dà fiducia non al singolo, ma al suo rappresentante
di settore il
quale contratterà per suo conto.
L’autonomia
assistita
non è comunque da confondere con l’autonomia collettiva.
La prima riconoscere
un’autonomia ad assistere.
Art. 1321:
definizione
di contratto.
Art. 1322:
libertà di
scelta del contenuto e del tipo di contratto
Art. 1323:
applicabilità sia ai contratti tipici che a quelli atipici delle
norme per i
contratti. Il contratto atipico deve essere conforme a quanto sancito
dalle regole
generali per i contratti, le quali trovano applicazione anche nei
negozi
unilaterali.
Art. 1324: le
norme
generali sui contratti si applicano anche agli atti unilaterali tra
vivi aventi
contenuto patrimoniale. Le manifestazioni di volontà inter vivos
dell’agente
possono essere anche unilaterali; ne sono esempi: l’atto
costitutivo di
fondazione, la procura, la rinuncia al mandato, le promesse unilaterali
(1987 e
seguenti), ogni forma di rinuncia ad un diritto. Al testamento, che
è un atto
mortis causa, non sono applicabile queste norme, appunto perché
non sono tra
vivi.
Valgono, per
quei casi,
ad esempio, le norme sui vizi di volontà (che deve essere
manifestata senza
influenza di altri con dolo violenza; alcuni vizi possono portare
all’annullamento, come l’errore, ma questo deve essere
riconosciuto dall’altra
parte come tale, quindi non è applicabile nei negozi unilaterali
tra i vivi).
In definitiva,
non
tutti i negozi o contratti sono disciplinati dalle stesse regole, ma
solo da
quelle applicabili.
Contratti a
titolo
oneroso e a titolo gratuito. Quelli onerosi hanno il sacrificio di una
parte
con il corrispettivo di un’altra. A titolo gratuito non ci sono
corrispettivi
(es. donazione). Questa distinzione ha rilevanza nei riguardi della
diversa
valutazione della libertà contrattuale che fa
l’ordinamento. In quelli gratuiti
c’è meno vigore nella valutazione della
responsabilità, mentre è più severa nei
rapporti a corrispettivi patrimoniali. Ne è un esempio
l’art. 1768, riguardo al
deposito gratuito, in cui la responsabilità per il perimento
della cosa è meno
vigorosa di quella per un deposito a titolo oneroso.
Contratti
unilaterali, bilaterali e plurilaterali.
Nei contratti
unilaterali c’è la presenza di una sola prestazione.
È il caso della donazione,
o, per es., del deposito gratuito, o anche della fideiussione (garanzia
personale) oppure il comodato. Nei contratti bilaterali ci sono invece
due
prestazioni, e in quelli plurilaterali ce ne sono di più, per i
quali si dice
che sono a struttura aperta.
Contratti
consensuali e reali.
Ci
sono contratti che si differenziano per il modo di
perfezionarsi. La maggior parte dei contratti ha natura consensuale,
cioè si
perfezionano con la manifestazione del consenso. Ci sono poi i
contratti reali,
che invece, per essere perfezionati, necessitano del requisito della
consegna
della cosa oggetto del contratto. Il comodato, per esempio, è un
contratto
reale, perché prevede la consegna di una cosa che il comodante
concede al comodatario
per farne un uso consono alla sua destinazione a condizione che si
assuma le
spese di esercizio e manutenzione. Lo sono anche il mutuo e il pegno.
Contratti
sinallagmatici e non.
Sinallagmatici
sono
quelli in cui ad una prestazione deve corrispondere una contro
prestazione, le
quali sono tra loro vincolate. Tale vincolo sinallagmatico esiste sia
al
momento della stipulazione (sinallagma genetico) che durante la sua
esecuzione
(sinallagma funzionale). Quando sorge il contratto, il vincolo
sinallagmatico
fa sì che, se la prestazione non avviene, venga meno anche la
contro
prestazione (es. la compravendita). L’art. 1460, per i casi di
scioglimento del
contratto, menziona anche il vincolo sinallagmatico. Tra i casi di
scioglimento
c’è anche la risoluzione. Un’altra ipotesi di
risoluzione del contratto, oltre
a quella per inadempimento, c’è quella per
impossibilità di adempimento della
prestazione.
Contratti
associativi e di scambio.
Altra
classificazione
di contratti è tra contratti associativi e di scambio. Quelli
associativi non
hanno interessi contrapposti, anzi hanno lo stesso scopo. Quelli di
scambio
hanno invece rispettivamente interessi contrapposti, ad esempio in una
compravendita, uno di acquistare e l’altro di vendere,
cioè il primo vuole la disponibilità
di un bene e l’altro vuole realizzare il migliore corrispettivo
possibile.
Contratti
commutativi e aleatori.
I contratti
commutativi le prestazioni sono certe
al momento della formazione del contratto, mentre in quelli aleatori
almeno una
prestazione non è certa, nel senso che è soggetta a
determinati rischi o
possibilità di realizzarsi o meno (es. contratto di
assicurazione, oppure un
contratto che preveda una rendita vitalizia, come una pensione
integrativa). Il
rischio che una prestazione diventi impossibile dopo la stipulazione
del
contratto esiste anche nei contratti commutativi, ma in quelli aleatori
è
palese nel contratto stesso l’assunzione di un rischio
particolarmente
verificabile.
L’art.
1321 si occupa della
definizione del contratto come accordo tra due o più parti per
estinguere,
costituire o modificare un rapporto patrimoniale. Il titolo seguente
del codice
si occupa dei requisiti del contratto, cioè degli elementi che
devono essere
presenti perché lo si possa dire perfetto, che non sono altro
che gli elementi
del negozio giuridico in generale. Ci sono elementi comuni a tutti i
negozi,
quindi anche ai contratti, e che hanno natura essenziale, ai quali si
aggiungono di volta in volta requisiti particolari che permettono la
distinzione tra le varie forme di negozio.
L’art.
1323 elenca i
requisiti:
Accordo
delle parti.
Per il
contratto
l’accordo corrisponde alla volontà delle parti (inteso
anche per i contratti
unilaterali, con la specificazione che la donazione, per esempio,
richiede la
volontà del donante, ma anche la volontà del beneficiario
di accettare, anche
se la relativa dichiarazione viene considerato un atto distinto dalla
donazione
in se’). Il codice parla di accordo tra le parti, intendendo per
parti anche
una pluralità di soggetti. La parte fa riferimento più
all’interesse, cioè alla
posizione del soggetto, che al soggetto stesso. La volontà,
è uno degli
elementi essenziali degli atti o negozi giuridici in generale. La
volontà deve
essere, però, manifestata all’eterno della persona per
poter essere presa in
considerazione; deve essere riconoscibile dai terzi. La manifestazione
può
comunque essere espressa, o tacita; recettizia o irrecettizia.
Può essere
espressa con segni comunicativi (parole verbali o scritte, cenni o
gesti fatti
ad esempio alle aste, ecc.). È tacita se non vengono fatti segni
comunicativi,
ma si assume un atteggiamento tale da trasmettere comunque
all’esterno una
significativa manifestazione di pensiero. È cosa diversa il
silenzio. Tacere
senza dare nemmeno l’impressione di avere assunto una decisione
mediante un
comportamento concludente, può avere effetti solo se è
espressamente previsto,
come nel caso della clausola del “silenzio assenso” o
“silenzio rigetto”. La
manifestazione tacita della volontà essere configurata come un
comportamento
concludente chiaramente ed inequivocabilmente manifestativa di una
volontà
precisa, non compatibile con una volontà diversa nel contenuto.
Ad esempio, se
un creditore restituisce il documento titolo del debito, è
chiara la volontà di
porre in atto una remissione del debito, oppure, quando il chiamato a
succede
paga con i propri beni i debiti del defunto, appare chiara la
volontà di
accettare l’eredità.
Differenze
tra dichiarazioni di volontà recettizie e non
recettizie.
Sono
recettizie le
manifestazioni di volontà che producono subito degli effetti.
Nei contratti le
dichiarazioni devono essere necessariamente recettizie. Per latri
negozi
possono anche essere non recettizie, come può essere
l’accettazione
dell’eredità. Se la volontà delle parti pone in
essere un rapporto a contenuto
patrimoniale, si è in presenza di un contratto, altrimenti (es.
matrimonio)
sarà un altro genere di negozio giuridico. Il matrimonio,
infatti, è un accordo
diretto a realizzare la convivenza e l’assistenza reciproca,
quindi secondo il
codice non può essere un contratto, perché la causa del
matrimonio non è certo
di natura patrimoniale, anche se vi sono inclusi aspetti patrimoniali
di
secondo piano, sui quali peraltro i coniugi devono esprimere un
consenso al
regime patrimoniale in cui vogliono contrarre matrimonio, in comunione
o in
separazione dei beni. Quando si fa riferimento al contratto, ci si
può riferire
sia all’atto che al rapporto.
La
causa.
La causa di un
negozio,
ed in particolare di un contratto, è la funzione o
l’obbiettivo (in astratto)
che persegue. È la ragione economico - sociale cui mira. Il
motivo, cioè
l’obbiettivo concreto che si propone la parte, non ha rilevanza
giuridica. Se
manca la causa c’è nullità (o inesistenza)
dell’atto, in quanto è elemento
essenziale, senza il quale il contratto o negozio non può dirsi
neanche
esistente. È nullo anche il contratto fondato su una causa
illecita. La causa
deve essere meritevole di tutela, oltre che lecita, cioè non
contraria a norme
imperative dello Stato o all’ordine pubblico ed il buon costume.
(1343) una
causa illecita potrebbe essere quella del contratto col quale un
soggetto si
impegna a pagare una somma ad un pubblico ufficiale. Parificata alla
causa
illecita è la causa del negozio in frode alla legge (1344). In
questo caso il
contratto è conforme alla legge, ma con questo le parti si
propongono di
ottenere un risultato che non è consentito dalla legge, mediante
un raggiro. Ad
esempio con riferimento ad un contratto in cui una delle parti è
più debole. Ad
esempio la vendita con contratto regolare di un fondo a Tizio e non a
Caio, che
è confinante e coltivatore diretto, il quale ha diritto di
prelazione. Per i
contratti tipici andrà verificata la corrispondenza della causa
a quella
stabilita dalla legge per quel contratto tipico. Sulla causa si fonda
la
distinzione tra i vari contratti (compravendita da locazione). Nel
contratto
unilaterale della donazione, per esempio, la causa è
l’arricchimento di una
parte senza vantaggio per l’altra. L’importante quindi
è andare a vedere se ciò
che le parti hanno posto in essere è ciò che
l’ordinamento riconosce come causa
per quel tipo di contratto. Per esempio se ci fosse una rendita senza
corrispettivo, non sarebbe un contratto di compravendita perché
mancherebbe la
causa di quel contratto, che notoriamente è la consegna di una
cosa contro il
prezzo.
L'oggetto.
L'oggetto
è un requisito essenziale del contratto, e consiste o
nel diritto o nella cosa che è, appunto, oggetto della
prestazione.
L'oggetto
è libero, ma dev'essere:
Possibile,
perché, ad esempio, non si può, appunto, vendere la luna,
perché il
trasferimento non potrà mai avvenire; quindi non si concepisce
un contratto in
cui il fine, a priori, si sa che non sarà raggiunto.
L'impossibilità può essere
di fatto, come nel caso della vendita della luna, oppure di diritto, ad
esempio, non si può vendere un bene demaniale, in quanto
è un bene
indisponibile (extra commercium) per definizione. Lecito, ossia non contrario a norme
imperative, all'ordine pubblico o al buon costume. Determinato o
determinabile,
perché il contratto necessita di certezze, onde evitare errori
nella formazione
della volontà. Questo significa che, per esempio, in una
compravendita il bene
deve essere indicato con certezza, nel senso che non posso vendere un
mio
fondo, ma il fondo "corneliano". L'oggetto può essere
determinato
anche da un terzo (1349), oppure cosa futura (1348), cioè che
deve ancora
venire ad esistenza, salvi i limiti di legge (es. è nulla la
donazione di cosa
futura - 771).
La
forma.
Un
altro elemento essenziale del contratto è la forma. Secondo il
principio dell'autonomia contrattuale, la forma è libera salvo i
casi stabiliti
dalla legge. Quando la legge richiede una determinata forma per un
contratto,
bisogna capire a che titolo, se ad
substantiam, cioè quando è richiesta a pena di
nullità, o se è richiesta ad probationem,
cioè quando è richiesta
per poter tutelare le parti vicendevolmente in un'eventuale
controversia sui
termini e le clausole del contratto. La forma richiesta può
anche essere di
atto pubblico (2699) (o atto solenne), per richiamare l'attenzione
degli
stipulanti sull'importanza dell'atto che stanno per concludere.
L'articolo 1350
elenca i casi in cui la forma scritta o dell'atto pubblico è
richiesta a pena
di nullità.
L'atto
pubblico, cioè quella scrittura fatta innanzi ad un notaio
o altro pubblico ufficiale (L. 15/68) con o senza i due testimoni (es.
non sono
richiesti nella costituzione di società per la quale è
richiesta la forma
pubblica solo se ci sono conferimenti di immobili). Altri casi sono
introdotti
da leggi speciali, come quelle per la tutela dei consumatori. Spesso le
parti
scelgono una forma specifica di loro iniziativa, ma solo ad
probationem. Attualmente, il problema dei contratti telematici,
o a distanza, è stato appena disciplinato dal d. lgs. 185/99. Ma
il problema
della firma digitale, prevista dal D.P.R. 513/97, un regolamento
governativo
delegato con
Il
consenso si intende realizzato (1396) quando vengono a
incontrarsi le volontà delle parti. Nella maggior parte dei
casi, la fase della
conclusione è quella preceduta dalle trattative. Soltanto quando
proposta e
accettazione si incontrano il contratto può dirsi concluso.
Proposta e accettazione
possono essere parti di un unico contesto (conclusione simultanea del
contratto), oppure in fasi successive. per il codice si ritiene
validamente
concluso il contratto nel momento in cui l'accettazione (nei termini
della
proposta) giunge al proponente (1335). L'indirizzo del destinatario
può non
coincidere ne' con il domicilio, ne' con la dimora e ne' con la
residenza, ma
potrebbe essere, in astratto, un luogo definito dalle parti. Ciò
si deduce,
come presunzione relativa, dalla possibilità lasciata al
ricevente di eludere
la dichiarazione di volontà ricevuta, se dimostra di non poter
essere stato a
conoscenza della stessa. Proposta e accettazione possono comunque anche
essere
revocate, fino al momento in cui l'altra parte non ritiene ormai
concluso il
contratto: per l'accettazione, prima che si sia data esecuzione al
contratto da
parte dell'accettante; per la proposta (ancorché questa preveda
prestazioni a
carico solo del proponente, per cui non è più revocabile
dal momento in cui è
giunta al destinatario - 1333), la revoca può avere effetto solo
se giunge
prima della proposta (1328). Il proponente può dare esecuzione
prima
dell'accettazione, ma deve darne previa comunicazione, pena il
risarcimento dei
danni (1327) (esecuzione tacita). Quando il proponente ha stabilito un
periodo
di validità dell'offerta (1329), la revoca non è efficace
in quel lasso di
tempo. L'accettazione che giungesse dopo quel termine non è
efficace, salva la
ratifica del proponente inviata per iscritto. Un'applicazione della
proposta
irrevocabile (1329) è l'opzione
(1331), la quale consiste nell'obbligo del proponente di mantenere
ferma
l'offerta, mentre l'altra parte è libera di accettare o meno,
nell'ambito di un
termine. In questo caso, infatti, la proposta si considera
irrevocabile, ma si differenzia dalla fattispecie
della proposta irrevocabile, perché nell'opzione ha natura
contrattuale;
peraltro, in quanto diritto di natura contrattuale, l'opzione
può essere
ceduta, mentre la proposta che sia irrevocabile non può essere
lasciata a terzi
se non è appunto previsto dal proponente (1332). La proposta
può essere aperta
all'adesione di altri, o anche aperta a tutti (offerta al pubblico -
1336).
L'offerta è considerata valida come proposta se comprende tutti
gli elementi
necessari a formare il corrispondente contratto. Le offerte al pubblico
sono,
ad esempio, le vetrine di un negozio che espongono della merce ed i
relativi
prezzi, in mancanza dei quali si ritiene essere un invito a proporre.
Chi fa
l'invito a proporre si riserva di scegliere il tipo di cliente, come,
ad
esempio, il ristorante, che può rifiutarsi di servire il cliente
che vuole
consumare solo alcolici, senza ordinare il pasto; in realtà , il
menù del
ristorante, malgrado riporti i prezzi dei piatti e dei vini, è
solo un invito a
proporre. Nella fase precedente la conclusione del contratto avvengono
le
trattative, nelle quali le parti devono tenere un comportamento di
buona fede
(1137). Questa responsabilità precontrattuale si riferisce
principalmente al
fatto che non si possono interrompere le trattative senza un plausibile
motivo,
senza rispondere dei danni eventualmente arrecati, c.d. danni negativi,
di
natura extra contrattuale, in quanto appunto, precedono il contratto.
Spessissimo
la conclusione del contratto è preceduta dalle
trattative. Anche in questa fase ci può essere
responsabilità, derivante
dall'obbligo delle parti di comportarsi in buona fede. Si parla in
questo caso
di responsabilità pre contrattuale o extra contrattuale.
Esistono alcuni
contratti, detti standardizzati, in
cui non esiste la fase delle trattative, dato che l'offerta è
fissa. Lo sono ad
esempio i contratti di massa di fornitura di beni e servizi, che
talvolta si
concludono quasi inconsapevolmente, come quando si acquista un
biglietto della
metro o del bus (contratti di trasporto), ma che possono essere anche
scritti,
come quello della fornitura di acqua, gas, ecc., ma anche contratti
come quelli
turistici, d'assicurazione, bancari, ecc.. Le clausole dei contratti
standardizzati sono già definite dal proponente e non sono
oggetto di
trattativa, per motivi di equità tra i diversi utenti (la parte
accettante di
un'offerta al pubblico di un servizio pubblico, anche se reso da
privati, dato
a tutti alle stesse condizioni, è un particolare tipo di
contraente).
Le
clausole del contratto hanno valore con la parte accettante se
questa ne era a conoscenza al momento della sottoscrizione o se ne
sarebbe
stato a conoscenza se avesse usato l'ordinaria diligenza.
Le clausole vessatorie, cioè quelle poste dal proponente a suo
vantaggio, senza una contropartita, sono valide solo se specificamente
accettate per iscritto (1341). Se il sottoscrittore aggiunge clausole
scritte a
mano su un modulo predisposto dall'offerente, e queste sono in
contrasto con
quelle stampate, le prime prevalgono sulle seconde (1342). Si pensi ad
una
fideiussione bancaria in cui sia precisato che il fideiussore è
solidale, ma
prima della firma, a mano, il sottoscrittore inserisce una clausola di
beneficio di escussione a suo favore, la banca non potrà
rivalersi sul
fideiussore finchè non avrà prima agito nei confronti del
debitore originario.
Esistono alcune leggi speciali che riservano una tutela particolare ai
consumatori, sulla scia delle direttive comunitarie(direttiva 97/7/CE)
e sul
trattato istitutivo della comunità europea (art. 153), e sono:
La
disciplina introdotta nel codice dalla legge 52/96 per la
tutela del consumatore dal professionista (dove per professionista si
intende
un'azienda pubblica o privata o un libero imprenditore) è di
tipo generale, ma
è speciale nei confronti degli rt. 1341 e 1342 che si applicano
a tutti i
contratti standardizzati e ai rapporti tra professionisti e
professionisti, e
che trattano la stessa materia in termini più generali e meno
tutelativi della
posizione dell'accettante; il consumatore o utente è infatti un
accettante
particolare, cioè non utilizza il contratto per fini lucrativi
professionali.
Negli art. 1341 e 1342 si tratta di contratti, come già detto,
predisposti
unilateralmente dalle aziende e destinati agli utenti. Sarebbe
impensabile che
un'azienda di fornitura dell'acqua, ed esempio, si mettesse a trattare
con ogni
utente, oltre all'esigenza di mantenere condizioni contrattuali uguali
per
tutti. Gli articoli dal 1469 bis al 1469 sexies trattano le clausole
vessatorie, il loro accertamento e la loro eventuale inefficacia, ed
infine,
l'azione inibitoria esperibile dall'associazione consumatori con
ricorso al
giudice, che mira ad eliminare dal contratto tipo utilizzato
dall'azienda
fornitrice del servizio una clausola ingiusta. In ogni caso, se una
clausola è
di dubbia interpretazione, si intende contraria agli interessi di chi
l'ha
formulata (1370). Questa disciplina tende a riequilibrare le posizioni
di
proponente e accettante, laddove il primo gode del vantaggio di poter
influenzare il mercato e fare offerte a condizioni inique.
Questi
sono
comunque tutti contratti consensuali.
Nel
contratto di trasporto aereo le clausole vessatorie sono
inserite nel biglietto, ma ciò rappresenta un'anomalia, in
quanto, come si sa
(13412), queste vanno sottoscritte specificamente. Nei formulari che
elencano
le clausole, quelle vessatorie vanno riepilogate alla fine e
sottoscritte in
calce. Questo della firma è un sistema di controllo solo formale
delle clausole
vessatorie, mentre le norme comunitarie hanno introdotto un controllo
anche
sostanziale con l'elencazione di casi concreti e la definizione di
criteri di
valutazione ed interpretazione delle clausole.
Le
clausole vessatorie, quando non sono efficaci (perché poste
senza tenere conto dei limiti imposti dalla legge), non fanno cadere
l'intero
contratto, ma solo restano inefficaci quelle. Possono essere dichiarate
inefficaci d'ufficio da parte del giudice (mentre di norma le clausole
di un
contratto vanno fatte valere su istanza di parte). Esiste una
distinzione tra
clausole vessatorie sospette, quelle cioè che si presumono tali
fino a prova
contraria, e clausole assolutamente vessatorie, anche se volute da
entrambe le
parti.
Efficacia
del contratto.
Nei
contratti consensuali, quando si è verificato il consenso, il
contratto non può più essere sciolto. Il contratto ha
forza di legge tra le
parti e non può essere sciolto se non per mutuo consenso di chi
l'ha stipulato
(1372), salvi i casi previsti dalla legge, ovverosia, ad esempio,
quando ciò
sia contenuto di una clausola a favore di una delle parti (1373 -
recesso
unilaterale), oppure per rescissione per inadempimento (1453). Il
contratto può
essere sciolto se ne viene chiesto l'annullamento.
Riassumendo,
il contratto può essere sciolto:
Il
contratto concluso vincola le parti alle clausole d'uso e a
quelle imposte dalle norme imperative. È questa la c.d. funzione integrativa operata dal codice nei riguardi del
contratto.
Le clausole d'uso sono inserite d'autorità nel contratto e
prevalgono su quelle
poste dalle parti che fossero eventualmente difformi (1339). Sono tutte
dettate
a tutela della parte più debole, la quale potrebbe essere
disposta ad accettare
condizioni inique che l'ordinamento, e il principio di uguaglianza,
condannano.
Ad esempio la disciplina degli affitti di immobili urbani tutela gli
inquilini,
essendo questa una categoria che si trova a dover soddisfare un bisogno
fondamentale, per cui a volte è disposta ad accettare condizioni
inique pur di
procurarsi un alloggio. Il contratto include anche le clausole d'uso, a
meno
che non siano state volutamente ed espressamente escluse dai contraenti
(1374).
Il
recesso.
È
la facoltà, potestativa, di una delle parti, o anche di
entrambe, di sciogliere il contratto, ed è legittimata dalla
legge in taluni
casi, oppure risulta dallo stesso contratto. Il recesso è
previsto per alcuni
contratti tipici, mentre alcuni tipi di contratto l'escludono. L'art.
1373
detta la regola generale del recesso, ma ci sono alcune
specializzazioni. Ad
esempio in tema di contratto di lavoro subordinato, il recesso è
previsto per
entrambe le parti, ma è più a favore del lavoratore, ed
ha una maggiore
onerosità per il datore. Quest'ultimo, infatti, può
recedere (licenziare) solo
motivatamente, e con giusta causa (non una motivazione qualsiasi). Il
lavoratore, invece, può recedere (dimettersi) a sua discrezione.
Analogo tenore
si ha per i contratti agrari, e anche nelle locazioni in generale, in
cui le
parti non godono di pari condizioni. Il recesso è consensuale
quando sono le
parti a prevederlo, salvo l'eventuale divieto da parte dell'ordinamento.
La
penale.
Le
parti possono definire anche una eventuale caparra
convenzionale, che costituisce il corrispettivo per poter usufruire
della
clausola di scioglimento del contratto, la c.d. caparra
penitenziale,
o più semplicemente possono prevedere una clausola
penale
(1382) da versare invece della prestazione, una sorta di
liquidazione (determinazione in denaro) anticipata del danno.
Quando
la clausola penale non è prevista, il creditore può
chiedere il risarcimento del danno da inadempimento, provando la
consistenza e
la relazione del danno alle responsabilità contrattuali del
debitore. La penale
viene inserita proprio per evitare quest'onere della prova nella
relativa
azione in giudizio. Infatti, quando la clausola è inserita nel
contratto, vi è
la presunzione del danno, per cui è chi
danneggia che deve dimostrare il contrario (13822), e il creditore
può ottenere
la penale. La penale serve quindi a facilitare il risarcimento e
migliorare la
posizione del creditore. Se non si specifica, nella clausola, il
diritto del
creditore al risarcimento dell'eventuale maggior danno, la penale
esaurisce la
controversia nell'importo in cui è stata fissata. Se il danno,
invece, è
inferiore, è ammesso il ricorso del debitore al giudice per la
riduzione della
penale (1384). Il creditore può scegliere se chiedere
l'esecuzione della
prestazione oppure il pagamento della penale, a meno che questa si sia
convenuta anche per il solo ritardo (1383) o per il parziale
adempimento, caso
in cui può cumulare le richieste.
La
caparra.
La
caparra
confirmatoria
è invece
uno strumento di rafforzamento del contratto che rappresenta un
risarcimento
anticipato per responsabilità contrattuale (inadempimento o
ritardo), e
consiste nella consegna, da parte del debitore al creditore, di una
somma di
denaro o di altre cose fungibili che, in caso di inadempimento, possono
essere
fatte proprie dall'avente causa, previo recesso. Il danneggiato
può comunque
scegliere se recedere e trattenere la caparra, oppure se chiedere la
prestazione o la rescissione, nel quali casi potrà chiedere un
risarcimento ad
hoc. Se l'inadempimento è di chi ha ricevuto la caparra, l'altra
parte può
recedere e chiedere la restituzione nel doppio. Quando la prestazione
è
adempiuta regolarmente, la caparra deve essere restituita, ovvero
imputata a
prestazione. È molto frequente nei contratti preliminari (es.
preliminare di
vendita immobiliare) e di compravendita.
(stato di necessità e
stato di bisogno con prezzo > del 50% del
valore reale)
contratto)
(inadempimento, impossibilità
sopravvenuta, eccessiva onerosità
sopravvenuta)
annullabilità
(vizio di volontà)
Inefficacia (stabilita dalla legge o se
accordo
contrario alla legge)
Rescissione.
I
contratti possono essere sciolti solo nei casi previsti dalla
legge con il recesso unilaterale, la rescissione e la risoluzione.
La
rescissione è un mezzo concesso dalla legge determinato da
patologie genetiche, e si può fare solo in casi in cui al
momento della stipula
una delle parti risulta essere stata danneggiata, ad esempio, il
contratto
concluso in condizioni di pericolo (1447). Il pericolo si riferisce
alla
persona, non ai suoi beni. La rescissione del contratto concluso in
stato di
pericolo si verifica, ad esempio, quando una persona salva un'altra da
una
situazione di pericolo solo, ma a patto di un cospicuo compenso. Alla
base di
una rescissione vi è sempre una condizione di squilibrio tra le
parti al
momento della stipula, ed una relativa lesione dei suoi interessi
(1448).
L'azione generale di rescissione, invece di quella dello stato di
pericolo,
prevede uno stato di bisogno, inteso come economico, noto alle parti, a
causa
del quale una parte accetta condizioni inique. L'iniquità
è determinata da uno
svantaggio pari o maggiore al 50% del valore effettivo della
prestazione. Per
esempio, Tizio, che ha bisogno di denaro, per poter essere operato, si
rivolge
a Caio, il quale, per sfruttare la situazione, acquista la casa di
Tizio ad un
prezzo pari alla metà del suo valore commerciale. In questo
caso, dunque, Tizio
potrà rivolgersi al giudice per ottenere la rescissione del
contratto, per
lesione ultra dimidium. Ad ogni modo
il convenuto può chiedere di modificare l'offerta superando
l'iniquità (1450).
I contratti aleatori non possono essere rescissi, perché la loro
causa
contempla il rischio di perdita di una parte a vantaggio dell'altra. In
questi
contratti il rischio va molto oltre la normalità.
La
prescrizione dell'azione è di un anno (1449) dalla conclusione
del contratto. L'eccezione di rescissione non può essere opposta
se l'azione è
prescritta. Se la condizione iniqua implica un reato, la prescrizione
sarà
quella del reato (29473).
Risoluzione.
La
risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive può
essere chiesta al giudice per inadempimento della controparte. Si
può richiede
o la prestazione coatta o la risoluzione, in ambo i casi si ha diritto
al
risarcimento. Si può mutare il petitum in giudizio da
prestazione coatta a
risoluzione, ma non viceversa (1453).
La
risoluzione è determinata da patologie funzionali, cioè a
causa
di eventi verificatisi dopo la conclusione del contratto. Il caso
più frequente
è quello di risoluzione per inadempimento, ma la si può
chiedere anche per
impossibilità sopravvenuta di adempiere, e per eccessiva
onerosità sopravvenuta
nell'adempiere.
Esistono
casi speciali di risoluzione, disciplinati da leggi
speciali, come nel caso del contratto di lavoro subordinato, o peri
contratti
di fondi rustici.
Nei
casi di risoluzione per inadempimento si distinguono le
risoluzioni di diritto e quelle del giudice. Nelle prime il contratto
si
scioglie automaticamente, nelle seconde avviene per sentenza
(costitutiva, cioè
gli effetti si producono dal momento della sentenza) del giudice. La
risoluzione
di diritto ha come presupposto l'inadempimento, che deve avere una sua
rilevanza (1455). In caso d'inadempimento, si può chiedere al
giudice
l'esecuzione del contratto, oppure la risoluzione, come meglio si
crede; ma per
ottenere la risoluzione di diritto deve essere stata inclusa una
clausola
risolutiva espressa nel contratto, quindi, verificatosi
l'inadempimento, la
parte lesa comunicherà di volersi avvalere della clausola, ma
solo dopo almeno
3 giorni dalla scadenza del termine previsto dal contratto per
l'adempimento,
perché, anche in assenza della clausola risolutiva espressa, se
il termine è
essenziale (1457), l'inadempiente ha tempo 3 giorni per comunicare che
intende
adempiere, trascorsi i quali il contratto può intendersi
risolto. Se la clausola
non è stata inserita, e il termine non è essenziale, per
dar luogo ad una
risoluzione di diritto, devono verificarsi 3 requisiti:
Per
l'eccessiva onerosità sopravvenuta e impossibilità
sopravvenuta della prestazione, è necessario il requisito della
imprevedibilità
ed eccezionalità degli eventi.
Nullità,
annullamento e inefficacia.
Le
cause di invalidità si dividono in nullità ed
annullabilità.
Può darsi che un contratto (e in generale un negozio) nasca
senza uno degli
elementi essenziali, rendendolo nullo, cioè inesistente di
fronte
dell'ordinamento (la nullità deve e può essere richiesta
da chiunque ne abbia
interesse). Oppure può verificarsi che il contratto nasca in
presenza di un
vizio di uno degli elementi, senza che per questo sia nullo, ma
può essere
annullato su richiesta di una delle parti. Nel primo caso si ha la nullità,
nel secondo la parte interessata usufruirà dell'azione di annullamento.
La
nullità (1418) non fa produrre effetti, e si verifica:
Esistono
altre ipotesi al di fuori di queste, e ipotesi in cui il
contratto non è nullo del tutto, ma solo la parte che, ad
esempio, è contraria
alle norme imperative, una clausola, o un termine. Per esempio, la
locazione
deve avere un termine di almeno 4 anni, e se un contratto prevedesse
una durata
inferiore, tale termine si adeguerebbe alla norma. Questo, però,
a patto che la
clausola non sia essenziale per la volontà delle parti.
Il
negozio nullo può essere convertito in un altro valido con una
novazione, se le condizioni lo consentono. Per la conversione ci deve
essere un
requisito oggettivo, che la forma e la sostanza del contratto possano
confluire
nella forma e sostanza di un diverso contratto, ed un requisito
soggettivo,
rappresentato dalla volontà delle parti a non concludere un
contratto che non
può avere effetti, e che se fossero stati a conoscenza di un
eventuale simile
risultato avrebbero stipulato il contratto che risulterà dalla conversione (es. 2701 conversione di
atto pubblico in scrittura privata, 602 conversione di testamento
segreto in
olografo).
Quando
c'è nullità, il contratto non esiste per l'ordinamento
giuridico, per questo non produce alcun effetto. La nullità non
è prescrivibile
(salvo usucapione di terzi sul bene oggetto), e può essere
dichiarata anche
d'ufficio dal giudice.
L'annullabilità,
invece, è una patologia del contratto che scatta
in presenza di vizi meno gravi. Il negozio annullabile è affetto
da qualche
vizio, ma ciò non è letale per la sua validità,
perciò produce effetti, che
sono validi fino alla richiesta di annullamento da parte
dell'interessato
(1441), il quale, però, può ratificarli o sanarli (con
atto di convalida),
oppure può far decorrere il termine di prescrizione (5 anni -
1442). L'atto di
sanatoria deve citare il contratto e i suoi vizi. Non si prescrive
l'eccezione
di annullamento(1442). Se ad esempio, passano i 5 anni e il contratto
era
viziato, dovrò osservare il contratto comunque, ma se devo
ancora pagare una
parte del prezzo, e per questo vengo citato in giudizio dalla
controparte,
posso eccepire l'annullabilità per vizio, ad esempio, della
volontà.
L'annullabilità
è prevista quando il negozio è posto in essere da un
soggetto incapace di
contrattare (1425) (incapacità legale - cioè maggiore
età). L'annullamento può
essere domandata dall'incapace o dal suo rappresentante. Se per
interdizione
legale, potrà essere chiesto da chiunque ne abbia interesse. Il
negozio è
annullabile a istanza di parte per incapacità naturale (428),
cioè per
incapacità di intendere e di volere, ma il contratto è
annullabile solo se c'è
mala fede della controparte (eccetto la donazione che, invece, è
annullabile
anche senza la mala fede - 775). Il termine di prescrizione decorre dal
momento
in cui l'incapace legale ha compiuto la maggiore età (1442).
L'annullabilità
è proponibile anche per vizi della volontà, ossi a
quando questa si è formata con: errore, violenza o dolo.
Il
termine di prescrizione decorre dal momento in cui fu scoperto
l'errore (1442).
Altre
ipotesi sono contemplate da casi specifici del codice o di leggi
speciali.
Peraltro
si possono verificare casi di contratti che sono validi,
non hanno vizi, eppure non producono effetti. Questo è il caso
dell'inefficacia, che può dipendere dalla
mancanza di un presupposto giuridico che fa si che non si possano
produrre gli
effetti voluti. Per esempio, il testamento, per produrre effetti, deve
verificarsi la morte certa del testatore; se ciò non avviene,
cioè se non si
verifica la condicio iuris, il
testamento non ha efficacia.
L'inefficacia
può dipendere dall'applicazione delle norme sulle
clausole vessatorie (1469 bis e ss.), oppure dal mancato rispetto delle
norme
sulla pubblicità dei contratti sugli immobili, che in tal caso
non sarebbero
opponibili ai terzi.
Inefficacia
in presenza di condizione o termine
(elementi accidentali del contratto).
Esistono
condizioni di fatto che possono impedire l'efficacia del
contratto, e sono le condicio facti,
cioè la condizione sospensiva o risolutiva. Quindi, altro
esempio di negozio
inefficace, è quello sottoposto a condizione, per cui gli
effetti si hanno se
si verifica la condizione (sospensiva), oppure cessano se si verifica
(risolutiva).
La
condizione è un evento futuro e incerto al quale si assoggetta
la produzione degli effetti. Il termine, invece, cui si è fatto
già
riferimento, è un evento futuro e certo.
Esistono
negozi giuridici che non ammettono l'apposizione di
elementi accidentali, come il matrimonio e l'accettazione o la rinuncia
dell'eredità, oppure il riconoscimento di un figlio.
Il
contratto può essere inefficace anche solo rispetto a certi
soggetti. Ad esempio, il debitore, per sottrarre ai creditori i propri
beni, li
vende, facendo venire meno le sue garanzie privilegiate, o la semplice
garanzia
patrimoniale. In tal caso, avendo il debitore, l'intento di danneggiare
il
creditore, quest'ultimo avrà diritto all'azione revocatoria,
che, se accolta,
porterà all'inefficacia del contratto di compravendita nei soli
confronti del
creditore. Per il terzo acquirente, se a titolo oneroso e in buona
fede, il
contratto avrà valore. Mentre se il terzo acquirente era a
conoscenza della garanzia
sul bene, il creditore può agire direttamente e anticipatamente
sulla cosa
senza che il credito sia scaduto.
Responsabilità
civile extracontrattuale
(o Papiniana - 1173).
Le
fonti delle obbligazioni sono, dunque, fondamentalmente, i
contratti e gli atti o fatti illeciti (2043). Per gli atti illeciti si
parla di
responsabilità extracontrattuale, con riferimento ad una
pluralità di atti, tra
i quali si sono aggiunti, ad opera della giurisprudenza della Corte di
cassazione, anche quelli relativi ad interessi legittimi. L'art. 2043
contiene
la fattispecie generale di illecito civile, con obbligo del
risarcimento, che è
un principio giusnaturalistico. Si parla di responsabilità
Aquiliana, perché
era già prevista in una lex Aquilia dei Romani. La fattispecie
generale si
applica dove non esiste una disciplina specifica (2048 e ss. o leggi
speciali).
La sentenza della cassazione fa seguito all'art. 34 della Bassanini 3
del '98,
ed ha una valenza molto ampia.
Art.
2043. Risarcimento
per fatto illecito.
Qualunque fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno
ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
Sono
evidenziabili due elementi
costitutivi del fatto illecito:
uno soggettivo,
della consapevolezza (dolo
o colpa) di colui che ha agito;
e uno oggettivo, l'ingiustizia
del danno, ovvero la lesione di un interesse meritevole di
tutela. E sono due elementi essenziali, perché entrambi sono
necessari, ma non
sufficienti. Cioè, chi cagiona un danno ingiusto, ma ne' con
colpa e ne' con
dolo, può essere tenuto al risarcimento. Tra il danno e il
comportamento di chi
ha agito deve esserci il nesso di causalità. La colpa consiste
nell'inosservanza di leggi, regolamenti, ordini dell'autorità,
discipline
varie, con un'azione svolta con negligenza, imprudenza o imperizia, ma
senza il
carattere della volontarietà del danno. Il dolo implica invece
una certa
intenzionalità nel cercare gli effetti che portano al
danneggiamento. A ciò va
aggiunto il criterio di imputabilità
(2046), cioè la capacità
naturale di agire, la capacità di intendere e di volere, a meno
che il suo
stato di assenza non dipenda da causa (es. ubriachezza), appunto
imputabile al
soggetto agente.
L'incapace
legale, invece, risponde del danno causato (es. il
minore d'età). Se il soggetto non era in grado di intendere e di
volere, non
sarà ritenuto responsabile e non dovrà risarcire il
danno. Infatti, nel caso di
danno arrecato da un incapace, il risarcimento è dovuto dai
genitori o dal suo
sorvegliante, se questo non dimostra di non aver potuto impedirlo
(2047), e se
questo non può risarcire, il giudice può stabilire un
indennizzo a carico
dell'incapace. Se un bambino, invece, è capace naturale
(capacità naturale =
capacità di intendere e di volere), risponde lui in prima
persona. È imputabile
solo il soggetto che ha agito con la capacità naturale.
Questi
sono i presupposti su cui si basa la responsabilità
extracontrattuale. La fattispecie del 2043 è talmente generica
da avere un ambito
di applicazione molto ampio. La responsabilità civile è
una forma atipica,
mentre tipica è quella penale. Lo stesso codice, però,
subito dopo descrive
casi specifici, e poi lo fanno altre leggi speciali. In alcuni casi il
legislatore prescinde dalla colpa o dal dolo, lasciando irresponsabili
alcuni
soggetti. Bisogna inoltre sottolineare come colpa o dolo non sono
imputabili ai
soggetti che danno una giustificazione in base agli articoli 2044 e
2045:
legittima difesa e stato di necessità. Per il secondo è
previsto solo un
indennizzo stabilito dal giudice in via equitativa. Per il diritto
penale, la
legittima difesa è la reazione proporzionale all'offesa,
perciò l'azione
commessa per opporre una resistenza, non un'offesa ulteriore. Lo stato
di
necessità, ad esempio, si configura
quando un automobilista si scontra contro un veicolo in
sosta
per
evitare di investire un ciclista ubriaco che gli ha tagliato la strada;
l'automobilista non dovrà pagare il risarcimento del danno, ma
semmai un
indennizzo. Il risarcimento toccherà al ciclista, nella
differenza tra
indennizzo e danno.
La
responsabilità extracontrattuale esula da uno specifico obbligo
da rispettare, come nella responsabilità contrattuale, ma
piuttosto un generico
comportamento riguardoso dei danni che si possono arrecare al prossimo.
Una
responsabilità extra contrattuale può trasformarsi in
contrattuale se si
verifica in violazione di un ordine o di un obbligo preciso
preesistente.
Questo può verificarsi, per esempio, in un incidente stradale,
il soggetto
danneggiato chiede il risarcimento; se il danneggiante non adempie, il
danneggiato si rivolgerà al giudice, il quale emanerà una
sentenza di condanna
al pagamento, cioè un ordine, ossia un obbligo preciso. Se dopo
la sentenza il
convenuto continua a non voler pagare, sarà soggetto a
responsabilità
contrattuale. Gli effetti si riferiscono soprattutto alla prescrizione.
Il
diritto di credito derivante da contratto, si prescrive in 10 anni,
mentre
quello derivante da responsabilità extracontrattuale, o meglio
la relativa
azione di risarcimento, si prescrive in 5 anni, che si riducono a 2
anni per
gli incidenti stradali tra veicoli. L'ipotesi di responsabilità
pre
contrattuale è una variazione di quella extracontrattuale,
quindi le si
applicano le norme del 2043 e seguenti.
Nella
responsabilità extracontrattuale, l'onere della prova, in via
generale, è a
carico del danneggiato, che deve provare sia l'esistenza dell'elemento
oggettivo, il danno ingiusto (nel suo ammontare), che quello soggettivo
della
colpa (o il dolo). Il danno dev'essere ingiusto, quindi, per esempio,
è
ingiusto il danno apportato ad un fondo per l'aver costruito un
edificio senza
il rispetto delle distanze imposte dal piano regolatore (872). Il danno
non
sarà ingiusto se il vicino costruisce nel rispetto delle norme
del piano
regolatore, anche se ostruisce la vista panoramica. Il terzo elemento
è il
nesso di causalità, cioè il rapporto di
dipendenza del danno dal
comportamento del danneggiante. Questo nesso di causalità esiste
quando esiste
una causalità adeguata, cioè, le conseguenze imputate al
danneggiante devono
essere quelle che in un determinato momento storico potevano essere
determinate
da quel comportamento. L'intervenire di eventi eccezionali vanno invece
ad
intervenire sul nesso casualità, cioè la
fatalità dell'insorgere del
danno a causa di eventi eccezionali che da soli avrebbero causato il
danno,
mentre nel nesso di causalità il comportamento dell'agente
è causa del danno.
Ad esempio, le complicazioni delle condizioni del ferito di un
incidente
stradale non sono di tipo eccezionale. Se invece il ferito subisce un
aggravamento per causa di un ulteriore incidente avvenuto durante il
trasporto
in ambulanza, allora si configura un caso di evento eccezionale, e, in
quanto
tale, non imputabile al responsabile del sinistro precedente, anche se
a causa
di quello il ferito si trovava a bordo del veicolo di soccorso. Quindi la responsabilità
extracontrattuale si relaziona ai
soli danni immediati e diretti causati da qualcuno. Questo è il
senso del terzo
elemento dell'atto illecito: l'imputabilità.
Riassumendo,
la responsabilità extracontrattuale dipende da tre
elementi costitutivi:
Inoltre,
da qualche anno a questa parte, per danno risarcibile si
deve intendere, oltre che la lesione di un diritto assoluto (la
proprietà,
oppure un diritto della personalità, per esempi), anche la
lesione di un
interesse inteso come diritto di credito, che ad esempio non venisse
onorato
dal debitore per colpa di un terzo, il quale potrà essere
chiamato a rispondere
del danno direttamente dal creditore principale. Oggi, anche un giudice
amministrativo può condannare al risarcimento. Si assiste,
quindi, ad una
espansione dell'istituto del risarcimento.
Il
danno economico è risarcibile secondo i principi della
responsabilità contrattuale, quindi, sia come danno emergente
che come lucro
cessante (la lesione e le sue dirette conseguenze). Ovviamente l'onere
della
prova grava sempre sul danneggiato.
Un
altro aspetto importante è che risarcibile non è soltanto
un
danno di natura economica. Peculiarità della
responsabilità extracontrattuale è
quella di dar luogo al risarcimento anche di danni non patrimoniali,
come il
danno biologico. Il codice prevede espressamente il risarcimento del
danno no
patrimoniale, vincolandolo ai soli casi previsti dalla legge (2059),
per
esempio, la raccolta non autorizzata di dati personali, ai sensi della
legge
675/96 (privacy).
Tipologia
del danno.
I
danni possono essere di tre tipi: economico,
non
patrimoniale,
biologico.
Quest'ultimo è di derivazione giurisprudenziale, ed è
quantificabile con
l'ausilio di alcune tabelle predeterminate dai tribunali e dai periti.
Il danno
non patrimoniale di cui al 2059, corrisponde ad un risarcimento solo
nel caso
in cui l'illecito civile si rifletta da un reato penale, e si configura
nel
danno morale, ossia il prezzo per il dolore. Nel danno economico
rientra
l'incapacità lavorativa, ossia quella situazione di
impossibilità a produrre il
proprio reddito col lavoro, e si quantifica anch'esso con l'ausilio di
tabelle.
Se il danno è riferito alla persona, scattano automaticamente
tutti e tre i
tipi di danno. Si è quindi considerato ingiusto che la persona
che era stata
privata della capacità lavorativa non fosse risarcita del danno.
Il danno
biologico è risarcibile indipendentemente dalla natura penale
dell'illecito. A
questo riguardo si è espressa
Riepilogando,
per atto o fatto illecito, sono risarcibili: il
danno economico (lucro cessante e danno emergente), il danno morale
(quando è
associato ad un reato) e il danno biologico (che un D.L. ha cercato di
disciplinare nella sua determinazione, ma che poi è stato
convertito in legge
con modifiche senza la disciplina dettata in materia di risarcimento).
Il danno
biologico è stato concesso anche ai parenti del danneggiato che
hanno lamentato
l'insorgenza di una nevrosi connessa all'assistenza che hanno dovuto
prestare
al parente paziente.
Responsabilità
oggettive.
Rispetto
alla norma generale (2043), esistono anche ipotesi
specifiche disciplinate dagli art. 2049 - 2052, e anche da leggi
speciali. Ad
esempio la legge Mammì n.223/90, in materia di rettifica
radiotelevisiva di
informazioni errate trasmesse che hanno danneggiato l'immagine di
talune
persone. Ma ci sono norme speciali anche in materia di
responsabilità del
produttore di un bene difettoso immesso sul mercato, ed anche in
materia di
danno ambientale con relativo risarcimento allo Stato (art.
La
responsabilità dell'imprenditore che immette un prodotto
difettoso sul mercato è ammessa, anche se non c'è colpa o
dolo (elemento
soggettivo). È un tipo di responsabilità detta oggettiva,
perché le manca
l'elemento soggettivo della colpa, e che trova radicamento nel codice
dentro
norme non esplicite, come l'art. 2049 sulla responsabilità dei
padroni e dei
committenti, che pur non avendo colpa per gli atti compiuti dai loro
domestici
o commessi, devono comunque risponderne (es. la collaboratrice
domestica, nel
fare le pulizie fa cadere un vaso dalla finestra su un'auto, la
responsabilità
sarà del padrone di casa).
Un
altro
esempio di responsabilità oggettiva è quello derivante
dalla custodia di
animali.
In
sostanza, si ha responsabilità oggettiva, quando il soggetto
è
chiamato a rispondere senza che nessun addebito soggettivo possa
essergli
contestato.
Sono
più
chiare le ipotesi di responsabilità oggettiva delineate dalle
leggi speciali.
Invece,
nel codice, come per l'art. 2052, per alcuni autori è
responsabilità oggettiva, mentre per altri è
responsabilità aggravata.
Anche
il 4° comma del 2054 è da considerarsi una
responsabilità
oggettiva, perché il proprietario del veicolo, l'usufruttuario e
il conducente,
sono responsabili per i difetti di fabbricazione del veicolo che
causino danni
a terzi.
Nei
casi già illustrati e previsti dagli art. 2047 e 2048, quello
che interessa ai fini del risarcimento è la capacità
naturale di intendere e di
volere, quella d'agire è relativa. In particolare, il 2048 si
riferisce alla
responsabilità dei genitori che devono rispondere degli atti
commessi dal
minore che era capace di intendere e di volere, altrimenti si configura
il caso
precedente del 2047. Se, però, il genitore dimostra di aver
fatto tutto il
possibile per evitare il danno, a rispondere sarà chiamato il
minore stesso.
Non è un caso di responsabilità oggettiva, perché
sul soggetto incombe la
responsabilità per non aver vigilato diligentemente sul minore.
Per questa
fattispecie è previsto il requisito della convivenza, che
è fondamentale.
Nell'esempio dei genitori separati, dove il figlio minorenne coabita
con un
solo genitore, il quale ne ha l'onere della vigilanza, la
responsabilità del
2048 si fa risalire solo al genitore che lo ha in affidamento; nel caso
che il
danno emerga dal fatto commesso mentre il minore era temporaneamente
vigilato
dall'altro genitore, alcune sentenze hanno fatto risalire la
responsabilità
sempre al genitore che lo aveva in affidamento, cioè che vi
coabita, perché le
Corti hanno ritenuto che l'educazione abbia importanza primaria
rispetto alla
vigilanza.
Altri
casi di responsabilità oggettiva è quella del produttore
di
un bene difettoso (Decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio
1988, n.
224 - Attuazione della direttiva CEE n. 85/374 relativa al
ravvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati
membri in
materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, ai
sensi dell'art.
15 della l. 16 aprile 1987, n. 183). Per questo caso il termine di
prescrizione
dell'azione risarcitoria è di 3 anni. Se però non si
configurano tutti gli
estremi per la responsabilità del produttore, espressamente, il
decreto dice
che non sono esclusi i diritti al risarcimento garantiti da altre leggi
eventuali. Restano comunque esclusi da questa disciplina i prodotti
agricoli
che non sono trasformati. Sono però parificati ai prodotti
trasformati quelli
che vengono impacchettati e confezionati, perché comunque, in
qualche misura,
sono stati manipolati. Nel D.P.R. 224/98, oltre alla riduzione della
prescrizione, vi è un'altra norma in favore del produttore,
quella della
decadenza dopo 10 anni dall'immissione sul mercato di quel tipo di
prodotto.
Quando
un soggetto muore il suo patrimonio va ai suoi eredi. La
terminologia successione mortis causa sta ad indicare che un soggetto
subentra
nei diritti del defunto. Anche la costituzione definisce le regole
generali delle
successioni facendo distinzione tra legittima e testamentaria. Tutto
questo è
legato al sistema della proprietà provata. Il codice tratta
delle successioni
nel libro secondo, a partire dall'art. 456. Questo è
simbolicamente
significativo, perché, il fatto si seguire direttamente il libro
delle persone
e della famiglia, vuol dire che questo istituto serve principalmente
alla
tutela del patrimonio di famiglia. È il problema della tutela
della famiglia
legittima del defunto. Ma è un istituto che trova la sua
importanza nel fatto
di dare un proprietario alle cose del patrimonio. Solo in estrema ratio
è lo
Stato a essere erede, proprio per assicurare in ogni caso un titola, al
fine di
evitare il problema sociale dei beni vacanti. Un'altra ragione e di
carattere
finanziario, dato che lo Stato fa dei prelievi sui trasferimenti dei
cespiti
patrimoniali.
Erede
universale e legatario.
L'erede
universale è colui che subentra in tutti i rapporti del de
cuius, anche quelli passivi, è vi risponde anche con il proprio
patrimonio. Il
successore a titolo particolare (legatario), è colui che succede
solo nei
rapporti espressamente indicati. Mentre per l'erede è richiesta
l'accettazione,
per il legatario no, anche se può comunque rinunciare. Il
legatario succede
immediatamente. Nei confronti del legatario è tenuto l'erede,
quindi il primo
può chiedere al giudice di fissare un termine per l'accettazione
dell'eredità.
Talvolta, però, non è semplice capire se il chiamato a
succedere nel testamento
sia erede o legatario.
Successione
legale.
Nel
nostro ordinamento, la successione mortis causa, si apre
nell'ultimo domicilio del defunto. C'è anche la
possibilità di redigere un
testamento, che è un atto di liberalità mortis causa.
Quindi, nell'apertura
della successione, bisognerà vedere prima di tutto se c'è
un testamento. Se è
così, si avrà una successione, in parte per testamento, e
in parte legale. Se
non c'è testamento si darà luogo alla successione legale.
La vocazione
ereditaria
è la chiamata a succedere. Una volta individuato l'erede,
perché
sia tale, c'è bisogno della sua accettazione. L'accettazione
può essere anche
tacita.
Successione
necessaria.
Il nostro
codice definisce 6 categorie di succedibili, cioè fino al 6°
grado di
parentela, dopo di che succede lo Stato. C'è, però, una
forte tutela della
famiglia evidenziata dalle norme della successione necessaria
in favore di eredi legittimati, cioè indicati
tassativamente dalla legge.
Sono
eredi legittimati:
Una
quota dell'asse ereditario deve essere necessariamente riservata a questi
eredi. Le norme
della successione legittima hanno riguardo di questo. E'
invece nella successione testamentaria che si può verificare una
lesione degli
interessi degli eredi legittimati. Se il testamento non rispetta le
quote
legittime, le sue disposizioni di volontà non sono nulle, ma
inefficaci nei
confronti dei legittimati, i quali hanno 10 anni di tempo per impugnare
il
testamento è chiedere l'azione di riduzione.
Questa è
un'azione personale che non può neanche essere chiesta dai
creditori dell'erede
leso nella legittima. Tutto questo, perché, in ragione della
tutela della
famiglia, esiste la quota legittima, alla quale, però, i
legittimati possono
rinunciare non richiedendone l'azione relativa.
Successione
testamentaria.
I
testamenti ammessi dal nostro ordinamento sono 3: olografo,
pubblico e segreto. L'olografo è quello privato redatto dal
testatore di suo
pugno, gli altri sono quelli redatti dal pubblico ufficiale. L'olografo
viene
tenuto con se' dal testatore nella sua abitazione.
Può
succedere che il testamento sia nullo o che sia annullabile.
Ognuno dei testamenti richiede delle forme specifiche, in mancanza
delle quali
si arriva alla nullità. L'olografo deve essere scritto di pugno
e sottoscritto;
è richiesta poi anche la data, ma ad probationem rispetto ad
altri testamenti
precedenti, oppure in controversie riferite alla capacità di
intendere e volere
del testatore prima di un determinato giorno. La sottoscrizione serve
per
identificare la paternità dell'atto e può anche essere
una sigla o un
diminutivo usuale. La data può anche essere espressa in modo
implicito (natale
2000). Il testamento pubblico è ricevuto verbalmente dal notaio
e messo per
iscritto in presenza di 2 testimoni, che ascolteranno la rilettura da
parte del
testatore, prima di sottoscriverlo (forma solenne). Il testamento
pubblico è
l'unico che può essere fatto da chi non sa leggere è
scrivere. Il testamento segreto
può essere scritto dal testatore, o da un terzo (nel qual caso
deve riportare
la firma del testatore sopra ogni mezzo foglio). Il notaio poi quando
lo
riceve, deve assolvere altre necessarie formalità per rendere
valido il
testamento segreto. Il notaio non conosce il contenuto, ma adempie solo
alle
formalità del visto.
Istituti
di tutela.
Ci
sono degl'istituti tipici delle successioni, come l'azione
interrogatoria,
o la rappresentazione,
che consente la successione
dei discendenti in luogo dell'ascendente che non vuole o non può
diventare
erede. Questo però si applica solo quando il chiamato a
succedere è figlio o
fratello del defunto. In questo caso, si avrà una successione
per stirpi.
Un
altro istituto tipico è quello della collazione,
che ha lo scopo di assicurare la parità di condizione
tra figli legittimi e naturali e il coniuge, i quali devono conferire
agli
eredi tutto ciò che hanno avuto dal defunto in donazione, per
riequilibrare
eventuali situazioni di disparità di trattamento. Ovviamente
salva la lesione
della legittima. Ci sono beni che sono sottratti alla collazione come
per
esempio le donazioni di modico valore fatta al coniuge e le spese di
mantenimento.
Accettazione
dell'eredità con beneficio
d'inventario del successore a titolo universale.
Un
caso di tacita accettazione dell'eredità è quando l'erede
è nel
possesso dei beni del defunto. In questo caso ha 3 mesi di tempo per
dichiarare
o no se accetta l'eredità. L'inventario si deve fare entro 40
giorni
dall'accettazione con beneficio d'inventario. Un altro caso di tacita
accettazione dell'eredità è la riscossione di un credito
del defunto. Il
termine per accettare l'eredità è di 10 anni . Ci sono
casi in cui il soggetto
deve accettare con beneficio d'inventario, come nel caso dei genitori o
del
tutore che accettano l'eredità per conto di un figlio minore o
di un interdetto
giudiziale. Devono poi accettare con beneficio d'inventario anche tutte
le
persone giuridiche, quindi anche gli enti pubblici.
1.
GENERALITA’
La
responsabilità
patrimoniale si può definire come «L’assoggettamento
del patrimonio del
debitore inadempiente al soddisfacimento forzoso delle ragioni del
creditore».
La
responsabilità si
manifesta come conseguenza
dell'inadempimento del debitore e concorre e realizzare la tutela
giuridica
del credito. In materia vigono due principi fondamentali:
‑
l'assoggettamento
cade su tutti i beni presenti e futuri del
debitore (cioè anche quelli pervenuti dopo l'assunzione
dell'obbligo: v. art.
2740
C.C.);
‑ inoltre
tutti i
creditori hanno uguale diritto di
essere soddisfatti sui beni del debitore (garanzia generica), salve le
cause
legittime di prelazione (art. 2741 c.c.) che sono: il pegno, l'ipoteca
e i
privilegi, i quali attribuiscono ai crediti cui accedono il diritto ad
essere
soddisfatti prima degli altri su taluni beni.
Esaminiamo,
innanzitutto, le cause legittime di prelazione che sono, per espressa
previsione legislativa, il privilegio,
il pegno e l'ipoteca: il creditore da esse assistito è
preferito, nel
riparto del prezzo ricavato dalla vendita forzata, rispetto agli
altri
creditori (chirografari).
2.
I
PRIVILEGI
Il privilegio
è un titolo di prelazione che la legge accorda al
creditore in considerazione della particolare natura o causa del
credito (art.
2745 c.c.).
Fonte dei
privilegi è
soltanto la legge: le
parti non possono creare altri crediti privilegiati oltre quelli
previsti dal
legislatore.
I privilegi si
distinguono in due categorie:
1) privilegio
generale,
che è solo mobiliare e si fa valere
sul ricavato della vendita coattiva eseguita su tutti i
beni mobili del debitore.Esso consiste in un particolare
riconoscimento fatto alla causa del credito, indipendentemente da ogni
rapporto
con i beni mobili che sono sottoposti ad esecuzione.
2) privilegio
speciale,
che può essere mobiliare o immobiliare e
grava soltanto su determinati beni del debitore. Esso è
giustificato dal
particolare rapporto di connessione esistente tra il credito e la cosa
su cui
si esercita.
I privilegi
speciali,
se la legge non dispone diversamente, hanno un diritto
di seguito,
cioè
possono esercitarsi anche in pregiudizio dei diritti acquistati
dai terzi
posteriormente al loro sorgere (art. 2747 c.c.).
Qualora
coesistono più
crediti privilegiati, la legge (artt. 2777‑2783 c.c.) stabilisce un
ordine di
preferenza fra gli stessi fondato esclusivamente sulla causa del
credito e non
sulla priorità nel tempo di costituzione dell'uno o dell'altro.
Ad esempio,
alle spese di giustizia è sempre accordata preferenza assoluta.
3.
I DIRITTI
REALI DI GARANZIA (PEGNO E IPOTECA)
Anche il pegno
e
l'ipoteca sono cause legittime di
prelazione, in quanto
diritti reali,
però,
essi presentano altresì
i seguenti requisiti:
‑
l'immediatezza: per
il loro esercizio non occorre la cooperazione di alcun soggetto;
‑‑
l'assolutezza: sono
opponibili erga omnes;
‑ il diritto
di sequela
(di inseguire, cioè, il bene) nel
senso che il creditore ha il potere di soddisfarsi sul bene anche se la
proprietà è passata ad altra persona.
‑
Accessorietà: se manca o si estingue l'obbligazione garantita,
viene meno o si
estingue anche la garanzia;
‑
specialità: il pegno
e l'ipoteca si costituiscono soltanto su beni
determinati (al contrario il privilegio può essere
generale, cioè
applicabile a tutti i beni mobili del debitore);
‑
determinatezza: la
garanzia giova unicamente per determinati crediti, compresi i diritti
connessi
(es.: interessi);
‑
indivisibilità: il
diritto di pegno o di ipoteca si estende «sull'intero
bene che ne è oggetto e sulle sue parti, a garanzia dell'intero
credito e di
ogni parte di esso»;
‑ il cal.
supplemento di pegno e di ipoteca: se
la cosa data in garanzia perisca o si deteriori, il creditore
può chiedere che
gli sia prestata la garanzia su altri beni e, in mancanza, ha diritto
al
pagamento immediato del suo credito (perdita del beneficio del termine,
art.
2743 c.c.);
‑ divieto del
patto
commissorio: è vietato il patto con cui si stabilisce che, ove
il debitore sia
inadempiente, la proprietà della cosa oggetto del pegno o
dell'ipoteca spetti
al creditore (art. 2744 c.c.).
Secondo la
definizione
più comune, il pegno è un diritto reale
di garanzia; ossia un diritto concesso dal debitore (o da un
terzo) su cosa mobile a garanzia di un credito.
Esso si perfeziona solo con la consegna materiale della cosa.
Oggetto del pegno
possono essere i beni mobili (eccetto quelli
registrati), le universalità di mobili, i
crediti ed altri diritti aventi per oggetto beni mobili (art. 2784
c.c.)
che siano infungibili.
II pegno si
costituisce
mediante contratto (contratto di
pegno), tra il creditore e il debitore o un terzo datore del bene. Si
tratta di
un contratto reale, perché si
perfeziona con la consegna al
creditore della cosa. Il debitore (o il terzo) proprietario del bene ne
è temporaneamente spossessato a garanzia
del pagamento del debito (art. 2786 c.c.).
È un diritto reale di garanzia, concesso dal
debitore (o da un terzo) su un bene, a
garanzia di un credito, che attribuisce al creditore il potere di
espropriare il bene e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo
ricavato.
Possono essere
oggetto
di ipoteca (art. 2810 c.c.):
‑ i beni immobili con le loro pertinenze;
‑ i beni mobili registrati (navi, aeromobili,
autoveicoli);
‑ l'usufrutto,
il diritto di superficie, il diritto dell'
enfiteuta e quello del conce
dente sul
fondo enfiteutico; ‑le
rendite dello Stato.
Anche la quota
di un bene indiviso può essere oggetto di
ipoteca (art.
Il diritto di
ipoteca
si costituisce mediante iscrizione
nell'apposito registro presso l'ufficio dei registri
immobiliari che ha competenza territoriale sul luogo ove si trova
il bene.
Tale iscrizione ha, pertanto, carattere costitutivo:
la volontà delle parti, la legge o la sentenza
attribuiscono
al creditore
il diritto ad ottenere l'iscrizione (cioè costituiscono il
titolo per la
costituzione), ma solo con l'iscrizione
il diritto viene ad esistenza.
L’
ipoteca, per la sua
natura di diritto reale, ha efficacia
anche nei confronti di chi acquisti l'immobile dopo l'iscrizione:
infatti, i
creditori ipotecari possono far espropriare i beni ipotecati anche dopo
l'alienazione (v però gli artt. 2889
ss. c.c.).
4.
GARANZIE
SEMPLICI O PERSONALI
Sono quelle
garanzie
che non si costituiscono mediante la creazione di un diritto su una
cosa
determinata, con conseguente diritto di prelazione sulla stessa, ma
consistono
nella creazione di un nuovo rapporto obbligatorio (accessorio
all'obbligazione
principale) fra lo stesso creditore e un altro soggetto che si aggiunge, col suo patrimonio, a rafforzare
la garanzia del creditore.
A) La fideiussione (artt. 1936‑1957 c.c.)
La
fideiussione si
costituisce mediante un contratto col quale
un terzo si obbliga personalmente verso
il creditore, garantendo l'obbligazione altrui.
Di regola la
fideiussione presuppone un accordo con il debitore principale, ma tale
accordo non è essenziale: l'eventuale intesa
è,
cioè, al di fuori dello schema del rapporto di fideiussione che,
come tale, è bilaterale, non trilaterale. La
volontà
di prestare fideiussione deve essere espressa (art. 1937 c.c.).
Per quanto
concerne la responsabilità del fideiussore:
‑sussiste un
rapporto
di solidarietà fra il debitore e il
fideiussore che diviene «obbligato in solido» col debitore garantito;
‑può,
peraltro,
stabilirsi l'obbligo della previa escussione dell'obbligato principale:
ci si
deve rivolgere, cioè, prima al debitore garantito, poi, solo
dopo l'esecuzione
sui beni di quest'ultimo, ci si potrà rivolgere al fideiussore
(art. 1944, 2°
comma, c.c.);
‑può
essere stabilito,
nel caso di più fideiussioni, il beneficio della divisione: il
debito si divide
in tante parti quante sono i fideiussori e ogni fideiussore può
esigere che il
creditore richieda solo la parte di sua spettanza (art. 1947 c.c.);
‑il
fideiussore che ha
pagato è surrogato nei diritti che il
creditore aveva contro il debitore (art. 1949 c.c.): egli, cioè,
può valersi di
tutte le garanzie che erano a disposizione del creditore per rifarsi
sul
patrimonio del debitore garantito ed ha l'azione
di regresso con la quale può agire contro il debitore per
farsi rimborsare
di quanto ha pagato (art. 1950 c.c.);
‑il
fideiussore può opporre al creditore tutte le eccezioni che
spettano al
debitore principale, salva quella derivante da incapacità (art.
1945 c.c.).
I’obbligazione
del
fideiussore si estingue: per l'estinzione
dell'obbligazione del debitore principale; attraverso i normali modi di estinzione delle obbligazioni; per
particolari ipotesi previste dagli
artt. 1955‑1957 c.c.
l'avallo
è una dichiarazione cambiaria, con la
quale taluno garantisce il pagamento della cambiale per uno degli
obbligati
cambiari (il traente, l'emittente o un girante). Si tratta di
un'obbligazione
cambiaria autonoma di garanzia.
5.
Per i soli contratti a prestazioni corrispettive, per
rafforzare il diritto del creditore al risarcimento del danno in caso
di
inadempimento, le parti possono convenire che una consegni nelle mani
dell'altra una caparra, ossia una somma
di denaro o una quantità di cose
fungibili.
Si distingue
tra:
‑caparra controfirmatoria (art. 1385
c.c.): è una somma di denaro o una quantità di cose
fungibili che, al momento
della costituzione del rapporto obbligatorio, una parte dà
all'altra, quale
conferma dell'adempimento, di cui segna quasi un'anticipata e parziale
esecuzione.
Se il
contratto viene adempiuto, la caparra deve
essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. In caso di
inadempimento,
invece: se inadempiente è la parte che ha dato la caparra,
l'altra può recedere
dal contratto e ritenere la caparra; se inadempiente è la parte
che l'ha
ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il
doppio della
caparra; resta salvo, comunque, il diritto di agire per il normale
adempimento
o per la risoluzione e il risarcimento del danno (in tale ultimo
caso, la
caparra varrà come anticipo sul pagamento dei danni);
‑caparra penitenziale (art. 1386
c.c.): in cui la somma che una parte dà all'altra non
rappresenta una cautela
contro l'inadempimento, ma è il
corrispettivo per l'attribuzione della facoltà di recesso
dalla
obbligazione contrattuale (cioè di liberarsi dall'obbligazione
assunta).
Una volta
versata la caparra, i contraenti si
riservano la scelta tra l'adempimento ed il recesso. Il recesso si
attua per
volontà unilaterale, rinunziando alla caparra nelle mani della
controparte, se
recede il soggetto che l'ha consegnata, o provvedendo alla restituzione
di una
doppia caparra nell'ipotesi inversa.
6.
IL
DIRITTO DI RITENZIONE
Talvolta la
legge
concede al creditore di trattenere una cosa che egli avrebbe
l'obbligo di
restituire al proprietario, alfine di indurre quest'ultimo a
soddisfare un suo
debito. Trattasi di un mezzo di pressione sulla volontà del
debitore, cui non
si accompagnano garanzie reali o privilegi.
7.
Le azioni
giudiziarie
concesse al creditore per la difesa della sua garanzia patrimoniale
sono le
seguenti:
1) l'azione
surrogatoria: è l'azione con cui il creditore chiede al giudice
di potersi
sostituire nella posizione del debitore, quando questi non eserciti o
meglio
trascuri di esercitare verso i terzi tutti i diritti a lui spettanti.
Affinché
il creditore possa proporre tale azione è necessario dunque che
vi sia:
inattività o inerzia da parte del debitore nell'esercizio dei
suoi diritti e
che da tale inerzia possa derivare un danno al creditore quindi
impossibilità
di quest'ultimo, di soddisfare su tale patrimonio le sue pretese.
La
surrogazione è
ammessa solo nei diritti che abbiano contenuto patrimoniale;
2) l'azione
revocatoria: in questo caso il presupposto per poterla invocare non
è l'inerzia
del debitore, bensì un atto di disposizione del suo
patrimonio che possa
arrecare danno alle ragioni del creditore.
Distinguiamo:
a) se l'atto
è a titolo
gratuito e sia stato effettuato dopo il sorgere del credito, è
sufficiente che
il creditore provi in giudizio la conoscenza da parte del debitore
stesso del
pregiudizio che questo avrebbe potuto arrecare al creditore;
b) se l'atto
è a titolo
gratuito e sia stato effettuato prima del sorgere del credito,
allora il
creditore deve provare anche il dolo del
debitore ossia la premeditazione di arrecare danno alle ragioni
del
creditore;
c) se l'atto
è a titolo
oneroso e sia stato compiuto dopo il sorgere del credito, occorre
dimostrare
che non solo il debitore ma anche il terzo era a conoscenza del
pregiudizio
che l'atto poteva arrecare alle ragioni del creditore;
d) se
l’ atto è a titolo oneroso e sia stato compiuto prima del sorgere del credito, il creditore
deve dimostrare oltre alla conoscenza anche la dolosa premeditazione del debitore e del terzo.
L'azione
revocatoria si
prescrive in 5 anni dalla data dell'atto.
3) il sequestro conservativo: si tratta
di un provvedimento di natura cautelare e per poterlo richiedere
occorre il
fondato timore, da parte del creditore, di perdere le garanzie a tutela
del
proprio credito (es.: rischio di fuga del debitore o distrazione di
beni dal
suo patrimonio).
E’
proponibile, in caso
di revocatoria, nei confronti di colui che abbia acquistato beni dal
debitore.
La
locazione è un contratto tipico (cioè è
espressamente regolato dalla legge), a
titolo oneroso e con carattere di durata. In ragione della diffusione
di tale
tipo di contratto, il Codice Civile contiene ben 83 articoli, dal 1571
al 1654,
che la riguardano. L’oggetto della locazione è
rappresentato dal godimento
e dall’uso della cosa locata. I limiti al potere di
utilizzazione possono
variare a seconda della destinazione contrattuale: vi è,
infatti, l'uso per
abitazione, per ufficio, per esercizio commerciale ecc. (locazioni
abitative e
non abitative).
La durata del contratto è fissata dal Codice Civile (art. 1573)
nel tempo
massimo di trent’anni, essendo nulla qualsiasi pattuizione per un
periodo
superiore. Sia al locatore, sia al conduttore in materia di
locazione
competono per espressa volontà legislativa specifici obblighi e
relativi
diritti.
La locazione di beni immobili
Accanto alle
previsioni
contenute nel Codice Civile sono operanti alcune leggi che disciplinano
particolari tipi di locazione. Si fa riferimento alle disposizioni
previste
dalla Legge 27 luglio 1978, n. 392, meglio nota come “legge
sull’equo canone” ,
al Decreto Legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni,
dalla
Legge 8 agosto 1992, n. 359, conosciuta come disciplina dei
“patti in deroga” e
alla Legge 9 dicembre 1998, n. 431, che contiene la recente riforma
della locazione
e delle norme sul rilascio degli immobili adibiti ad uso
abitativo.
La legge 27
luglio 1978,
n. 392, aveva introdotto l’equo canone nella locazione degli
immobili
urbani.
Tale legge aveva dettato una nuova disciplina del rapporto locativo,
prevedendone
la durata, la possibilità di sublocazione, di scioglimento, di
successione nel
contratto. Era previsto un meccanismo di aggiornamento e adeguamento
del
canone, accanto a disposizioni concernenti la risoluzione giudiziale
delle
controversie tra locatore e conduttore.
La durata della locazione avente per oggetto immobili urbani per uso
abitativo
non poteva essere inferiore a quattro anni, salvo i casi di locazioni
stipulate
per soddisfare esigenze abitative di natura transitoria. Il contratto
si rinnovava
per un ulteriore periodo di quattro anni se nessuna delle parti
comunicava
all'altra, almeno sei mesi prima della scadenza, con lettera
raccomandata, che
non intendeva rinnovarlo. Quanto al recesso dal contratto,
indipendentemente
dalle previsioni contrattuali, il conduttore, qualora ricorressero
gravi
motivi, poteva recedere in qualsiasi momento dal contratto con
preavviso di
almeno sei mesi da comunicarsi con lettera raccomandata. In caso di
morte del
conduttore, gli succedevano nel contratto il coniuge, gli eredi e i
parenti e
affini con lui abitualmente conviventi. Tale legge conteneva,
altresì, i
criteri di ripartizione delle spese condominiali, fatti salvi dalla
nuova
disciplina, nonché la normativa relativa alla locazione di
immobili urbani adibiti
ad uso diverso da quello di abitazione (locazioni non abitative),
tuttora in
vigore per le parti non abrogate dalla nuova legge.Successivamente
è stata
introdotta la disciplina dei cosiddetti “patti in deroga”
con le norme
contenute nel decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito in
legge, con
modificazioni, dall’art.
Con tale tipo di rapporto, a fronte della corresponsione di un canone
di
locazione maggiore rispetto a quello “equo”, è stata
prevista una durata del contratto
più lunga, di quattro anni più altri quattro alla prima
scadenza ed è stata
introdotta l’assistenza, da parte delle organizzazioni della
proprietà edilizia
e dei conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale,
tramite le
loro organizzazioni provinciali, nella stipula degli accordi in deroga
alle
norme della citata Legge n. 392 del 1978. La crisi
dell’istituto locativo
si è tuttavia acuita soprattutto in conseguenza delle
difficoltà incontrate dai
proprietari per rientrare in possesso del bene locato alla naturale
scadenza
del contratto in quanto solo una percentuale minima dei locatari
è pronta a
riconsegnare l’immobile al tempo prefissato nel contratto. La
pressione
dell’opinione pubblica sulle forze politiche ha fatto sì
che l’esecuzione dei
provvedimenti di rilascio per finita locazione di immobili adibiti o
meno a uso
di abitazione sia stata più volte sospesa per mezzo di numerosi
provvedimenti
legislativi. Tale situazione ha segnato il punto di inizio per una
ormai
indilazionabile riforma del sistema.
La riforma si è concretizzata nel 1998 con l’approvazione
della Legge 9
dicembre 1998, n. 431 e si è ispirata, tra l’altro, alla
necessità di
rivitalizzare un mercato che da troppi anni ristagnava a causa della
mancanza
di sufficiente offerta di immobili ad uso abitativo, dovuta
soprattutto, come
già detto, alle difficoltà, per i proprietari, di
rientrare nella disponibilità
dell’appartamento alla scadenza del contratto.
Per cercare di raggiungere tale risultato il Parlamento ha seguito una
strada a
prima vista diversa rispetto ai principi ispiratori della legge del
1978,
prevedendo la possibilità di liberalizzazione del canone
locatizio (contratto
libero o di primo canale), la certezza della durata del rapporto e
anche alcuni
incentivi di natura fiscale, nel solo caso - però - che il
locatore aderisca
alla stipula di contratti-tipo con fissazione di un canone prestabilito
sulla
base di appositi accordi - definiti in sede locale tra le
organizzazioni della
proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori
maggiormente
rappresentative - che tengano conto di parametri oggettivi , quale per
esempio
la rendita catastale dell’immobile (contratto regolamentato o
concordato o di
secondo canale).
Quanto alla durata , per i contratti liberi, è stabilita in
quattro anni più
altri quattro, salvo alcuni casi espressamente stabiliti dalla
legge. Nel
caso di contratti regolamentati la durata è di tre anni,
più due, nel caso in
cui, alla prima scadenza, le parti non concordino sul
rinnovo. Viene previsto
inoltre un tipo di contratto di natura transitoria, volto a soddisfare
particolari esigenze delle parti, e con durata anche inferiore ai
limiti
suddetti. Per favorire la stipula di contratti regolamentati il
legislatore ha previsto tutta una serie di agevolazioni di carattere
fiscale:
esse riguardano, in sintesi, la facoltà per i comuni di
diminuire, a carico del
proprietario, l’aliquota dell’imposta comunale sugli
immobili (ICI) e la
riduzione di IRPEF, IRPEG e imposta di registro.
Altra non meno
importante
novità è l’introduzione dell’obbligo della
forma scritta per la stipula di
contratti di locazione validi. Tale innovazione è stata
resa
indispensabile per evitare, o quanto meno ridurre, i casi in cui
vengono
stipulati contratti di locazione “mascherati” sotto forma
di altri contratti e
quindi per evitare l’aggiramento delle norme di legge ed è
volta a stabilire in
modo chiaro e certo la sussistenza del rapporto locatizio. La legge
prevede, in
caso di sua inosservanza, la reductio ad aequitatem del rapporto, con
applicazione del canone del “contratto regolamentato”. Non
rientrano invece
nell’ambito di applicazione della nuova legge, e sono quindi
restituite alla
regolamentazione delle norme del Codice Civile, le locazioni degli
immobili
vincolati ai sensi della Legge 1° giugno 1939, n. 1089 (le cui
norme sono ora
contenute nel D.L. n. 490/1999), le abitazioni di tipo signorile e le
abitazioni in ville, mentre si applica la normativa vigente in materia,
statale
e regionale, per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Vi
è
inoltre un altro gruppo di immobili, che il legislatore ha considerato
a parte,
vista la loro peculiare destinazione, nei quali vanno ricompresi gli
alloggi
destinati esclusivamente a finalità turistiche e quelli
destinati a soddisfare
esigenze abitative di carattere transitorio in cui gli enti locali
figurano in
qualità di conduttori.
La legge n.
431 del
1998, inoltre, contiene misure volte a combattere l’evasione
fiscale, che è
stata finora piuttosto alta, sui redditi derivanti da rapporti di
locazione:
viene infatti stabilita quale conditio sine qua non per la messa in
esecuzione
del provvedimento di rilascio dell’immobile, la dimostrazione da
parte del
locatore, della registrazione del contratto, della denuncia
dell’immobile ai
fini ICI e delle dichiarazione, ai fini IRPEF, del reddito derivato dal
contratto stesso. Tale dimostrazione dovrà essere
soddisfatta con
l’indicazione, nel precetto di rilascio, degli estremi delle
operazioni
relative a ciascuna condizione.
Con la nuova legge “sugli affitti” si è inoltre
cercato, facendo leva su
agevolazioni di carattere fiscale, di far emergere tutta quella serie
di
rapporti che fino ad oggi non venivano dichiarati al fisco. Il
legislatore ha
dapprima anticipato, al periodo di imposta 1999, la detrazione ai fini
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, riconosciuta ai
conduttori di
immobili utilizzati come abitazione principale, con il Decreto
Legislativo 17
agosto 1999, n. 327, che rapporta la detrazione spettante al periodo di
durata
del contratto di locazione; la conseguenza di ciò è la
decadenza del conduttore
dal diritto di fruire della detrazione per tutto il periodo in cui non
adibisca
l’immobile ad abitazione principale. La detrazione di imposta
riconosciuta dal
Decreto n. 327 suddetto è però riservata ai soli
conduttori con contratto a
canone cosiddetto convenzionato e la misura della detrazione è
rapportata al
reddito complessivo del conduttore e non è prevista nel caso di
redditi
superiori ai sessanta milioni di lire.
Con
l’approvazione della
Convenzione Nazionale sono stati individuati i criteri generali che
costituiscono la base per la realizzazione di appositi accordi da
predisporre
in sede locale ai fini della definizione dei canoni di locazione.
Conclusa a
Roma il giorno 8 febbraio 1999, nella sede del Ministero dei lavori
pubblici, i
criteri in essa previsti sono stati formalizzati nel Decreto
Ministeriale 5
marzo 1999; a livello locale vengono previste aree omogenee determinate
attraverso vari parametri quali il valore di mercato, la dotazione
infrastrutturale (trasporti pubblici, aree verdi, servizi scolastici,
attrezzature commerciali ecc.), i tipi di costruzione, evidenziando
zone di
particolare pregio o di degrado.
Tutto ciò contribuirà alla determinazione del canone
effettivo che oscillerà
dunque tra un valore minimo e massimo determinato alla luce dei criteri
suddetti.La nuova legge ha comunque regolato soltanto le locazioni ad
uso
abitativo; le locazioni non abitative (industriali, professionali,
commerciali,
artigianali, turistiche ed altre attività particolari)
continuano ad essere
disciplinate dalle vecchie norme contenute nel Codice Civile e nella
Legge 392
del 1978.In conclusione, si ritiene utile la conoscenza delle norme che
regolano la materia procedurale in questo ambito
La
nuova disciplina delle
locazioni abitative è stata stabilita dalla Legge n. 431/1998.
Dopo aver scelto e firmato il contratto di locazione ad uso abitativo,
occorre
effettuare tutta una serie di operazioni affinché tale atto si
perfezioni e
tutto vada a buon fine. Alcune di queste operazioni sono (con alcune
eccezioni)
obbligatorie (registrazione, deposito cauzionale), altre facoltative
(verbali
di consegna e riconsegna dell'immobile, disdetta; il rinnovo è
automatico). Per
gli affitti superiori a 30 giorni, il proprietario deve provvedere a
effettuare
la denuncia di cessione del fabbricato presso il competente
Commissariato di
Polizia entro 48 ore dall'insediamento dell'inquilino, in base a quanto
previsto
dalla Legge n. 59/1978 sull'antiterrorismo. Inoltre è sempre
consigliabile che
l'inquilino acquisisca ogni prova documentale che dimostri la reale
situazione
di uso abitativo (per esempio, la documentazione anagrafica,
l'attestato di
lavoro, il permesso di soggiorno o altro) e che si intesti tutte le
utenze
domestiche, ovvero, luce, gas, acqua e telefono. In questo modo,
l'inquilino
potrà provvedere a saldare le bollette direttamente agli enti
erogatori, senza
bisogno di rivolgersi al padrone di casa.
È possibile avvalersi della prestazione di un mediatore anche
per l'affitto di
una casa. L'agente immobiliare impiegato presso un'agenzia operante sul
territorio è senz'altro la figura più indicata per la
ricerca dell'immobile più
congeniale alle specifiche esigenze abitative relative alle diverse
tipologie
di clientela. Il mediatore (Legge n. 39/1989) ha diritto a una
provvigione che
può essere calcolata con tre criteri diversi, tutti leciti: una
mensilità del
canone d'affitto (che si riduce alla metà se il contratto
è di durata pari o
inferiore a sei mesi); il 5% del canone annuo di locazione (che
rappresenta il
sistema ufficiale, raccomandato dalla Camera di commercio); una somma
diversa
stabilita in precedenza con atto sottoscritto dalle parti. A questo
proposito
occorre sottolineare che l'aver sottoscritto accordi più
dispendiosi rispetto
alle somme riportate sopra comporta comunque il rispetto degli accordi.
Nei
casi controversi, se non è presente alcun accordo scritto, il
giudice tenderà
ad applicare la provvigione del 5%. La registrazione del contratto
è
prevista per legge (Testo unico n. 131/1986) ed è resa
obbligatoria per tutti i
contratti, indipendentemente dall'ammontare dell'affitto annuo. L'unica
eccezione è rappresentata dai contratti con durata inferiore a
30 giorni.
Per assicurarsi che l'inquilino riceva l'immobile in buono stato e alla
scadenza del contratto lo riconsegni nelle stesse condizioni, si
può fare
affidamento sui verbali di consegna e di riconsegna dell'immobile.
È lo stesso
Codice Civile che ne prevede la stesura: "il conduttore deve restituire
la
cosa al locatore nel medesimo stato in cui l'ha ricevuta, in
conformità alla
descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento
o il
consumo risultante dall'uso della cosa in conformità del
contratto. In mancanza
di descrizione si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in
buono
stato di manutenzione" (art. 1590).
Dunque, l'inquilino non è responsabile per i normali
deterioramenti dovuti
all'usura, mentre dovrà ripagare gli eventuali danni
straordinari causati da
cattiva manutenzione o da trascuratezza. Il verbale di consegna
è contemplato
negli affitti regolati, infatti tutti i tre i facsimili di contratto lo
prevedono esplicitamente. D'altra parte, anche prima della riforma, il
verbale
di consegna era usato comunemente, soprattutto negli affitti di
immobili
arredati o per uso transitorio. In entrambi i casi, infatti, sia per la
presenza di mobili appartenenti al proprietario, sia per il ricambio
continuo e
frequente di inquilini, è di primaria importanza la presenza di
un atto scritto
nel quale vengano annotate tutte le componenti dell'immobile e la
descrizione
dello stesso.
In ogni caso, completare il contratto d'affitto con il verbale di
consegna si
rivela molto utile, in quanto consente di mettere al riparo sia il
proprietario
sia l'inquilino da inutili polemiche successive sullo stato di
manutenzione. In
caso di contestazioni, infatti, se il verbale non è stato
redatto, si procederà
ad accertare presuntivamente le condizioni originarie. E questo, oltre
a
costituire un accertamento di difficile attuazione, può
risultare sfavorevole
anche per l'inquilino, che può essere condannato a risarcire dei
danni che in
realtà non sono stati provocati da lui, ma che erano già
presenti
nell'immobile.Al momento della scadenza del contratto le parti possono
redigere
un nuovo verbale, quello di riconsegna, nel quale si descrive lo stato
dell'immobile dopo l'uso da parte dell'inquilino. I verbali di consegna
e
riconsegna devono essere firmati contestualmente da proprietario e
inquilino.Per garantire il proprietario circa il rispetto del contratto
d'affitto è stato previsto il versamento a inizio contratto di
un deposito
cauzionale (Legge n. 392/1978, art. 11), da riottenere (con gli
interessi) alla
scadenza. Anche se nessuna legge prevede norme in relazione a tale
argomento, è prassi ormai consolidata iniziare a pagare il
canone relativo al
primo mese all'inizio della durata del contratto.
È
consentito inoltre che il
proprietario effettui delle visite periodiche presso l'immobile locato.
Infatti, mentre questi deve consegnare e mantenere la casa in buono
stato di
manutenzione, l'inquilino deve prendere in consegna l'immobile e farne
un uso
corretto. La verifica di questi obblighi è lasciata al libero
accordo delle
parti. Ma, proprio per evitare problemi al riguardo, spesso le
associazioni di
categoria hanno introdotto nei contratti clausole per consentire al
proprietario di visitare l'immobile almeno una volta l'anno, previo
accordo con
l'inquilino e con una comunicazione scritta. Nei contratti sprovvisti
di tale
clausola sarà comunque utile trovare un accordo al riguardo,
poiché il fatto di
poter visitare la propria casa costituisce uno specifico diritto del
proprietario (norma stabilita in conseguenza di una sentenza della
Cassazione).
Inoltre, l'inquilino deve consentire la visita dell'immobile una volta
la
settimana per almeno due ore durante gli ultimi sei mesi d'affitto, per
agevolare l'attività di ricerca di nuovi inquilini. Queste
visite di tipo
commerciale sono possibili durante l'intero rapporto d'affitto in caso
di messa
in vendita dell'appartamento.
Dunque, in un corretto rapporto proprietario/inquilino, il proprietario
chiederà all'inquilino, per iscritto o telefonicamente, in che
giorno e in
quale ora egli possa accedere alla casa per visitarla al fine di
sincerarsi
dello stato di manutenzione o anche per mostrarla a terzi interessati
all'acquisto o all'affitto.
Dal
30 dicembre 1998 è in vigore
la nuova normativa relativa alle locazioni di immobili adibiti ad uso
abitativo
stabilita dalla Legge 9 dicembre 1998, n. 431.
Le principali novità sono costituite dalla previsione:
- della forma scritta del contratto di locazione, a pena di
invalidità;
- di due tipi di contratti: uno "libero", l'altro basato su contratti
"tipo" elaborati dalle organizzazioni dei proprietari e degli
inquilini;
-
di benefici fiscali per il
locatore e il conduttore.
La
nuova disciplina stabilisce
l’abrogazione espressa, tra l’altro:
- di numerosi articoli della Legge 27 luglio 1978, n. 392 (cosiddetta
legge
sull'equo canone), limitatamente alle locazioni abitative;
- dell’art. 11 del D.L. 11 luglio 1992, n. 333 (cosiddetta. legge
sui patti in
deroga).
I
contratti e i giudizi dinanzi
alla Magistratura riguardanti rapporti di locazione sorti
precedentemente
all'entrata in vigore della legge e cioè prima del 30 dicembre
1998
seguiteranno ad essere disciplinati e regolati dalle norme vigenti al
momento
della stipula. Questo significa che gli inquilini potranno per
tutto il
periodo di futura validità di questi contratti, e fino alla loro
prossima
scadenza, avvalersi dei diritti stabiliti dalle leggi 392/78 (equo
canone) e
359/92 (patti in deroga). In particolare potranno essere ricondotte con
azione
specifica all'equo canone tutte le situazioni di contratti simulati,
variamente
sorte in violazione di norme imperative su misura degli affitti, durata
e altri
diritti dell'inquilino.
Alla scadenza della loro durata naturale, tutti i vecchi contratti, se
non
saranno disdettati, diventeranno tacitamente contratti di quattro anni
rinnovabili automaticamente per altri quattro. Ovviamente anche
tutte le
cause in corso davanti al Magistrato, per esempio per la determinazione
dell'equo
canone, saranno decise sulla base della precedente normativa dettata
dalla L.
392/78.
Le nuove disposizioni si applicano ai contratti di locazione di
immobili
adibiti ad uso abitativo stipulati o rinnovati dopo il 30 dicembre 1998.
Le nuove disposizioni non si applicano alle locazioni riguardanti (art.
1.2):
- immobili vincolati ai sensi della Legge 1 giugno 1939, n. 1089 (le
cui norme
sono ora contenute nel
D.L. n. 490/1999) o inclusi nelle categorie catastali A/1, A/8 e
A/9;
- alloggi di edilizia residenziale pubblica;
- locazioni esclusivamente per finalità turistiche.
A partire dal 30 dicembre 1998 per la stipula di validi contratti di
locazione
è richiesta la forma scritta (art 1.4).
Ai sensi dell’art. 2.1, le parti possono stipulare contratti di
locazione
(cosiddetti "liberi"o di "primo canale") di durata non
inferiore a 4 anni, decorsi i quali sono rinnovati per un periodo di
altri 4
anni, salvo i casi in cui il locatore intenda:
- destinare l'immobile ad uso abitativo, commerciale, artigianale o
professionale proprio, del coniuge, dei genitori, dei figli o dei
parenti entro
il secondo grado;
- effettuare lavori di ristrutturazione, demolizione o radicale
trasformazione
dell'intero stabile;
- vendere l'immobile a terzi.
Alla seconda scadenza del contratto:
- ciascuna delle parti può comunicare all'altra, con
raccomandata, le
condizioni per il rinnovo o la relativa rinuncia;
- in assenza di comunicazioni delle parti, si ha il rinnovo tacito alle
medesime condizioni.
La
disciplina dell’art. 2.1 si
applica anche ai contratti di locazione stipulati prima del 30 dicembre
1998
che si rinnovino tacitamente (art. 2.6).
Ai sensi dell’art. 2, commi 3 e
Tali contratti devono avere durata non inferiore a tre anni, prorogati
di
diritto per altri due, salva la facoltà di disdetta del locatore
nei casi già
indicati per i contratti "liberi".
Alla seconda scadenza del contratto:
- si ha il rinnovo tacito alle medesime condizioni, in assenza di
comunicazioni
delle parti;
- ciascuna delle parti può comunicare all'altra, con
raccomandata, le
condizioni per il rinnovo o la relativa rinuncia.
L’art. 2.4 prevede che, per favorire gli accordi, i comuni
possono deliberare:
- aliquote ICI più favorevoli, anche inferiori a quelle minime,
per i
proprietari che locano alle condizioni definite dagli accordi
stessi;
- l’aumento dell'aliquota ICI massima fino a due punti
(cioè, attualmente, fino
al 9 ‰) per gli immobili non locati da almeno due anni.
Alla prima scadenza del contratto, il locatore può disdettarlo,
dandone
comunicazione al conduttore con almeno sei mesi di preavviso, per i
seguenti
principali motivi (art. 3.1):
- il locatore intenda destinare l'immobile ad uso abitativo,
commerciale,
artigianale o professionale proprio, del coniuge, dei genitori, dei
figli o dei
parenti entro il secondo grado;
- il conduttore abbia la piena disponibilità di un alloggio
libero e idoneo
nello stesso comune;
- l'immobile sia compreso in un edificio gravemente danneggiato e debba
essere
ricostruito o assicurata la sua stabilità;
- il locatore intenda effettuare lavori di ristrutturazione,
demolizione o radicale
trasformazione dell'intero stabile;
- il conduttore non occupi continuativamente l'immobile senza
giustificato
motivo;
- il locatore intenda vendere l'immobile a terzi e non abbia la
proprietà di
altri immobili ad uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a
propria
abitazione.
Nella comunicazione di disdetta deve essere specificato, a pena di
nullità, il
motivo sul quale si fonda.
Al conduttore è riconosciuto il diritto di prelazione in caso di:
- vendita dell'immobile (art. 3.1 lett. g);
- locazione dopo la conclusione dei suddetti lavori di
ristrutturazione,
trasformazione ecc. (art. 3.2)
In caso di illegittimo esercizio della facoltà di disdetta, il
conduttore ha
diritto al risarcimento del danno o al ripristino del rapporto di
locazione
(art. 3, commi 3 e 5).
Il conduttore può invece recedere in qualsiasi momento dal
contratto, qualora
ricorrano gravi motivi, dando comunicazione al locatore con preavviso
di sei
mesi (art. 3.6).
I proprietari che locano immobili nei comuni ad alta tensione
abitativa, sulla
base dei contratti "tipo", beneficiano:
- di un'ulteriore riduzione del 30% del reddito dell'immobile,
determinato ai
sensi dell'art. 34 del Tuir;
- dell'applicazione dell'imposta di registro sui corrispettivi annui
nella
misura minima del 70% (art. 8.1).
Per usufruire dei benefici, il locatore deve indicare nella
dichiarazione dei
redditi gli estremi di registrazione del contratto di locazione (ove
obbligatorio) e quelli della denuncia dell'immobile ai fini ICI (art.
8.2).
Tali agevolazioni non si applicano ai contratti di locazione per
esigenze
abitative di natura transitoria, fatta eccezione per quelli a favore di
studenti universitari o stipulati da enti locali (art. 8.3).
Con una modifica all’art. 23.1 del TUIR, viene stabilito che i
redditi
derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se
non
percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento di
conclusione del
procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per
morosità del
conduttore.
Inoltre, per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non
percepiti,
come accertato nell'ambito del procedimento di convalida di sfratto per
morosità, è riconosciuto un credito d'imposta di pari
ammontare (art. 8.5).
Con i provvedimenti "collegati" alla manovra finanziaria del triennio
2000-2002 sarà concessa una detrazione IRPEF a favore
dei conduttori:
- di alloggi adibiti ad abitazione principale,
- appartenenti a determinate categorie di reddito (art. 10).
Mediante un Fondo nazionale a sostegno dei conduttori, gli stessi
possono
ottenere contributi per il pagamento dei canoni di locazione.
I contributi sono concessi a condizione che il conduttore dichiari che
il
contratto di locazione è stato registrato (ove obbligatorio) e
non sono
cumulabili con le detrazioni IRPEF previste dall'art. 10 (art.
11).
Ai sensi dell’art. 13, è nulla ogni pattuizione volta a:
- determinare un importo del canone di locazione superiore a quello
risultante
dal contratto scritto e registrato;
- attribuire al locatore, per i contratti "tipo", un canone superiore
a quello massimo definito dai relativi accordi;
- derogare i limiti di durata del contratto stabiliti dalla presente
legge.
Il conduttore può richiedere:
- la restituzione delle somme corrisposte in misura superiore, entro
sei mesi
dalla riconsegna dell'immobile locato;
- la riconduzione della locazione a condizioni conformi.
3 -
La
registrazione del contratto
di locazione è obbligatoria per tutti i contratti,
indipendentemente
dall'ammontare dell'affitto annuo, con la sola eccezione dei contratti
con
durata inferiore a 30 giorni.
Vediamo brevemente quali sono le modalità mediante le quali
è possibile
effettuare la registrazione. Dal primo gennaio 1998 tutti i contratti
di
locazione devono essere "obbligatoriamente" registrati entro 20
giorni dalla firma del contratto stesso o dalla data della sua
decorrenza
economica, se precedente. Per esempio, se l'inquilino è andato
ad abitare
nell'immobile il primo gennaio, ma il contratto è stato
sottoscritto il 10
gennaio, la decorrenza dei 20 giorni utili per la registrazione non
scatta dal
10 gennaio (data della firma), ma dal primo del mese.
In
caso di registrazione
effettuata in ritardo, la legge prevede il pagamento di una mora (entro
30
giorni, il 15% in più dell'importo dovuto più gli
interessi legali attualmente
al 2,5%; oltre i 30 giorni, il doppio dell'importo iniziale più
gli interessi
legali).
In
genere, è il proprietario a
effettuare la registrazione in qualsiasi Ufficio del registro (Imposte
dirette), previo pagamento del bollettino presso banche, esattorie o
uffici
postali (dal primo gennaio 1998 non è più in funzione lo
sportello cassa
dell'Ufficio del registro). La ricevuta del versamento sarà poi
esibita
all'Ufficio del registro insieme ai seguenti atti: l'originale e una
copia del
contratto, ciascuno con una marca da bollo da 20.000 lire (è
comunque
consigliabile predisporre tre copie, in modo che, oltre a quella
dell'ufficio,
ne rimanga una per il proprietario e una per l'inquilino); il modello
69
compilato (disponibile presso l'Ufficio del registro); il modello A8
riepilogativo dei contratti che si presentano per la registrazione.
Solo a questo punto può dirsi concluso l'iter della
registrazione. Per quanto
riguarda il versamento dell'imposta di registro relativa alle
annualità
successive alla prima, gli interessati devono utilizzare l' apposito
modello
F23 da presentare alla posta o in banca. Non occorre tornare
all'Ufficio del
registro a meno che non si debba notificare una proroga o la
risoluzione del
contratto. È importante sottolineare, infine, che l'imposta deve
essere pagata
dalle parti contraenti in ugual misura (50% a testa), ma allo stesso
tempo il
proprietario e l'inquilino sono obbligati in solido al pagamento.
Ciò significa
che lo Stato può richiedere l'intero importo dell'imposta anche
solo a uno
degli interessati, il quale sarà obbligato a versarlo, salvo,
poi, riottenere
la metà dall'altro.
IL RINNOVO
Se
di un contratto ad uso
abitativo non viene data disdetta nei tempi previsti, lo stesso si
rinnova
automaticamente per tempi diversi, a seconda del tipo di contratto.
Occorre
fare particolare attenzione ai vecchi contratti in corso stipulati
prima della nuova
legge, perché, a parte il rinnovo automatico per altri quattro
anni del patto
in deroga alla prima scadenza, negli altri casi (equo canone e patto in
deroga
alla seconda scadenza), se non viene notificata la disdetta del
contratto,
quest'ultimo entra nel regime della nuova legge con durata quattro anni
più
quattro di rinnovo.
IL DEPOSITO
CAUZIONALE
Circa il
rispetto del
contratto d'affitto, a garanzia del proprietario
In genere, gli interessi legali sono corrisposti all'inquilino alla
fine del rapporto
di locazione, insieme alla restituzione del deposito. Ciò non
toglie che
l'inquilino, avendone diritto, possa richiedere gli interessi di anno
in anno.
È buona regola per il conduttore acquisire la prova del reale
pagamento della
somma a deposito (attraverso le ricevute di versamento o di accrediti
in banca,
le matrici di assegni ecc.) così come delle cifre sostenute per
l'affitto o per
le spese condominiali.
La restituzione del deposito cauzionale deve avvenire al momento del
rilascio
dell'immobile.
Si tratta di
una pratica
burocratica (prevista dalla legge antiterrorismo) di competenza del
proprietario di un immobile: quando quest'ultimo decide di affittare,
vendere o
comunque cedere il bene di sua proprietà è obbligato a
farne, entro 48 ore, la
denuncia in Questura. È necessario compilare un foglio in
duplice copia
(una per la questura, una per l'autorità locale di pubblica
sicurezza) in cui
riportare i propri dati, quelli dell'inquilino e quelli dell'immobile.
Occorre
quindi ricordarsi di chiedere all'inquilino copia dei documenti di
identità
validi con relativo numero e data di rilascio (è sufficiente
fare la fotocopia
fronte-retro della carta d'identità).
Per effettuare la presentazione materiale della denuncia non esiste una
regola
univoca e precisa. In alcune città la si presenta direttamente
all'Ufficio
della Questura competente per territorio, nelle piccole città o
nei paesi la si
può presentare alla Polizia Municipale oppure all'Ufficio
Anagrafe o a quello
Protocollo del Comune in cui è situato il proprio immobile. Se
si risiede
lontano, è possibile spedirla anche per posta, tramite
raccomandata con
ricevuta di ritorno.
4 - LOCAZIONI
NON
ABITATIVE
Le locazioni
non
abitative sono regolate da norme diverse rispetto a quelle previste per
le
abitazioni. La nuova legge sulle locazioni (n. 431/1998), infatti, non
si
riferisce a questo tipo di immobili, che pertanto continuano ad essere
disciplinati dalla legge sull'equo canone (n. 392/1978). L'art. 27 di
tale
legge individua alcune tipologie di rapporti locativi non abitativi al
fine
precipuo di determinare la durata minima del relativo contratto. Tale
disposizione contempla innanzi tutto le locazioni di immobili da
adibire ad
attività industriali, commerciali e artigianali, alle
attività di interesse
turistico, comprese nell'art. 2 della Legge 12 marzo 1968, n. 326, e
all'esercizio abituale e professionale di qualsiasi attività di
lavoro autonomo
(sono da considerare inoltre anche le locazioni di immobili adibiti ad
attività
particolari). Le tipologie contrattuali più frequenti e
ricorrenti nella
pratica sono quelle legate alle attività industriali,
commerciali e
artigianali. La nozione delle attività in parola si ricava dal
Codice Civile e
dalle leggi speciali. La normativa sull'equo canone disciplina quindi
anche il
diritto di prelazione e riscatto, la sublocazione e la cessione del
contratto e
la successione nel contratto.
Locazioni
commerciali
Per la
regolamentazione
delle locazioni commerciali si adottano norme differenti rispetto a
quelle
previste per le abitazioni. La nuova legge sulle locazioni (n.
431/1998),
infatti, non si riferisce a questo tipo di contratti, che pertanto
continuano
ad essere disciplinati dalla legge sull'equo canone (n. 392/1978).
La definizione di attività commerciale in senso stretto, quella
che il Codice
Civile chiama "attività intermediaria nella circolazione dei
beni",
si ricava dalla Legge 11 giugno 1971, n. 426, intitolata "Disciplina
del
Commercio".L'art. 1 della tale legge dispone, tra l'altro: "....Agli
effetti della presente legge, esercita: 1) l'attività di
commercio
all'ingrosso, chiunque professionalmente acquista merci a nome e per
conto
proprio e le rivende ad altri commercianti, grossisti o dettaglianti o
utilizzatori
professionali o ad altri utilizzatori in grande. Tale attività
può assumere la
forma di commercio interno di importazione o di esportazione; 2)
l'attività di
commercio al minuto, chiunque professionalmente acquista merci a nome e
per
conto proprio e le rivende, in sede fissa o mediante altre forme di
distribuzione, direttamente al consumatore finale; 3) l'attività
di
somministrazione di alimenti o bevande, chiunque professionalmente
somministra,
in sede fissa o mediante altra forma di distribuzione, alimenti o
bevande al
pubblico". Lo stesso articolo precisa poi che è vietato
esercitare
congiuntamente, nello stesso punto vendita, le attività di
commercio al minuto
e all'ingrosso (salve alcune eccezioni specificamente elencate dalla
norma) e
che le merci possono essere rivendute sia nello stato in cui sono state
acquistate sia dopo che siano state sottoposte ad abituali trattamenti
o
modificazioni.
È molto utile conoscere i punti-cardine dei contratti d'affitto
commerciali.
Il contratto dura sei anni (nove nel caso di alberghi) ed è
rinnovabile
automaticamente (ma solo alla prima scadenza) di altri sei (o nove), a
meno che
non siano presenti situazioni tali da rendere possibile il rifiuto del
rinnovo
da parte del proprietario.
L'importo del canone viene fissato liberamente all'inizio del rapporto
d'affitto e può essere rivisto solo alla scadenza del contratto,
se si intende
rinnovarlo. L'aggiornamento annuale del canone non è automatico
come nelle
locazioni abitative, ma si verifica solo se è stato
espressamente previsto
nell'accordo (in ogni caso, il ritocco deve essere contenuto
all'interno del
75% dell'indice ISTAT di variazione del costo della vita).
La disdetta va inviata 12 mesi prima della scadenza per i contratti a
sei anni
e 18 mesi prima per i contratti della durata di nove anni. Al primo
rinnovo, la
disdetta può essere inviata solo se ricorre uno dei seguenti
casi:
- il proprietario desidera adibire i locali affittati a propria
abitazione;
- il proprietario vuole svolgervi un'attività o intende demolire
la
costruzione.
Gli immobili presso i quali hanno sede attività che prevedono un
contatto
diretto con il pubblico (per esempio, negozi o botteghe artigiane)
godono di
alcuni diritti speciali, come la prelazione dell'inquilino in caso di
vendita
dell'immobile (una possibilità che non esiste nei contratti
abitativi), la
possibilità di cedere il contratto e quella di sublocare
l'immobile, se ceduto
insieme all'azienda.
Infine, l'inquilino che è stato privato dei locali che aveva
preso in affitto
ha diritto a una indennità d'avviamento pari a 18
mensilità (21 per gli
alberghi), oltre a una indennità integrativa se da chiunque
altro, in quegli
stessi locali, viene svolta la sua medesima attività (Legge n.
392/1978).
A seconda del contratto, le locazioni possono essere assoggettate ad
IVA o ad
imposta di registro, tasse pagate in ogni caso dall'inquilino.
Locazioni
industriali
Relativamente
all'attività industriale, l'art. 2195 del Codice Civile, al n 1,
definisce tale
attività "diretta alla produzione di beni e servizi".
La disposizione si riferisce innanzi tutto ad ogni attività, di
carattere non
agricolo e non artigiano, volta alla trasformazione della materia,
oltre a
tutte quelle attività che, non comportando trasformazione della
materia, si
risolvono nella creazione e, quindi nella fornitura, di un servizio (si
pensi
alle imprese di leasing, a quelle di factoring, alle case di cura, agli
istituti di istruzione, alle imprese di trasporto, a quelle
assicurative ecc.).
Come per le locazioni di natura commerciale, la legge che disciplina i
contratti d'affitto industriali, non abitativi, è quella
sull'equo canone
(Legge n. 392/1978).
Locazioni
artigiane
Anche per
l'impresa artigiana esiste una
definizione legale. La normativa vigente definisce artigiana l'impresa
che
abbia per scopo prevalente lo svolgimento di un'attività di
produzione di beni,
anche semilavorati, o di prestazioni di servizi, escluse le
attività agricole e
le attività di prestazione di servizi commerciali, di
intermediazione nella
circolazione dei beni o ausiliarie di queste ultime, di
somministrazione al
pubblico di alimenti e bevande, salvo il caso che siano solamente
strumentali e
accessorie all'esercizio dell'impresa.
È artigiana l'impresa che è costituita ed esercitata in
forma di società, anche
cooperativa, escluse le società a responsabilità limitata
e per azioni e in
accomandita per azioni, a condizione che la
maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in
prevalenza
lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che
nell'impresa il
lavoro abbia funzione preminente sul capitale.
È, altresì, artigiana l'impresa che:
a) è costituita ed esercitata in forma di società a
responsabilità limitata con
unico socio, sempre che il socio unico sia in possesso dei requisiti
indicati
dalla legge e non sia unico socio di altra società a
responsabilità limitata o
socio di una società in accomandita semplice;
b) è costituita ed esercitata in forma di società in
accomandita semplice,
sempre che ciascun socio accomandatario sia in possesso dei requisiti
indicati
dalla legge e non sia unico socio di una società a
responsabilità limitata o
socio di altra società in accomandita semplice.
In caso di trasferimento per atto tra vivi della titolarità
delle società,
l'impresa mantiene la qualifica di artigiana purché i soggetti
subentranti
siano in possesso dei requisiti previsti dalla legge.
L'impresa artigiana può svolgersi in luogo fisso, presso
l'abitazione
dell'imprenditore o di uno dei soci o in appositi locali o in altra
sede
designata dal committente oppure in forma ambulante o di posteggio. In
ogni
caso, l'imprenditore artigiano può essere titolare di una sola
impresa
artigiana".
Le locazioni di questi tipo sono regolate dalla Legge n. 392/1978
sull'equo
canone alla stregua di quelle di natura commerciale.
Locazioni di
immobili
adibiti ad Attività abituale e professionale di lavoro autonomo
Nella
definizione di
"attività abituali e professionali di lavoro autonomo" si
intendono
comprese tutte quelle attività lavorative autonome, diverse da
quelle
"imprenditoriali" di carattere commerciale, artigianale e
industriale, che vengano svolte professionalmente, cioè in modo
non episodico e
occasionale, ma con abitualità. Le attività
libero-professionali, infatti, non
sono considerate dalla legge "imprenditoriali", fatta salva l'ipotesi
di cui all'art. 2238 del Codice Civile, il quale qualifica
imprenditoriale
l'esercizio della professione che costituisca solo uno degli elementi
di
un'attività organizzata in forma di impresa (l'esempio classico
è quello del
medico che opera all'interno della clinica di cui è titolare).
La professionalità non presuppone necessariamente l'iscrizione
del soggetto
economico in albi, ruoli o registri, potendo la stessa ravvisarsi anche
nel
soggetto che svolga attività di tipo artistico o letterario (per
esempio, gli
studi dei pittori, degli scultori o degli scrittori). Inoltre, come
è stato
ribadito più volte dalla
giurisprudenza, "né la lettera né lo spirito della legge
consentono di
escludere dal novero delle attività professionali di cui
all'art. 27, Legge n.
392/1978 quelle che non siano rigorosamente liberali (avvocati, medici,
ingegneri, ecc.), bensì siano di più recente
organizzazione (quali quelle dei
biologi, dei geologi, dei consulenti del lavoro, quelle cosiddette
paramediche
ecc.)".
Locazione di
immobili
adibiti ad attività particolari
La disciplina
della
Legge n. 392/1978 è applicabile anche alle locazioni di immobili
utilizzati
dal
conduttore per l'esercizio di attività diverse da quelle
previste dall'art. 27,
caratterizzate dalla funzione "sociale" in senso lato delle
attività
stesse, ovvero dalla particolare natura soggettiva del conduttore.
Rispetto
alle locazioni di immobili nei quali si svolgono attività
propriamente
imprenditoriali, la tutela legale delle suddette locazioni è
minore. L'art. 42
della Legge n. 392/1978 sull'equo canone dispone al riguardo che i
contratti di
locazione di immobili urbani adibiti ad attività ricreative,
assistenziali,
culturali e scolastiche, nonché a sede di partiti o di
sindacati, e quelli
stipulati dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in
qualità di
conduttori, hanno la durata di cui al primo comma dell'art.
Le attività prese in esame dalla norma riportata sopra
costituiscono una serie
eterogenea di servizi in alcuni casi (attività ricreative e
assistenziali) di
ambito talmente indefinito da non consentire alcuna classificazione o
una
precisa individuazione. Anche la giurisprudenza ha peraltro
interpretato la
disposizione in maniera elastica e la casistica che ne risulta è
quanto mai
variegata.
L'esercizio di un impianto sportivo può rientrare nel novero
delle attività
ricreative solo nel caso in cui non abbia fine di lucro e le
attività vengano
organizzate ai fini della produzione di un servizio.
L'esatta individuazione delle attività di tipo assistenziale
è invece
estremamente complicata. La dottrina e la giurisprudenza hanno
riconosciuto la
natura assistenziale di molteplici attività. La casistica,
prodottasi
soprattutto in giurisprudenza, è decisamente vasta. In alcuni
casi siamo di
fronte a
un'interpretazione molto ampia della norma dell'art. 42 e alla stregua
di tali
interpretazioni è possibile riconoscere natura assistenziale
alle attività
svolte da molti enti e numerose associazioni di carattere pubblico o
privato
che operano nei più vari settori dei volontariato,
dell'assistenza medica,
della sicurezza sociale.
Vi sono anche delle sentenze che pervengono a interpretazioni opposte
della
norma con riferimento alla medesima attività.
In relazione alle attività culturali e, in particolare a quelle
scolastiche, si
rileva che l'attività didattica rientra nella previsione
dell'art. 42 solo se
viene svolta senza fine di lucro. Nel caso in cui, infatti,
l'attività
didattica venga organizzata in modo imprenditoriale, il fenomeno
rientra nelle
attività industriali o commerciali (è il caso, per
esempio, anche dell'attività
svolta dalle autoscuole).
5 - DIRITTO DI
PRELAZIONE E DI RISCATTO
Sulla base del
principio
di salvaguardia delle attività produttive, la legge stabilisce
per il
conduttore di un immobile il diritto di prelazione sia sulla
compravendita
dell'immobile affittato, sia sulla nuova, eventuale locazione dello
stesso.
Tale diritto è sancito dagli articoli 38 e 40 della Legge n.
392/1978. L'art.
39 disciplina invece l'esercizio, da parte dell'inquilino, del diritto
di
riscatto dell'immobile venduto non rispettando la normativa sulla
prelazione di
cui all'art. 38.
Le uniche due eccezioni al principio affermato al primo comma dell'art.
38
(diritto di prelazione dell'inquilino) sono previste all'ultimo comma
del
suddetto articolo: il principio è inapplicabile nelle ipotesi di
prelazione
ereditaria prevista all'art. 732 del Codice Civile e nell'ipotesi di
trasferimento effettuato a favore del coniuge o dei parenti entro il
secondo
grado.
Secondo i giudici di legittimità, la prelazione è inoltre
esclusa allorquando
il conduttore sia la pubblica amministrazione.
In relazione all'ambito di vigenza dell'articolo 38, occorre osservare
in primo
luogo che la prelazione spetta solo laddove il locatore (inteso come il
proprietario) intenda trasferire l'immobile a titolo oneroso (si
escludono
quindi i trasferimenti a titolo gratuito, cioè le donazioni). Il
trasferimento
della proprietà deve peraltro essere volontario e non deve
trattarsi di una
vendita coatta. Un'altra ipotesi di esclusione si verifica quando il
locatore
decide di procedere alla permuta dell'immobile locato. Il diritto di
prelazione
non spetta neppure al conduttore fallito e quindi il locatore non
è tenuto a
inviare al conduttore stesso o al curatore fallimentare alcuna
comunicazione ai
fini dell'esercizio della prelazione.
Al fine di consentire al conduttore l'esercizio del diritto di
prelazione, il
locatore deve fornire all'inquilino una comunicazione formale in merito
alla
sua intenzione di vendere l'immobile. Tale comunicazione deve essere
notificata
tramite l'ufficiale giudiziario. Il contenuto della comunicazione
è previsto al
comma 2 dell'art. 38 della Legge n. 392/1978. Devono essere indicati:
il
corrispettivo della vendita, da quantificarsi in denaro, le altre
condizioni
alle quali la vendita dovrebbe essere conclusa (tempi per la stipula
dei
contratto definitivo e dell'eventuale preliminare, modalità e
termini dei
pagamento ecc.) e l'invito a esercitare o meno il diritto di
prelazione. La
mancanza delle indicazioni richieste dalla norma rende inefficace la
comunicazione.
Se il conduttore intende esercitare il diritto di prelazione, deve
fornire
comunicazione di ciò al proprietario, notificandogli, a mezzo di
Ufficiale
Giudiziario, un apposito atto nel quale formalmente offre condizioni
uguali a
quelle che gli sono state comunicate. Il termine per esercitare tale
diritto è,
a pena di
decadenza, di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione dei
proprietario
(art. 38, comma 3).
Non si può considerare valida la dichiarazione di accettazione
che contenga
offerte differenti rispetto a quelle formulate dal proprietario. Il
comma 4
dell'art. 38 stabilisce che "ove il diritto di prelazione sia
esercitato,
il versamento del prezzo di acquisto, salvo diversa condizione indicata
nella
comunicazione del locatore, deve essere effettuato nel termine di
trenta giorni
decorrenti dal sessantesimo giorno successivo a quello dell'avvenuta
notificazione della comunicazione da parte del proprietario,
contestualmente
alla stipulazione del contratto di compravendita o del contratto
preliminare".
I commi successivi del suddetto articolo stabiliscono norme relative ai
casi in
cui il diritto di prelazione competa a una pluralità di
conduttori.
Oltre alla prelazione nel caso di vendita dell'immobile,
Non beneficia della prelazione il conduttore receduto dal contratto
(anche se
lo stesso si è risolto per inadempimento del conduttore
medesimo) e l'inquilino
sottoposto a procedura concorsuale. Complessivamente si tratta di una
tutela
legale (art. 40) molto blanda, comunque senz'altro meno incisiva della
prelazione sull'acquisto dell'immobile. Infatti, gli obblighi del
locatore che
intenda affittare a terzi l'immobile si concretizzano essenzialmente
nella
comunicazione al conduttore delle offerte di affitto ricevute. In
assenza di
offerte l'obbligo in parola non sussiste. La norma si rivela quindi
facilmente
eludibile, considerato che per l'inquilino non è possibile
sapere se
effettivamente il locatore abbia ricevuto le offerte in questione.
Se il locatore riceve offerte di terzi che lo inducono a ritenere
conveniente
la nuova locazione dell'immobile è tenuto a comunicare tali
offerte al
conduttore, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, almeno
sessanta
giorni prima della scadenza del contratto.
Qualora il conduttore intenda esercitare la prelazione sulla nuova
locazione,
deve, a sua volta, comunicare mediante raccomandata con avviso di
ricevimento
indirizzata al locatore la sua offerta (che deve essere uguale a quella
che gli
è stata comunicata dal locatore). L'offerta del conduttore deve
pervenire al
locatore entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione del
locatore
stesso.
L'inadempimento del locatore agli obblighi previsti dall'art. 40
comporta
l'obbligo dei risarcimento del danno subito dal conduttore.
L'inquilino può rientrare nella detenzione dell'immobile, solo
se questo non
risulta già occupato dal nuovo conduttore, rivolgendosi al
giudice.
L'ultimo comma dell'art. 40 dispone che il conduttore conserva il
diritto di
prelazione anche "nel caso in cui il contratto tra il locatore e il
nuovo
conduttore sia sciolto entro un anno, ovvero quando il locatore abbia
ottenuto
il rilascio dell'immobile non intendendo locarlo a terzi, e, viceversa,
lo
abbia concesso in locazione entro i sei mesi successivi".
Nella prima ipotesi, il vecchio conduttore potrà legittimamente
richiedere al
locatore di stipulare un contratto dal contenuto identico a quello
scioltosi
entro l'anno. Nella seconda ipotesi, il conduttore potrà
pretendere solo il
risarcimento del danno subito in dipendenza dell'inadempimento del
locatore.
L'art. 39 attribuisce al conduttore il diritto di riscattare l'immobile
venduto
a terzi in caso di inosservanza da parte del venditore, ex locatore,
della
disciplina in materia di prelazione al conduttore. La norma è
quindi correlata
alla normativa dell'art. 38 del quale garantisce la compiuta
applicazione. In
generale il diritto di riscatto consente al conduttore di sostituirsi
all'acquirente, diventandone proprietario in luogo di questi, dietro il
versamento (rimborso) all'acquirente stesso del prezzo pagato.
L'art. 39 ammette l'esercizio del diritto di riscatto:
a) nell'ipotesi in cui il proprietario non provveda alla comunicazione
al
conduttore dell'intenzione di vendere l'immobile locato,
b) nel caso in cui il corrispettivo indicato nella comunicazione di cui
sopra
sia superiore a quello risultante dall'atto di trasferimento.
Se il proprietario ha venduto l'immobile dopo aver effettuato la
comunicazione
al conduttore ma prima che questi abbia potuto esercitare la prelazione
sull'acquisto, al conduttore compete il diritto di riscatto solo
laddove a suo
tempo abbia comunicato al proprietario la volontà di esercitare
la prelazione.
Il diritto di riscatto deve essere esercitato, a pena di decadenza,
entro sei
mesi dalla trascrizione dell'atto di vendita. Occorre sottolineare
l'importanza
per il conduttore di rispettare il termine previsto a pena di
decadenza,
giacché per nessun motivo si ammette che il diritto di riscatto
possa essere esercitato
oltre il suddetto termine, quali che siano le ragioni dei ritardo.
Il conduttore che esercita il diritto di riscatto deve versare il
prezzo
all'acquirente retrattato entro tre mesi. Tale termine ha una
decorrenza
variabile a seconda che vi sia o meno opposizione alla domanda di
riscatto. In
assenza di opposizione, i tre mesi decorrono infatti o dalla prima
udienza del
relativo giudizio (quando cioè in sede processuale si constata
che l'acquirente
non intende opporsi alla domanda attrice), oppure, prima di tale
udienza, dalla
data di notificazione al conduttore-attore della comunicazione di non
opposizione al riscatto fatta dall'acquirente-convenuto. Quando invece
l'acquirente si oppone alla domanda di riscatto, il termine trimestrale
decorre
dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il
giudizio.
Sul versamento del prezzo si ritiene che all'interno di quest'ultimo
non
debbano essere comprese né le spese notarili né gli altri
oneri accessori
relativi al contratto stipulato tra il retrattato e il venditore
6 -
SUBLOCAZIONE E
CESSIONE DEL CONTRATTO
Le questioni
relative
alla sublocazione e alla cessione del contratto di locazione sono
regolamentate
dall'art. 1594 del Codice Civile. Secondo la norma codicistica la
sublocazione
dell'immobile è sempre ammessa, a meno che le parti non la
escludano
espressamente in sede di conclusione del contratto. La cessione del
contratto,
invece, non può avvenire in assenza del consenso preventivo
relativo alla
cessione stessa. Tale consenso può anche essere tacito e,
inoltre, può essere
espresso già in fase di conclusione del contratto.
La cessione del contratto e la sublocazione dell'immobile effettuate
senza il
consenso del locatore costituiscono specifici inadempimenti del
conduttore e
consentono al locatore di chiedere la risoluzione dei contratto
vanificando i
rapporti illegittimamente posti in essere dal conduttore.
Il conduttore deve comunicare al locatore la cessione del contratto di
locazione o la sublocazione dell'immobile. È senz'altro
preferibile che la
comunicazione venga effettuata a mezzo di lettera raccomandata con
ricevuta di
ritorno e ciò anche se nessuna norma imponga tale
formalità. Si ammette infatti
l'impiego di mezzi diversi per l'informativa in questione purché
si possa efficacemente
dimostrare che il locatore ha avuto conoscenza dell'atto con il quale
si è
trasferita la detenzione dell'immobile a soggetto diverso
dall'originario
conduttore.
Tale comunicazione deve essere piuttosto dettagliata e contenere tutti
gli
elementi che valgano ad identificare la persona di colui che viene a
subentrare
nel godimento dell'immobile e il titolo in forza dei quale si realizza
tale
subentro.
Dal ricevimento della comunicazione, il locatore può, entro
trenta giorni,
opporsi per gravi motivi all'accordo intervenuto tra il conduttore e il
terzo.
I "gravi motivi" che giustificano l'opposizione del locatore devono
riguardare la persona del nuovo conduttore.
Laddove il locatore che si oppone alla cessione del contratto di
locazione (o
alla sublocazione dell'immobile), risulti vittorioso nel relativo
giudizio, il
rapporto di locazione principale verrà risolto per inadempimento
dell'originario conduttore (il quale ha illegittimamente ceduto o
sublocato
l'immobile) e il rapporto derivato (di cessione o di sublocazione)
perderà,
conseguentemente, ogni efficacia.
7 -
L'art. 37
della Legge n.
392/1978 disciplina i diversi casi nei quali può avvenire la
successione nella
conduzione dell'immobile locato (oltre alle ipotesi di cessione o di
affitto di
azienda previste all'art. 36). Il primo comma dell'art. 37 prevede che,
in caso
di morte del conduttore, coloro che hanno diritto a proseguire
nell'attività
(per successione o per un rapporto precedente risultante da un atto di
data
certa anteriore all'apertura della successione) gli succedano nel
contratto.
La successione mortis causa costituisce un'eccezione alla regola,
poiché il
rapporto di conduzione, basato sulle qualità personali del
conduttore, non
rientra tra i rapporti che è possibile trasmettere agli eredi.
L'obiettivo è
quello della salvaguardia dell'attività di natura economica
esercitata
nell'immobile affittato. Possono infatti succedere al defunto solo
coloro che
hanno diritto a proseguire nell'attività dell'inquilino
deceduto. Si tratta,
praticamente, di una successione aziendale. In caso contrario non
è possibile
realizzare una successione nel contratto.
Il diritto a succedere nella conduzione dell'immobile viene
riconosciuto, oltre
agli eredi legittimi e testamentari, a coloro che abbiano acquisito il
diritto
alla prosecuzione dell'attività per atto certo precedente
all'apertura della
successione.
Esiste inoltre un caso particolare di successione legale nella
locazione ad uso
commerciale, disciplinato dal secondo comma dell'art. 37: si tratta
della
disciplina applicabile nelle ipotesi di separazione e di divorzio. Il
principio
alla base della norma è sempre quello della salvaguardia della
continuità
aziendale; viene quindi tutelato il coniuge che esercitava
l'attività economica
con l'altro coniuge già prima della separazione.
Anche i soci e i condividendi l'uso dell'immobile possono, sulla base
del
quarto comma del suddetto articolo, succedere al conduttore receduto,
purché
ricorrano i presupposti legali stabiliti dal comma 3. È previsto
però che il
locatore possa opporsi alla successione del contratto da parte degli
aventi
diritto, ove ricorrano gravi motivazioni (vedi art. 36).
8 - I CONTRATTI
I CONTRATTI
CONVENZIONATI
Esistono diversi tipi di affitto e la prima distinzione da fare
è quella tra
locazione a uso abitativo e locazione a uso diverso, vale a dire
riguardante
attività commerciali e altro. All'interno della categoria dei
contratti
d'affitto per uso abitazione si annoverano diversi tipi degli stessi:
la
riforma delle locazioni ha sostituito ai vecchi contratti a equo canone
e ai
patti in deroga due nuove tipologie di contratto, quello libero e
quello
regolato. A essi si aggiungono locazioni stipulate per uso transitorio
o
turistico. Questi sono i tre tipi di contratto previsti dalla nuova
legge sulle
locazioni. La locazione ad uso diverso riguarda, invece, l'uso
commerciale per
negozi, uffici, studi professionali ecc.
In relazioni agli affitti per uso abitativo occorre aggiungere che i
vecchi
contratti restano comunque in vigore, laddove già stipulati,
fino alla loro
naturale estinzione (quattro anni per l'equo canone, otto anni per il
patto in
deroga).
I due tipi principali di contratto di affitto introdotti dalla riforma
delle
locazioni (Legge n. 431/1998) sono i seguenti: un contratto d'affitto
libero
nel canone ma con durata di quattro anni (più quattro di
rinnovo) e uno
regolato da accordi tra le associazioni dei proprietari e quelle degli
inquilini, su impulso dell'amministrazione comunale, con durata di tre
anni
(più due di rinnovo).
Per essere validi, devono essere entrambi stilati in forma scritta. I
proprietari che scelgono il contratto regolato beneficiano di
agevolazioni
fiscali: uno sconto sull'IRPEF e sull'imposta di registro, oltre a una
riduzione dell'ICI che può essere decisa dai singoli Comuni. Per
gli inquilini
con bassi redditi, a partire dal 2001, è previsto uno sconto
dell'IRPEF grazie
all'istituzione di un fondo nazionale di 1800 miliardi, in cui
confluiranno
anche i fondi ex Gescal. La riforma prevede poi una serie di norme
antievasione. Per esempio, senza la registrazione del contratto sia i
proprietari sia gli inquilini non potranno usufruire dei benefici
fiscali. È
importante sottolineare che lo sconto IRPEF si applica solo ai
residenti nei
Comuni ad alta tensione abitativa.
Come prevede l'art. 1 della succitata legge di riforma, le nuove
tipologie di
contratto si applicano a tutte le locazioni stipulate dopo l'entrata in
vigore
della legge (30 dicembre 1998) ad esclusione di quelle aventi per
oggetto case
popolari, alloggi affittati per turismo, case gestite dagli enti locali
in
qualità di conduttore per soddisfare esigenze abitative
transitorie. Per gli
immobili vincolati di valore storico e artistico, le abitazioni di tipo
signorile (categoria catastale A/1), le ville (categoria catastale A/8)
e le
abitazioni di lusso (categoria catastale A/9), le parti possono
scegliere se
applicare il canale regolato della nuova normativa con i relativi
benefici
fiscali, oppure, avvalersi delle regole del libero mercato.
Per qualsiasi tipo di contratto si opti è importante ricordare
che nella parte
descrittiva esso deve contenere tutti gli elementi e i riferimenti
documentali
e informativi sulla classificazione catastale, le tabelle millesimali,
lo stato
degli impianti e delle attrezzature tecnologiche anche in relazione
alle
normative sulla sicurezza nazionale e comunitaria, nonché una
clausola che
faccia riferimento alla reciproca autorizzazione al trattamento dei
dati in
base alla normativa sulla privacy. Anche negli altri tipi di contratto
è
consigliabile (seppure non obbligatorio) inserire tutte queste
informazioni,
tanto che il facsimile del contratto libero concordato tra le
associazioni
della proprietà e i sindacati degli inquilini ne prevede
l'elencazione.
La determinazione dei canoni di locazione a livello territoriale
è stata
stabilita sulla base della Convenzione nazionale convocata dal Ministro
dei
lavori pubblici con rappresentanze delle organizzazioni della
proprietà
edilizia e dei conduttori. Tale Ministro, di concerto con quello delle
finanze,
ha emesso successivamente un decreto (D. M. 5 marzo 1999) che ha
formalizzato e
reso attuative le delibere della suddetta Convenzione.
IL CONTRATTO LIBERO
Il primo canale di locazione (come prevede
Sono nulli gli accordi che prevedono qualsiasi obbligo in contrasto con
le
disposizioni di legge nonché qualsiasi clausola o vantaggio
economico diretto
ad attribuire al proprietario un canone superiore a quello stabilito
nel
contratto. Qualora ci si trovasse di fronte a situazioni del genere,
l'inquilino può chiedere (effettuando istanza al Tribunale) che
l'affitto sia
ricondotto negli ambiti di legge con la possibilità di
riottenere le somme
pagate in eccesso (almeno sei mesi prima della riconsegna). È
utile disporre di
un facsimile del contratto-tipo.
IL CONTRATTO REGOLATO
Il secondo tipo di contratto (in base alla Legge n. 431/1998,
art.
2, comma
3), al contrario di quello libero, non consente piena libertà
nella
determinazione del canone, però prevede, in cambio, una durata
inferiore (tre
anni più due di rinnovo) e la possibilità di ottenere
alcune agevolazioni
fiscali. Proprietari e inquilini, dunque, possono certamente concordare
il
prezzo dell'affitto, ma all'interno di fasce di canone predeterminate.
Risulta nulla ogni eventuale pattuizione volta ad attribuire al
proprietario un
canone superiore a quello massimo definito dagli accordi territoriali
per gli immobili
appartenenti alle medesime tipologie. Anche in questo caso l'inquilino
può
chiedere (mediante istanza al Tribunale) che l'affitto sia ricondotto
negli
ambiti di legge con la possibilità di riottenere le somme pagate
in eccesso
(almeno sei mesi prima della riconsegna).
Ogni due anni, le associazioni della proprietà e degli
inquilini, insieme al
Comune, stabiliscono, a livello locale, fasce di oscillazione del
canone di
affitto all'interno delle quali, secondo le caratteristiche
dell'immobile e
dell'unità immobiliare, potrà essere concordato tra le
parti il canone per i
singoli contratti.
A tale scopo, nei Comuni ad alta tensione abitativa vengono individuate
le aree
con caratteristiche omogenee per valori di mercato, dotazioni
infrastrutturali
(trasporti, verde pubblico, servizi scolastici e sanitari,
infrastrutture
commerciali ecc.), tipi edilizi (tenendo conto delle categorie e classi
catastali). Ad ognuna di tali aree corrispondono un valore minimo e uno
massimo
di canone al metro quadrato.
Una volta individuata la fascia di oscillazione relativa alla zona
dell'immobile oggetto del contratto, il proprietario e l'inquilino
fissano il
canone effettivo. Nell'effettuare tale operazione devono tenere conto
anche dei
seguenti elementi: tipologia dell'alloggio; pertinenze dell'alloggio
(posto
auto, box , cantina ecc.); stato manutentivo dell'alloggio e
dell'intero
stabile; presenza di spazi comuni (aree comuni, cortili, aree a verde,
impianti
sportivi interni ecc.); dotazione di servizi tecnici (ascensore,
riscaldamento
autonomo o centralizzato, condizionamento d'aria, ecc.); degrado
urbano;
eventuale dotazione di mobilio.
È molto importante anche avere informazioni precise in relazione
alle
agevolazioni di natura fiscale previste dalla nuova legge sulle
locazioni.
Gli sconti fiscali riguardano sia il proprietario sia l'inquilino che
aderiscono al contratto regolato, sempre che l'immobile sia situato nei
Comuni
ad alta tensione abitativa.
È stato inoltre istituito un fondo sociale per gli inquilini
meno abbienti al
quale i Comuni ad alta tensione abitativa potranno attingere anche per
iniziative specifiche a sostegno dell'emergenza abitativa: convenzioni
con
cooperative edilizie per la locazione, agenzie o istituti per la
locazione ecc.
(vedi D.M. 7 giugno 1999).
Per le locazioni di questo tipo (il contratto regolato), viene
elaborato e
depositato in Comune il contratto-tipo, da utilizzare rispettando le
seguenti
condizioni:
-rinnovo tacito in mancanza di disdetta;
-previsione, nel caso che il proprietario abbia riacquistato l'alloggio
a
seguito di illegittimo esercizio della disdetta ovvero non lo adibisca
agli usi
per i quali ha esercitato la facoltà di disdetta, di un
risarcimento in misura
non inferiore a trentasei mensilità dell'ultimo canone;
-facoltà di recesso da parte dell'inquilino per gravi
motivi;
-previsione, ove le parti lo concordino, di prelazione a favore del
conduttore
in caso di vendita dell'immobile;
-possibilità, in sede di accordi locali, di prevedere
l'aggiornamento del
canone in misura contrattata e comunque non superiore al 75% della
variazione
ISTAT;
-modalità di consegna dell'alloggio con verbale o comunque con
descrizione
analitica dello stato di conservazione dell'immobile;
-produttività di interessi legali annuali sul deposito
cauzionale non superiore
alle tre mensilità;
-esplicito richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della
ripartizione
tra le parti e in ogni caso richiamo ad accordi sugli oneri accessori
ai fini
della ripartizione e alle disposizioni della Legge n. 392/1978,
articoli 9 e
10;
-previsione di una commissione conciliativa stragiudiziale
facoltativa.
I CONTRATTI PER USO TEMPORANEO
La legge di riforma delle locazioni (n. 431/1998) e il
successivo
decreto
interministeriale del 5 marzo 1999 hanno apportato modifiche alla
disciplina
dei contratti ad uso temporaneo e in particolare a quelli cosiddetti
transitori. Il primo luogo l'uso transitorio è stato inserito
nel cosiddetto
secondo canale e quindi per affittare un'abitazione per un tempo
limitato, in base
alle esigenze delle parti, si devono utilizzare contratti speciali.
In particolare, è stato creato un contratto specifico per la
locazione a
studenti universitari fuori sede sulla base dei contratti a prezzo
calmierato.
Ciò non toglie che un inquilino studente universitario possa
rivolgersi anche
al mercato dell'affitto normale, stipulando un altro tipo di contratto
ad uso
abitativo.
È stato interamente liberalizzato l'uso turistico, che viene
quindi regolato
esclusivamente dalle norme del Codice Civile (art. 1571 e seguenti). In
relazione all'uso foresteria, invece, esistono dubbi rispetto al fatto
che il
contratto si possa stipulare solo in base al Codice Civile oppure, con
maggiori
probabilità, debba rientrare nella nuova normativa.
Tra gli usi temporanei risulta utile fornire alcune informazioni anche
in
relazione al contratto di comodato, anche se non si tratta di vera e
propria
locazione; non è infatti disciplinato dalla nuova legge sugli
affitti ma
direttamente dal Codice Civile.
I CONTRATTI TRANSITORI
Chi utilizza un contratto transitorio non risiede nella casa
ma
semplicemente vi dimora, cioè vi si trattiene per il tempo
necessario.
I canoni di locazione, come per tutti i contratti del secondo canale,
sono
fissati sulla base delle fasce di oscillazione per aree omogenee, come
pure le
relative misure di aumento o di diminuzione relativamente alla durata
contrattuale, nonché i criteri di ripartizione degli oneri di
manutenzione.
Il contratto prevede una specifica clausola che individui l'esigenza
transitoria
del proprietario e dell'inquilino. Il proprietario è tenuto a
confermare i
motivi della transitorietà attraverso una lettera da inviare
all'inquilino
prima della fine del contratto. L'esigenza transitoria dell'inquilino
deve
essere provata mediante apposita documentazione da allegare al
contratto. Resta
da chiarire se l'esigenza transitoria del proprietario sia sufficiente
a
rendere valido un contratto transitorio.
Per questo tipo di contratti viene elaborato e depositato in Comune il
contratto-tipo da utilizzare basandosi sul facsimile nazionale e
rispettando le
seguenti condizioni:
- durata minima di un mese e massima di diciotto mesi;
- dichiarazioni del proprietario e dell'inquilino che esplicitino
l'esigenza
della transitorietà;
- onere per il proprietario di confermare prima della scadenza del
contratto i
motivi di transitorietà posti a base dello stesso;
- riconduzione del contratto all'articolo 2, comma 1, della Legge
431/98 in
caso di mancata conferma dei motivi, ovvero risarcimento pari almeno a
trentasei mensilità in caso di mancato utilizzo dell'immobile
rilasciato;
- previsione di una particolare ipotesi di transitorietà per
soddisfare
esigenze dell'inquilino che lo stesso deve documentare allegandole al
contratto;
- facoltà di recesso da parte dell'inquilino per gravi
motivi;
- esclusione della sublocazione;
- previsione, ove le parti lo concordino, di prelazione a favore
dell'inquilino
in caso di vendita dell'immobile;
- modalità di consegna con verbale o comunque con descrizione
analitica dello
stato di conservazione dell'immobile;
- produttività di interessi legali annuali sul deposito
cauzionale che non
superi le tre mensilità;
- esplicito richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della
ripartizione e in ogni caso richiamo alle disposizioni della Legge n.
392/1978,
artt. 9 e 10;
- previsione di una commissione conciliativa stragiudiziale
facoltativa.
Con la riconduzione dell'uso transitorio al canale regolato dalla Legge
n.
431/1998, tale tipologia, molto probabilmente, non verrà
più utilizzata per
mascherare contratti d'affitto residenziali di lunga durata.
Però rimane
importante specificare la condizione transitoria che spinge il
conduttore a
stipularlo. Infatti, se vengono meno le cause della
transitorietà, il contratto
prevede la riconduzione della durata a quella prevista dal primo canale
(quattro anni più quattro di rinnovo).
Sia il proprietario sia l'inquilino sono responsabili della
dichiarazione resa.
Il secondo non deve mentire circa le sue esigenze, il primo è,
invece, chiamato
ad accertarle e sottoscriverle in una lettera da inviare all'inquilino
prima
della scadenza del contratto.
Anche i contratti d'affitto per gli studenti universitari fuori sede
sono stati
inseriti nella riforma delle locazioni (Legge n. 431/1998, art. 5). Nei
Comuni
sede di Università o di corsi universitari distaccati,
nonché nei Comuni
limitrofi, gli accordi territoriali dovranno prevedere particolari
contratti-tipo per soddisfare le esigenze degli studenti universitari
fuori
sede, vale a dire iscritti ad un corso di laurea in un Comune diverso
da quello
di residenza (da specificare nel contratto).
Come per tutti i contratti del secondo canale, i canoni di locazione
vengono
definiti in accordi locali, come pure le relative misure di aumento o
di
diminuzione relativamente alla durata contrattuale, nonché i
criteri di
ripartizione degli oneri di manutenzione. I sottoscrittori di questo
contratto
possono beneficiare delle agevolazioni fiscali proprie del secondo
canale di
locazione.
I contratti avranno durata da sei mesi a tre anni e potranno essere
sottoscritti o dal singolo studente o da gruppi di studenti
universitari fuori
sede o dalle aziende per il diritto allo studio.
Per ogni contratto si potrà tenere conto della presenza di
mobilio, di
particolari clausole, delle eventuali modalità di rilascio.
Anche per questo tipo di contratti viene elaborato e depositato in
Comune il
contratto-tipo da utilizzare basandosi sul facsimile nazionale e
rispettando le
seguenti condizioni:
- durata minima di sei mesi e massima di trentasei mesi;
- rinnovo automatico salvo disdetta dell'inquilino;
- facoltà di recesso da parte dell'inquilino per gravi
motivi;
- facoltà di recesso parziale per il conduttore in caso di
pluralità di
conduttori;
- esclusione della sublocazione;
- modalità di consegna con verbale o comunque con descrizione
analitica dello
stato di conservazione dell'immobile;
- produttività di interessi legali annuali sul deposito
cauzionale che non
superi le tre mensilità;
- esplicito richiamo ad accordi sugli oneri accessori ai fini della
ripartizione tra le parti e richiamo alle disposizioni della Legge n.
392/1978,
artt. 9 e 10;
- previsione di una commissione conciliativa stragiudiziale
facoltativa.
CONTRATTO TURISTICO
La disciplina per gli immobili affittati "esclusivamente per
finalità
turistiche" è esclusa dalla riforma delle locazioni, come
specificato
nella stessa (Legge n. 431/1998, art. 1, commi 2 e 3). Di conseguenza,
bisogna
fare riferimento alle norme dettate dal Codice Civile.
Per affittare un appartamento per le vacanze non è necessario
rispettare alcuna
modalità per la stipula o la rinnovazione del contratto: la
forma scritta non è
obbligatoria (ma è assolutamente preferibile), la durata minima
è libera e la
disdetta è automatica al termine del periodo pattuito, senza
bisogno di alcuna
comunicazione da parte del proprietario o dell'inquilino.
Per contro, a queste locazioni è inapplicabile l'art. 7 della
Legge 431/98
sulle condizioni per la messa in esecuzione del provvedimento di
rilascio
dell'immobile, e restano esclusi anche dalle agevolazioni fiscali
proprie del
secondo canale basato sulla negoziazione di accordi locali tra le
associazioni
dei proprietari e quelle degli inquilini.
I CONTRATTI DI COMODATO E FORESTERIA
Il comodato di un appartamento è un contratto con il
quale
il proprietario
consegna un immobile gratuitamente (anche se possono essere fissati
modesti
oneri) a un soggetto affinché se ne serva per un tempo o per un
uso
determinato. Tale disposizione è regolata direttamente dal
Codice Civile (art.
1803 e seguenti) e si fonda su un rapporto di fiducia tra proprietario
e
inquilino.
Per dar vita al comodato è sufficiente la disponibilità
della casa. Non è
indispensabile la proprietà del bene, pertanto anche
l'usufruttuario può
concedere in comodato l'appartamento oggetto di usufrutto e non occorre
un
contratto scritto: è sufficiente un accordo verbale. Nel caso in
cui
l'inquilino sostenga delle spese per l'uso dell'abitazione, non ha
diritto al
rimborso. Egli ha però diritto a essere rimborsato delle spese
straordinarie,
se necessarie e urgenti.
Nel contratto di comodato può essere convenuta una scadenza per
la
restituzione, ma questo termine può anche essere anticipato, se
da parte del
proprietario sopravviene il bisogno dell'immobile. Qualora non sia
stato
fissato un termine, il comodatario è tenuto a restituire
l'alloggio non appena
il proprietario lo richiede.
Il comodato è un ottimo sistema per affidare un alloggio a un
parente o amico
stretto a condizione di assoluto vantaggio e con la certezza di poterlo
riavere
indietro in qualunque momento. Spesso però nasconde un contratto
d'affitto
remunerativo, non stipulabile apertamente. Se il finto comodato viene
scoperto
verranno messi a confronto i sacrifici e i vantaggi che hanno le parti.
Se gli oneri gravanti sull'inquilino sono tali da corrispondere a un
vero e
proprio canone per il godimento dell'immobile, si tratta di locazione e
non più
di comodato, con le relative conseguenze giuridiche a carico di
entrambe le
parti.
L'uso foresteria si verifica quando un'azienda, un ente o una
società prende in
locazione un'abitazione per destinarla ad un proprio dipendente. Fino
al
dicembre 1998 questa eventualità veniva regolata con contratti
specifici
esclusi dalla disciplina dell'equo canone. Attualmente è dubbio
se i contratti
a uso foresteria possano essere stipulati in base al Codice Civile o,
come
sembra più probabile, debbano rientrare nella nuova legge sulla
locazione,
scegliendo dunque all'interno degli schemi del contratto libero
(quattro anni
più quattro) o regolato (tre anni più due).
IL SUBAFFITTO TOTALE E PARZIALE
In base alle norme del Codice civile il subaffitto di parte
della
casa
(parziale) è sempre possibile a meno che non sia indicato
diversamente sul
contratto.
Il subaffitto totale, invece, necessita di un'autorizzazione del
proprietario,
da richiedersi preferibilmente con una raccomandata che indichi il nome
dell'inquilino e la durata del contratto.
9 - I
CONTRATTI
PREVISTI DALLA LEGGE SULLE LOCAZIONI
PRIMO
CANALE: CANONE
LIBERO
Durata: minimo 8 anni (4 + 4 di rinnovo automatico)
Canone: liberamente concordato tra inquilino e proprietario
Aggiornamenti canone: liberamente concordati nell'entità,
frequenza e procedura
Caparra: massimo 1 mese anticipato e 2 mesi di caparra*
Divisione oneri: secondo il Codice civile e l'art. 9 della legge
sull'equo
canone
Disdetta inquilino: con lettera raccomandata almeno 6 mesi prima della
data da
lui scelta; proprietario: con lettera raccomandata almeno sei mesi
prima della
scadenza (8 anni o dopo i primi 4)
Rinnovo automatico per altri 4 anni (se non c'è disdetta)
Sconti fiscali proprietario: 15% sul canone da denunciare sulla
dichiarazione
dei redditi; inquilino: stanziati fondi nella Finanziaria
SECONDO CANALE: CANONE REGOLATO
Durata: minimo 5 anni (3 + 2 di rinnovo automatico)
Canone: canone massimo da concordare tra le organizzazioni della
proprietà
edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative
Aggiornamenti canone: da concordare tra le organizzazioni della
proprietà
edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative
Caparra: massimo 1 mese anticipato e 2 mesi di caparra*
Divisione oneri: secondo il Codice civile e l'art. 9 della legge
sull'equo
canone
Disdetta: inquilino: con lettera raccomandata almeno 6 mesi prima della
data da
lui scelta; proprietario: con lettera raccomandata almeno sei mesi
prima della
scadenza (5 anni o dopo i primi 3)
Rinnovo: automatico per altri 2 (se non c'è disdetta dopo i
primi 3)
Sconti fiscali: proprietario: 40,5% sul canone da denunciare sulla
dichiarazione dei redditi, più riduzione del 30% dell'imposta di
registrazione
(sconti Ici possono essere stabiliti dai Comuni); inquilino: stanziati
fondi
nella Finanziaria
TERZO CANALE: COMPLETAMENTE LIBERO
Tipi di immobile: casa vacanza, box auto, casa categoria A/1 e A/8,
casa
vincolata**
Durata: massimo 30 anni, minimo libero***
Canone: liberamente concordato tra inquilino e proprietario
Aggiornamenti canone: liberamente concordati nell'entità,
frequenza e procedura
Caparra: libera
Divisione oneri: secondo il Codice civile (proprietario: manutenzione
straordinaria; inquilino: manutenzione ordinaria)
Disdetta: automatica, senza bisogno di comunicazione preventiva
Rinnovo: non automatico: può essere concordato liberamente tra
le parti
Sconti fiscali: proprietario: 15% sul canone da denunciare sulla
dichiarazione
dei redditi; inquilino: stanziati fondi nella Finanziaria
NOTE
* Sulla caparra il proprietario versa ogni anno gli interessi legali
(attualmente il 2,5%)
**Gli immobili vincolati o di categoria A/1, A/8, A/9 possono essere
locati
anche con il secondo canale
***Se la durata non viene specificata si considera un anno per gli
immobili non
arredati; per quelli arredati la durata è quella relativa al
canone versato.
L'Equo Canone
Al
di là dei due nuovi canali
per affittare un alloggio previsti dalla nuova legge (n. 431/1998), i
vecchi
contratti a equo canone, se stipulati prima dell'entrata in vigore
della legge
di riforma, continuano a valere fino alla loro scadenza naturale
(quattro
anni).
Sono più di tre milioni le famiglie in affitto in Italia. Per
loro non cambierà
nulla almeno fino alla conclusione dell'attuale contratto. Infatti, i
rapporti
di locazione stipulati prima dell'entrata in vigore della legge
continuano ad essere
validi per tutta la durata prevista (Legge n. 431/1998, art. 14, comma
5). Per
questi inquilini varranno, dunque, le vecchie regole, a meno che le
parti non
concordino di passare alla nuova normativa. I vecchi contratti
rinnovati
tacitamente continuano ad essere disciplinati dalle vecchie norme.
Questo
significa che se un proprietario, al termine dei quattro anni di equo
canone,
non spedisce la
disdetta nei modi e tempi previsti, il contratto viene incanalato, allo
stesso
canone, nella Legge n. 431/1998, la quale prevede un affitto di altri
quattro
anni più quattro.
La maggior parte della legge sull'equo canone (n. 392/1978) è
stata abrogata e
dunque vale solo per i vecchi contratti. Ma la disciplina dell'equo
canone è
importante anche per i nuovi contratti in quanto ne regola alcuni
aspetti.
Alcuni articoli infatti sono rimasti in vigore e disciplinano in parte
i nuovi
contratti (artt. 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 55, 56, 57, 74, 80 e 81).
In
pratica, si tratta di norme che regolano il subaffitto, le spese di
registrazione, gli oneri accessori, l'intervento dell'inquilino
all'assemblea
condominiale, le modalità per il rilascio dell'alloggio,
l'esenzione dal bollo
per gli atti inferiori alle 600.000 lire, la pubblicazione sulla
Gazzetta
Ufficiale degli indici ISTAT utili per l'aggiornamento del canone.
Per le locazioni commerciali restano poi in vita gli articoli dal 27 al
42.
In concreto la legge dell'equo canone disciplina anche i nuovi
contratti per
quanto riguarda i seguenti aspetti:
- il contratto deve sempre stabilire le norme di recesso (art. 4);
- dopo 20 giorni dalla scadenza prevista per il pagamento del canone e
delle
spese, il contratto può essere sciolto se l'inquilino non ha
pagato (art.
5);
- in caso di morte dell'inquilino intestatario del contratto, gli
succedono il
coniuge, gli eredi, i parenti e affini con lui abitualmente conviventi;
il
coniuge separato succede nel contratto se così è stato
deciso dal giudice o
consensualmente (art. 6);
- in caso di vendita della casa, il contratto non può
sciogliersi e il nuovo
proprietario succede al vecchio nel contratto (art. 7);
- il deposito cauzionale da versare al proprietario non può
essere superiore a
tre mensilità (art. 11);
- la morosità dell'inquilino nel pagamento dei canoni o degli
oneri accessori
può essere sanata in via giudiziaria non più di tre volte
nel corso del
quadriennio del contratto, o al massimo quattro, se si riscontrano
precarie
condizioni economiche o sociali (art. 55);
- se l'inquilino adibisce l'immobile a un uso diverso da quello
pattuito, il
proprietario può chiedere la
risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto
conoscenza; decorso tale termine senza che la risoluzione del contratto
sia
stata chiesta si applica il regime giuridico corrispondente all'uso
effettivo
dell'immobile (art. 80).
La vecchia normativa con i contratti a patto in deroga ed equo canone
rimane in
vita solo nei limiti indicati dalla Legge n. 431/1998, art. 14, ovvero,
per i
giudizi pendenti e per i contratti in corso. Al di là di
ciò, la vecchia
disciplina è superata e quindi è sicuramente nullo un
contratto di locazione
per uso abitativo stipulato oggi in base alle norme dell'equo canone o
dei
patti in deroga.
Chi si trovasse in situazioni dubbie riguardo a qualsiasi aspetto
relativo ai
contratti d'affitto può rivolgersi al proprio legale di fiducia,
ai sindacati
degli inquilini o alle associazioni della proprietà. Allo stesso
tempo bisogna
ricordare che
L'aggiornamento
del
Canone
Ogni anno
l'importo del
canone di locazione deve essere adeguato al costo della vita. Si tratta
di un
calcolo che utilizza un coefficiente di moltiplicazione, calcolato
partendo
dalla variazione assoluta dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo
rispetto alla
data di inizio del rapporto d'affitto, ridotto al 75%. Esiste una data
fissa in
cui va fatto l'aggiornamento; questa dipende dall'anno di costruzione
dell'immobile.
Per le case costruite prima del 31 dicembre
Per le case ultimate dal
Ai fini dell'aggiornamento ISTAT del canone di locazione per gli
immobili
ultimati negli anni 1976, 1977 e 1978 la situazione è
controversa. La legge
aveva agganciato anche questi anni alle fluttuazioni del costo della
vita, ma
successivamente, sorti contenziosi, la magistratura spesso si è
espressa
collocando il 1976 e il 1977 nella prima fascia di immobili e il 1978
nella
seconda fascia.
I Patti in
deroga
Anche per i
contratti
stipulati a suo tempo con patto in deroga (ovvero con le norme
contenute nella
ormai superata Legge n. 359/1992) continuano a valere le vecchie regole
fino
alla scadenza del contratto. Il canone d'affitto rimane quello
stabilito
all'inizio nella libera trattativa tra le parti. L'eventuale disdetta
deve
essere comunicata (con raccomandata a/r) almeno un anno prima della
prima
scadenza (se ricorrono i motivi della Legge n. 392/1978, art. 29) e
almeno sei
mesi prima del termine dell'ottavo anno di contratto. Sono da ritenersi
nulli i
contratti ai quali si aggiungono pagamenti in nero.
In mancanza di disdetta, il contratto, con lo stesso canone, viene
ricondotto
alla durata di quattro anni più quattro previsti dalla nuova
legge (n.
431/1998, art. 2, comma 1).
Il canone corrisposto per un contratto stipulato con patto in deroga
deve
essere aggiornato ogni anno rispetto alla variazione del costo della
vita
accertata dall'ISTAT.
L'aggiornamento decorre dal mese successivo a quello in cui viene fatta
richiesta, con lettera raccomandata a/r, dal proprietario e deve essere
riferito alla data di stipulazione del nuovo contratto, a partire dalla
quale
si calcoleranno poi le variazioni annuali.
Come accade per l'equo canone, l'aggiornamento corrisponde al 75%
dell'indice
ISTAT a meno che non si tratti di nuove costruzioni. In questo caso
l'adeguamento può raggiungere il 100% dell'indice ISTAT.
Rientrano nella
categoria delle nuove costruzioni gli immobili per i quali il
proprietario
riesce a dimostrare che all'11 luglio 1992 (data di entrata in vigore
dei patti
in deroga) non era stata ancora presentata la dichiarazione di
ultimazione dei lavori.
Allo stesso tempo occorre dimostrare che alla data di stipulazione del
contratto è stata richiesta la certificazione di
abitabilità e presentata la
domanda per l'accatastamento.
Per calcolare l'aggiornamento del canone dei patti in deroga è
sufficiente
aggiungere al canone dell'anno precedente il 75% o il 100% dell'indice
ISTAT.
Per esempio, nel caso di una vecchia costruzione con un contratto
stipulato nel
mese di marzo 1997 pari a 1.000.000 di lire, a partire dall'aprile
10 -
RISOLUZIONE DEL
CONTRATTO PER MOROSITÀ
A molti
proprietari che
cedono in locazione il loro bene capita prima o poi di fare i conti con
inquilini morosi che per svariati motivi non vogliono o non possono
più pagare
l'affitto e le spese accessorie.
Il proprietario è generalmente costretto a farsi carico
dell'inquilino moroso.
Mentre infatti l'inquilino è tutelato e garantito dalla legge,
lo stesso non si
può dire per il proprietario che per legge, a garanzia del
contratto, non può
chiedere all'inquilino più di tre mensilità di cauzione.
La cauzione non è sufficiente a coprire le spese che un
proprietario è
costretto a sostenere per fare fronte alla morosità di un
inquilino. Infatti,
oltre a non percepire più la pigione, il proprietario deve
avviare lo sfratto
legale, procedura burocratica molto onerosa economicamente.
Il proprietario deve anticipare le spese condominiali e di
riscaldamento
all'amministratore, con scarse probabilità di rientrare delle
spese anticipate.
Sull' immobile pesa inoltre l'onere delle tasse che il proprietario
deve pagare
comunque, indipendentemente dal fatto che l'immobile abbia prodotto o
meno del
reddito.
La proprietà deve tenere in piedi l'immobile con i relativi
costi per lavori
straordinari, manutenzioni alle strutture al fine di mantenere in
efficienza e
a norma di legge gli impianti (elettrico, idraulico, ascensore,
autoclave,
caldaia ecc.).
La terza sentenza della Corte costituzionale del
Al contrario, l'inquilino moroso di un immobile commerciale non ha
diritto a
sanare in tribunale i suoi debiti, a differenza di chi ha preso in
locazione
un'abitazione. Ciò è stato stabilito definitivamente
dalle sezioni unite della
Cassazione, con la sentenza n. 272 del 28 aprile 1999. Non si tratta di
una
decisione da poco, se si pensa che in 21 anni, e cioè dal varo
della legge
sull'equo canone che regola ancora oggi gli affitti non abitativi, si
sono
succedute numerosissime sentenze della Suprema corte su questo
argomento, quasi
tutte in contraddizione con quest'ultima decisione. La materia del
contendere è
l'articolo 55 della Legge sull'equo canone, dove si stabilisce che
l'inquilino,
alla prima udienza, può sanare "per non più di 3 volte
nel corso di un
quadriennio", l'importo dovuto per tutti i canoni scaduti e per le
spese
condominiali, maggiorato degli interessi legali e delle spese
processuali. In
questa sentenza
Le modalità dello sfratto per morosità
Il primo atto da effettuare per ottenere lo sfratto di un inquilino
moroso è
costituito dalla compilazione di una lettera raccomandata con ricevuta
di
ritorno nella quale occorre sollecitare il pagamento degli affitti
arretrati
entro una data stabilita (15 giorni).
È necessario quindi rivolgersi ad un avvocato per l'avvio della
pratica legale
di sfratto, se la morosità persiste. La suddetta pratica
consiste nelle
seguenti azioni:
1) Intimazione di sfratto per morosità e contestuale citazione
per la convalida
presso il tribunale competente. Si tratta di un atto in cui si cita
l'inquilino
moroso a comparire davanti al Giudice e in cui viene fissata la data
dell'udienza (da uno a due o tre mesi a seconda dei tribunali).
2) Il termine di grazia. Se l'inquilino si presenta all'udienza
può chiedere il
"termine di grazia", cioè un periodo di tempo entro cui poter
pagare
e saldare la morosità; il Giudice può concedergli fino a
tre o quattro mesi per
pagare.
3) Convalida. Se l'inquilino non si presenta o non si oppone, allora lo
sfratto
è convalidato e il Giudice fissa la data di esecuzione per il
rilascio
dell'immobile circa un mese dopo la data dell'udienza e manda l'atto
alla
Cancelleria per l'apposizione della formula esecutiva in cui si comanda
a tutti
gli Ufficiali Giudiziari di mettere in esecuzione l'atto di sfratto se
richiesto, dando l'assistenza della forza pubblica.
4) L'atto di precetto. Se l'inquilino moroso non lascia l'appartamento
entro la
data fissata dal Giudice, occorre che il proprietario a mezzo del suo
avvocato
gli notifichi l'atto di precetto in cui gli si intima di rilasciare
l'unità
immobiliare entro circa 10 giorni dalla notifica e che in difetto si
procederà
con l'esecuzione forzata (la notifica di solito avviene a mezzo posta o
a mezzo
assistenti del tribunale, per cui se l'inquilino non si trova a casa,
la
notifica ritorna all'ufficio postale o nella Casa Comunale e, se non
viene
ritirata, rimane lì fino al termine della compiuta giacenza -
uno o due mesi
circa - e i tempi si prolungano ulteriormente).
5) Monitoria di sgombero. Se l'inquilino continua ad occupare
l'immobile,
occorre procedere con la "monitoria di sgombero": si tratta di un
altro atto da notificare al conduttore nel quale l'Ufficiale
Giudiziario del
Tribunale comunica al moroso che in una determinata data, ad una
determinata
ora si recherà presso l'immobile che occupa per sfrattarlo nelle
forme e nei
modi di legge ed eventualmente usufruendo dell'assistenza della forza
pubblica.
In questa fase il proprietario deve dimostrare di essere in regola con
le tasse
(ICI, IRPEF, imposta di registro) fornendo all'avvocato copia delle
ricevute di
pagamento dei tributi che verranno allegate agli atti.
6) Ufficiale giudiziario. L'ultimo atto della procedura di sfratto per
morosità
è rappresentato dall'intervento dell'Ufficiale Giudiziario che
eseguirà
materialmente lo sfratto avvalendosi se necessario della forza pubblica
e farà
cambiare la serratura della porta dell'appartamento al fabbro, il quale
deve
essere stato preventivamente chiamato dal proprietario (che
dovrà farsi carico
della spesa relativa alla prestazione professionale dell'artigiano).
7) Verbale di rilascio. A conclusione dell'intero iter viene redatto il
"verbale di rilascio immobile", atto in cui l'Ufficiale Giudiziario
verbalizza l'avvenuto sfratto.
8) Inventario. Se nell'immobile sono rimasti i mobili dell'inquilino
moroso,
l'Ufficiale Giudiziario stilerà un dettagliato inventario degli
stessi e
nominerà il proprietario custode e responsabile degli averi che
l'inquilino non
è riuscito a portare via. Se l'inquilino non recupera i suoi
averi, deve
provvedere il proprietario a effettuare lo sgombero, a proprie spese,
salvo poi
rifarsi sull'inquilino.
11 - OBBLIGHI
DEL
LOCATORE E DEL CONDUTTORE
Le principali
obbligazioni per le parti sono:
1) per il locatore:
- la consegna al conduttore della cosa locata in buono stato di
manutenzione,
esente da vizi o difetti (salvo quelli già conosciuti dal
conduttore o di
facile riconoscibilità) e munita degli accessori che normalmente
l’accompagnano;
- il mantenimento della cosa locata in modo che possa servire
all’uso
convenuto, eseguendo cioè le riparazioni necessarie, escluse
quelle di piccola
manutenzione o conseguenti a guasti prodotti dal conduttore, dai suoi
familiari
o dipendenti (qualora si tratti di riparazioni urgenti e indifferibili
il
conduttore può eseguirle direttamente, a spese del locatore,
purché dia a
questi immediato avviso);
- far godere pacificamente la cosa data in locazione al conduttore,
evitandogli
molestie, sia proprie sia di terzi, e astenendosi dal compiere
innovazioni che
possano diminuire da parte del conduttore il godimento.
2) per il conduttore:
- la presa in consegna del bene locato e il custodirlo con
diligenza;
- il pagamento regolare alle date pattuite del corrispettivo della
locazione;
- il godimento della cosa, senza oltrepassare i limiti contrattuali
(per
esempio, adibendola ad un uso diverso da quello pattuito o sublocandola
contro
la volontà del locatore);
- la restituzione, infine, al locatore della cosa al termine del
contratto,
nello stesso stato, salvo il normale deperimento d’uso, in cui la
ricevette.
I diritti
dell'inquilino
Gli inquilini
sono
assistiti da alcune associazioni di categoria (le principali sono:
SUNIA, ANAC,
ANIACO, ASIA, ASSOCASA, FEDERCASA, SAI-CISAL). Queste, molto attive,
sono sorte
al fine di tutelare da possibili rischi chi decide di prendere in
affitto un
appartamento, fornendo informazioni dettagliate circa la normativa
vigente e
prestando tutta una serie di servizi di natura pratica. Una di queste
associazioni, il SUNIA, prendendo direttamente in considerazione i
diritti dei
conduttori, ha stilato un utile elenco di consigli per gli inquilini
alle prese
con la nuova legge sulle locazioni (Legge n. 431/1998) e un compendio
delle più
frequenti situazioni nelle quali si può trovare un inquilino
alle prese con
contratti proposti al fine di eludere la legge. Forniamo anche la
lista, sempre
preparata dal SUNIA, dei documenti necessari per la presentazione di
un'istanza
di proroga della locazione oltre al facsimile di una lettera
predisposta
dall'associazione per la rinegoziazione del contratto d'affitto.
Riportiamo
infine un elenco di accorgimenti di natura pratica utili al conduttore
per
garantirsi nell'ambito della locazione.
Con la nuova legge sulle locazioni (Legge n. 431/1998) cambiano
profondamente
le norme che regolano il contratto di affitto per proprietari e
inquilini.
I nuovi diritti del conduttore sono i seguenti:
1) l'inquilino può e deve pretendere il contratto scritto, reso
obbligatorio
dalla legge;
2) il locatario deve registrare sempre il contratto; in primo luogo
perché solo
con la registrazione si possono ottenere le agevolazioni fiscali, e
inoltre
perché il canone di affitto denunciato nella registrazione
è quello legale e
non possono essere chiesti aumenti, maggiorazioni o integrazioni di
vario tipo
e richieste sottobanco;
3) lo sfratto non può essere eseguito se il contratto non
è stato registrato o
se il proprietario non è in regola con il fisco;
4) l'inquilino sotto sfratto per finita locazione può
rinegoziare il contratto
di affitto;
5) in caso di vendita dell'appartamento l'inquilino ha il diritto di
prelazione;
6) nel periodo di proroga dello sfratto non è dovuto alcun
risarcimento per
danno; l'inquilino deve pagare esclusivamente il canone di affitto
maggiorato
del 20%;
7) il conduttore può impugnare il contratto di affitto qualora
il canone
corrisposto è superiore a quello denunciato presso l'ufficio
unico delle
entrate al momento della registrazione;
8) per gravi motivi il locatario può interrompere il contratto
in qualsiasi
momento ;
9) l'inquilino meno abbiente avrà diritto ad un contributo
diretto attraverso
il fondo sociale, oppure a portare in detrazione dalla dichiarazione
dei
redditi una parte dell'affitto.
Il conduttore può inoltre partecipare alle assemblee
condominiali. L'inquilino
ha diritto di voto, al posto del proprietario dell'appartamento, nelle
delibere
dell'assemblea condominiale relative alle spese e alle modalità
di gestione dei
servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria.
Può inoltre intervenire, ma senza diritto di voto, sulle
delibere relative alla
modificazione degli altri servizi comuni del condominio.
Il Fisco
I proprietari
e gli
inquilini degli appartamenti in affitto sono chiamati entrambi a pagare
le tasse;
le imposte che gravano sulle abitazioni vengono infatti attribuite in
parte al
possessore dell'immobile e in parte al
conduttore. Con l'introduzione dei nuovi contratti di affitto regolato
si sono
aggiunte anche alcune agevolazioni di natura fiscale: detrazioni IRPEF,
riduzione dell'imposta di registro e possibilità di riduzioni
sull'ICI. Uno
degli aspetti della tassazione sugli immobili è quello relativo
alle tasse sui
contratti di locazione, cioè all'imposta di registro (oppure
all'IVA) e alla tassa
di bollo.
La legge dispone tuttavia che i contratti già avviati secondo le
precedenti
normative (equo canone, patti in deroga) continuino ad essere regolati,
anche
da un punto di vista fiscale, dalle rispettive norme fino alla scadenza
naturale. Sono a tutt'oggi in vigore le norme relative alla tassazione
ordinaria valida per i vecchi contratti e per i nuovi contratti liberi
oltre a
quelle riguardanti la tassazione agevolata per i contratti
regolati.
12 - IL NUOVO
PROCESSO
LOCATIZIO
Uno dei motivi
che hanno
portato alla crisi dell’istituto della locazione immobiliare
è riconducibile
alla convinzione dei locatori, oramai radicata dopo decenni di
esperienza
diretta, di non riuscire a rientrare in possesso dell’immobile
alla naturale
scadenza del contratto. Questa difficoltà è riconducibile
ad un doppio ordine
di cause: da una parte l’inquilino incontra sempre maggiori
difficoltà nel
trovare un nuovo
appartamento dove trasferirsi e, magari anche per risparmiare, visto
che
andrebbe il più delle volte a pagare un canone più alto,
rinvia il momento del
rilascio dell’immobile. Dall’altra parte lo Stato, pur con
l’approvazione di
nuove norme in sede parlamentare, non riesce a restituire ai
proprietari la
certezza di ritornare in possesso del bene alla scadenza del contratto
di
locazione; questo è dovuto agli inevitabili conflitti tra le
forze politiche
che conducono inevitabilmente all’approvazione di leggi che, nel
cercare di
mediare gli opposti interessi, finiscono per non accontentare nessuno;
e se pur
vi fosse una norma ben congegnata, da sempre esiste la
possibilità di derogarvi
o di prorogarne l’efficacia (vedi le innumerevoli proroghe per
l’esecuzione dei
provvedimenti di sfratto). Dopo aver delineato il quadro della
situazione è ora
opportuno passare all’esame delle norme del Codice di Procedura
Civile sul
procedimento per la convalida dello sfratto, passaggio necessario per
il
proprietario al fine di rientrare in possesso del bene locato. Tali
norme sono
quelle contenute negli articoli da
La nuova legge sulle locazioni ad uso abitativo (Legge 9 dicembre 1998,
n. 431)
ha dettato alcune norme sull’esecuzione dei provvedimenti di
rilascio degli
immobili, stabilendo che condizione necessaria per la messa in
esecuzione del
provvedimento di rilascio dell'immobile locato è la
dimostrazione, da parte del
locatore, che il contratto di locazione sia stato registrato, che
l'immobile
sia stato denunciato ai fini dell'applicazione dell'ICI e che il
reddito derivante
dall'immobile medesimo sia stato dichiarato ai fini dell'applicazione
delle
imposte sui redditi. Nel precetto in cui il locatore intima al
conduttore di
adempiere l’obbligo di rilasciare l’immobile devono,
perciò, essere indicati
gli estremi di registrazione del contratto di locazione, gli estremi
dell'ultima denuncia dell'unità immobiliare alla quale il
contratto si
riferisce ai fini dell'applicazione dell'ICI, gli estremi dell'ultima
dichiarazione dei redditi nella quale il reddito derivante dal
contratto è
stato dichiarato nonché gli estremi delle ricevute di versamento
dell'ICI
relative all'anno precedente a quello di competenza.
L’articolo 6 della stessa Legge n. 431 del 1998 contiene tutta
una serie di
casi in cui la messa in
esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili adibiti ad uso
abitativo
per finita locazione può essere sospesa e disciplina lo
svolgimento delle
trattative tra le parti per la stipula di un nuovo contratto di
locazione
regolato dalle nuove norme.
Svolgimento
del processo
Il processo in
materia
di locazioni segue le norme dettate dal Codice di Procedura Civile
(articoli da
Quando il locatore - alla scadenza naturale del contratto o prima, nel
caso di
morosità del
conduttore nel pagamento dei canoni - vuole rientrare in possesso
dell’immobile
e l’inquilino non intende invece rilasciare il bene, deve
rivolgersi al giudice
per dare inizio al procedimento di convalida dello sfratto.
Il
procedimento per
convalida di Sfratto
Il
procedimento ha
generalmente inizio con l’intimazione di licenza e di sfratto per
finita
locazione. Il locatore o il concedente può infatti intimare al
conduttore,
all'affittuario coltivatore diretto, al mezzadro o al colono, licenza
per
finita locazione, prima della scadenza del contratto, con la
contestuale
citazione davanti al giudice per la convalida, rispettando i termini
prescritti
dal contratto, dalla legge o dagli usi locali. Nel caso in cui il
contratto sia
già scaduto gli stessi soggetti possono intimare lo sfratto, con
la contestuale
citazione per la convalida, se, in virtù del medesimo contratto
o anche per
effetto di atti o intimazioni precedenti, sia esclusa la tacita
riconduzione.
La notificazione dell’atto
Per ciò che concerne la forma dell’intimazione, essa deve
essere notificata a
norma degli articoli 137 e seguenti del Codice di Procedura Civile, a
mezzo di
ufficiale giudiziario con consegna dell’atto nelle mani del
destinatario, fatto
salvo il caso della notificazione al domicilio eletto per la quale
è
sufficiente la consegna della copia dell’atto nelle mani della
persona presso
la quale si è eletto domicilio.
Il locatore deve dichiarare nell'atto la propria residenza o eleggere
domicilio
nel comune dove ha sede il giudice adito. In caso contrario
l'opposizione alla
convalida e qualsiasi altro atto del giudizio possono essergli
notificati
presso la cancelleria.
La citazione per la convalida deve contenere l'invito rivolto al
destinatario
dell’atto a comparire nell'udienza indicata e l'avvertimento che
se non
comparisce o, comparendo, non si oppone, il giudice convalida la
licenza o lo
sfratto.
Tra il giorno della notificazione dell'intimazione e quello
dell'udienza
debbono intercorrere termini liberi non minori di venti giorni. In
alcuni casi
particolari (cause che richiedono pronta spedizione) il giudice
può, su istanza
dell'intimante, con decreto motivato, scritto in calce all'originale e
alle
copie dell'intimazione, abbreviare fino alla metà i termini di
comparizione.
La costituzione delle parti
Le parti si possono costituire o depositando in cancelleria
l'intimazione con
la relazione di notificazione o la comparsa di risposta, oppure
presentando
tali atti al giudice in udienza.
Una particolare procedura si segue se l'intimazione non è stata
notificata in
mani proprie; in tal caso l'ufficiale giudiziario deve spedire avviso
all'intimato dell'effettuata notificazione a mezzo di lettera
raccomandata e
allegare all'originale dell'atto la ricevuta di spedizione.
Fino all’entrata in vigore della recentissima riforma del
processo civile,
concretizzatasi con la costituzione del giudice unico di primo grado,
la
competenza sui procedimenti di convalida dello sfratto era del pretore.
Ora,
quando si intima la licenza o lo sfratto, la citazione a comparire deve
farsi
inderogabilmente davanti al tribunale del luogo in cui si trova la cosa
locata.
L’ordinanza di convalida e l’ordinanza di
rilascio
In caso di mancata comparizione del locatore all'udienza fissata
nell'atto di
citazione, cessano gli effetti dell'intimazione.
Nel caso invece di mancata comparizione o mancata opposizione
dell'intimato
all'udienza fissata nell'atto di citazione, il giudice convalida la
licenza o
lo sfratto e dispone, con ordinanza in calce alla citazione,
l'apposizione su
di essa della formula esecutiva.
Se invece risulta o appare probabile che l'intimato non abbia avuto
conoscenza
della citazione o non sia potuto comparire per caso fortuito o forza
maggiore,
il giudice deve ordinare che sia rinnovata la citazione.
Se lo sfratto è stato intimato per mancato pagamento del canone,
la convalida è
subordinata all'attestazione in giudizio del locatore o del suo
procuratore che
la morosità persiste e in tale caso il giudice può
ordinare al locatore di
prestare una cauzione.
Diverso è invece il caso in cui l'intimato comparisce in
giudizio e oppone
eccezioni non fondate però su prova scritta. In questo caso il
giudice, su
istanza del locatore, se non sussistono gravi motivi in contrario,
pronuncia
ordinanza non impugnabile di rilascio, con riserva delle eccezioni del
convenuto. Tale ordinanza è immediatamente esecutiva anche se
può essere
subordinata alla prestazione di una cauzione per i danni e le
spese.
L’opposizione nei termini e l’opposizione
tardiva
Se l'intimazione di licenza o di sfratto è stata convalidata in
assenza
dell'intimato, questi può farvi opposizione fornendo però
la prova di non avere
avuto tempestiva conoscenza dell’intimazione stessa, o per
irregolarità della
notificazione o per caso fortuito o forza maggiore. Nel caso in cui
l’intimato
abbia avuto tempestiva conoscenza della citazione ma non sia potuto
comparire
per forza maggiore o caso fortuito,
Se sono decorsi dieci giorni dall'esecuzione, l'opposizione non
è più
ammessa.
L'opposizione si propone davanti al tribunale nelle stesse forme
prescritte per
l'opposizione al decreto di ingiunzione ma non ha l’effetto di
sospendere il
processo esecutivo, a meno che il giudice, ritenendo che sussistono
gravi
motivi, con ordinanza non impugnabile, disponga ugualmente la
sospensione.
Lo sfratto per morosità
Il locatore, in caso di mancato pagamento del canone di affitto alle
scadenze
pattuite, può intimare al conduttore lo sfratto con le stesse
modalità previste
per la finita locazione e può chiedere nello stesso atto
l'ingiunzione di
pagamento per i canoni scaduti.
Se il locatore non chiede anche il pagamento dei canoni, la pronuncia
sullo
sfratto risolve la locazione, ma lascia impregiudicata ogni questione
sui
canoni stessi. Tale questione andrà quindi riesaminata in un
nuovo giudizio.
Se il canone consiste in derrate, il locatore deve dichiarare la somma
che è
disposto ad accettare in sostituzione.
Nel caso di intimazione di sfratto per morosità, il giudice
adito pronuncia
separato decreto di ingiunzione per l'ammontare dei canoni scaduti e di
quelli
che scadranno fino all'esecuzione dello sfratto, e per le spese
relative
all'intimazione.
Il decreto è redatto in calce ad una copia dell'atto di
intimazione presentata
dall'istante, da conservarsi in cancelleria.
Tale decreto è immediatamente esecutivo, anche se è
suscettibile di
opposizione. L'opposizione non toglie però efficacia
all'avvenuta risoluzione
del contratto.
Diverso è il caso in cui vi è contestazione
sull'ammontare dei canoni.
Infatti se viene intimato lo sfratto per mancato pagamento del canone,
e il
convenuto nega la propria morosità contestando l'ammontare della
somma pretesa,
il giudice può disporre con ordinanza il pagamento della somma
non controversa
e può concedere al convenuto un termine non superiore a venti
giorni.
13 -
TASSAZIONE
ORDINARIA
Per i
contratti
pluriennali di locazione e sublocazione, inquilino e proprietario
devono
versare l'imposta di registro. Tale imposta ammonta al 2%
dell'importo
dell'affitto annuo (Dpr n. 131/1986, art. 17) e, divisa in parti uguali
tra i
due i contraenti, può essere corrisposta annualmente oppure
liquidata in
un'unica soluzione alla registrazione del contratto. Quest'ultima
soluzione
prevede uno sconto pari alla metà del tasso di interesse legale
moltiplicato il
numero delle annualità. In caso di scioglimento anticipato del
contratto, si
avrà diritto a un rimborso. Le quote devono essere versate entro
e non oltre
venti giorni dall'inizio della locazione (data coincidente con la
conclusione
del contratto). La cifra sulla quale va effettuato il calcolo della
tassa deve
tenere in considerazione gli aggiustamenti ISTAT e gli adeguamenti del
canone
(per esempio, gli aumenti per interventi di manutenzione effettuati dal
proprietario), a meno che non si opti per un'unica soluzione (in questo
caso
non andranno considerati).
L'imposta di registrazione va arrotondata alle pari
Indipendentemente dal valore del canone complessivo, esiste un importo
minimo
da versare fissato a 50 euro.
Gli oneri a carico del proprietario
La tassazione dei canoni d'affitto avviene sulla base degli importi
fissati
contrattualmente e delle rivalutazioni applicate ai sensi di legge.
Pertanto,
il mancato pagamento degli importi dovuti da parte dell'inquilino non
ha
rilevanza sulla dichiarazione dei redditi del proprietario, che deve
dichiarare
il reddito sul canone annuale fissato, a meno che non abbia stipulato
un
contratto regolato.
Il vero e proprio imponibile IRPEF è costituito da un importo
più basso della
somma degli affitti, detto "reddito effettivo" e pari all'85% delle
competenze annuali. Il reddito si dichiara effettivo tutte le volte che
è più
alto della rendita catastale dell'immobile (e cioè quasi
sempre). La deduzione
del 15% per determinare il reddito effettivo è concessa in
maniera forfettaria
e comprende tutte le spese di competenza del proprietario.
Il contribuente che possieda solo redditi immobiliari inferiori a 186
Euro
annue è esonerato dalla presentazione della dichiarazione dei
redditi e dal
pagamento delle relative imposte.
La tassazione dei redditi derivanti da immobili affittati è
soggetta alle norme
dell'imposizione progressiva: i redditi immobiliari si sommano agli
altri redditi
posseduti dal soggetto e concorrono ai diversi scaglioni d'imposta.
Dunque, il proprietario di una casa in affitto (posto che il reddito
derivante
dall'immobile non sia per lui prevalente rispetto agli altri) paga le
imposte
sul reddito immobiliare secondo l'aliquota marginale, praticamente la
massima
che gli spetta.
A queste tasse si aggiunge la quota annuale dell'imposta di registro
(50%
dell'importo a carico del proprietario) e l'ICI, che si calcola
applicando
all'ammontare delle rendite risultanti in Catasto alcuni moltiplicatori
predeterminati, le aliquote, che i Comuni possono ridurre, fino ad
azzerare, su
tutte le abitazioni principali. Senza interventi del Comune, rimane lo
sconto
di 100 euro previsto dallo Stato.
Una certa cautela va osservata per gli immobili storici. La norma che
riduce
l'imponibile alla sola rendita catastale secondo la tariffa più
bassa in vigore
nella zona non viene normalmente riconosciuta dal fisco in caso di
affitto.
Molti proprietari hanno perciò preferito dichiarare comunque il
reddito
effettivo e chiedere le relative imposte a rimborso basandosi sulla
norma più
favorevole.
Dal 1999 (e quindi per la prima volta nella dichiarazione presentata
nel maggio
del 2000) l'imponibile fiscale dei proprietari viene calcolato su
quanto
effettivamente percepito e non più sugli affitti di competenza
come da
contratto. In questo modo non si pagano le tasse su canoni ipotetici ma
su
quelli reali. Nel Dpr n. 917/1986, l'articolo 23 è stato
modificato: "I
redditi derivanti da locazione di immobili ad uso abitativo, se non
percepiti,
non concorrono alla formazione del reddito dal momento della
conclusione del
procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per
morosità del
conduttore".
Inoltre, per le imposte versate sui canoni venuti a scadere e non
percepiti
come da accertamento nell'ambito dello stesso procedimento, è
riconosciuto un
credito d'imposta di pari ammontare.
Gli oneri a carico dell'inquilino
L'inquilino, a differenza del proprietario, non paga IRPEF sulla casa e
ICI, ma
se svolge un'attività imprenditoriale in un locale in affitto
è tenuto a
versare l'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).
Tale imposta
grava sulle persone fisiche, le società, gli enti pubblici e
privati, le
associazioni non riconosciute e sui consorzi.
A seconda del contratto, le locazioni possono essere passive di IVA o
di
imposta di registro. Non possono, per esempio, essere gravate da IVA
quelle
locazioni non finanziarie e gli affitti di aree la cui destinazione sia
diversa
dal parcheggio di veicoli e quei fabbricati con annesse pertinenze,
destinati
al servizio degli immobili locati e quelli destinati a uso di civile
abitazione.
Per le locazioni passive di IVA, la tassa varia a seconda del tipo di
fabbricato. Per gli immobili dati in affitto da soggetti passivi di
imposta,
l'IVA è del 20% se si tratta di edifici strumentali, mentre
è del 10% se il
loro uso è per abitazione civile, locazione da parte di imprese
costruttrici o
acquisto per scopo di rivendita. Una nota della direzione generale del
Catasto
stabilisce quando i fabbricati sono definiti strumentali.
Tassazione
agevolata
La riforma
della
locazione (Legge n. 431/1998) concede alcuni sconti fiscali a chi opta
per il
contratto regolato e risiede in un Comune ad alta tensione abitativa.
Le
agevolazioni consistono in una detrazione IRPEF e in una riduzione
dell'imposta
di registro e saranno ottenute dietro presentazione degli estremi del
contratto, della denuncia fiscale e del pagamento dell'ICI (vedi anche
circolare n. 150/E del 1999).
È prevista inoltre per tutti i Comuni la possibilità di
stabilire aliquote ICI
più basse per gli immobili affittati con contratto regolato.
Le agevolazioni non riguardano la sola casa d'abitazione tradizionale:
anche le
case per gli studenti universitari possono rientrare nei contratti
controllati,
dunque usufruire delle agevolazioni fiscali. Restano invece esclusi gli
alloggi
ad uso esclusivamente turistico e quelli di edilizia residenziale
pubblica (lo
Stato non è soggetto IRPEF). Gli immobili storici e quelli di
lusso o in ville
accedono, invece, per la prima volta ad agevolazioni se saranno
affittati con i
nuovi contratti regolati.
Sono soggetti ad agevolazione fiscale per l'IRPEF i contratti che
rientrano nel
secondo canale di locazione stipulati nei Comuni ad alta tensione
abitativa.
Nelle altre località si possono comunque sfruttare le
agevolazioni ICI se i
Comuni deliberano in tal senso. Le maggiorazioni ICI per le case sfitte
sono,
invece, possibili solo nei Comuni ad alta tensione abitativa. Ai
soggetti
titolari di contratti di locazione di unità immobiliari adibite
ad abitazione
principale ai sensi dell'art. 13-ter del Tuir spetta una detrazione di
330 euro
circa se il reddito complessivo non supera i 15.500 euro l’anno e
di euro 165
se il reddito complessivo supera i 15.500 euro l’anno, ma non 31.000.
Le agevolazioni ai fini IRPEF
I proprietari che aderiscono al contratto regolato hanno
diritto ad
un'ulteriore detrazione IRPEF del 30% e non devono più pagare le
tasse sui
canoni richiesti ma non percepiti, come succedeva in precedenza. Con un
provvedimento del giudice, che, convalidando lo sfratto, accerti la
morosità, è
possibile anche ottenere rimborsi per le tasse sugli affitti non
riscossi.
In pratica, l'immobile affittato viene tassato sulla base del reddito
effettivo
(quello incassato) ricavato dall'affitto, ma a condizione che sia
maggiore
della rendita catastale, che dunque costituisce il limite minimo
tassabile. Il
modulo per la dichiarazione per i redditi riporterà un riquadro
per l'indicazione
degli estremi di registrazione del contratto e della dichiarazione
iniziale
ICI. Questi dati apriranno la strada a una riduzione dell'imponibile
del 30%
per i canoni di locazione di immobili abitativi situati nelle
città ad alta
tensione abitativa e affittati secondo i contratti controllati, sia
nuovi sia
rinnovati con la legge n. 431/1998.
Per esempio, un affitto di 4132,00 euro l'anno oggi è tassato
(secondo la
riduzione concessa dal Dpr n. 917/1986, art. 34, pari al 15% per tutti)
su Euro
3.512 (ovvero 4132 euro di lordo contrattuale meno il 15%: 620 euro).
Con i
contratti regolati verrà tassato su Euro 2.458,33, ovvero dai
3.512 Euro precedenti va detratto un
ulteriore 30% pari
a 1.053,57 euro. La riduzione (15% + 30% sull'85%) sale così al
40,5% del
totale. Quindi, la nuova agevolazione si cumula con la riduzione del
15% già
prevista su spese e oneri della proprietà.
Secondo questo esempio, un contribuente potrà ridurre l'IRPEF
sull'affitto
percepito di un importo compreso tra i 310 euro e 516 euro.
Anche gli inquilini che non oltrepassano un determinato reddito possono
beneficiare di sgravi fiscali sotto forma di detrazione d'imposta.
Questa detrazione viene concessa agli inquilini non proprietari di
altre case
dal 1999 (nelle dichiarazioni presentate nel 2000) ed è pari
alla detrazione
per i proprietari della prima casa.
Gli sconti sull'imposta di registro
L'imponibile, attualmente pari all'affitto intero dell'anno,
si
riduce del
30%. Per esempio, se un affitto di 4.132 euro annui oggi è
assoggettato a
un'imposta di registro di circa 83 euro , con i contratti regolati,
nelle città
ad alta tensione abitativa, l'imponibile si ridurrà al 70% in
base al seguente
calcolo: importo contrattuale (4132 Euro) meno il 30% di detrazione
(1.240
Euro) arriva a dare un imponibile di 2.892 Euro. L'imposta di registro
si
calcola come il 2% di tale cifra, cioè 57,84 Euro annue (vedi
anche circolare
n. 15/E del 1999).
Ricordiamo che qualora l'imposta di registro (ridotta) scendesse al di
sotto
dei 50 Euro sarà comunque necessario versare tale importo,
considerato il
minimo fissato dalla legge.
Le possibilità relative all'ICI
Sul fronte dell'ICI i Comuni, a partire dal '99, possono
ridurre
l'aliquota
(anche al di sotto del 4 per mille) per gli immobili affittati con
contratti
regolati. Allo stesso modo, le amministrazioni locali di zone ad alta
tensione
abitativa hanno la possibilità di aumentare l'ICI fino al 9 per
mille sulle
case per le quali non risultino registrati contratti d'affitto da oltre
due
anni.
1. NOZIONE E
NATURA
GIURIDICA
La nozione di
compravendita è data dall'art. 1470 c.c.:
ala vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento
della proprietà
di una cosa o il trasferimento di altro diritto verso il corrispettivo
di un
prezzo».
La
compravendita è
quindi un contratto traslativo, nel
senso che produce il trasferimento di un diritto, ai sensi del
principio del
consenso traslativo che vige nel nostro ordinamento (art. 1376 c.c.).
È
possibile distinguere
due tipi di vendita:
‑ la vendita
reale, quando il
trasferimento
del diritto, in perfetta aderenza al principio consensualistico, non
necessita
di nessun altro elemento oltre il consenso delle parti; gli obblighi
che
nascono dal contratto a carico del compratore e del venditore si
situano,
infatti, sul piano meramente esecutivo;
‑ la vendita
obbligatoria, quando il
trasferimento del diritto necessita, invece, di ulteriori fatti oltre
al
consenso delle parti.
La
compravendita è un
contratto:
‑ consensuale.
È
infatti sufficiente
l'accordo delle parti (consenso) per il perfezionamento del contratto;
‑ ad effetti
reali. La
compravendita
produce gli effetti di cui all'art. 1376 c.c., ossia il trasferimento
di un
diritto, reale o di credito; anche la vendita obbligatoria ha tale
qualità,
essendo l'effetto reale comunque conseguenza diretta del contratto e
ponendosi
gli ulteriori fatti, richiesti per il trasferimento, all'esterno della
fattispecie contrattuale;
‑ ad
attribuzioni corrispettive. Le
prestazioni alle quali sono tenute le parli sono in rapporto di
interdipendenza, nel senso che ciascuna è causa dell'altra.
È
più corretto parlare
di attribuzioni reciproche e non di prestazioni, non essendoci,
normalmente,
spazio per un'obbligazione in senso tecnico del venditore, dato che il
trasferimento
del diritto è effetto del semplice perfezionarsi del contratto;
‑ commutativo.
È
possibile conoscere
sin dal momento della conclusione del contratto l'entità del
sacrificio che
ciascuna parte dovrà sopportare;
‑ non di
durata. Nei contratti
di durata
la prestazione è durevole nel tempo e presenta
un'utilità, per le parti,
proprio per questo suo durare; nella compravendita, invece, la
prestazione è
istantanea ed anche nel caso di vendita a consegna ripartita il
frazionamento
della prestazione è una semplice modalità di esecuzione
della stessa;
‑ a
partecipazione bilaterale. Nella
vendita, infatti, necessariamente devono esistere una parte venditrice
ed una
parte compratrice. Nel caso in cui vi siano più compratori o
più venditori si
sarà in presenza di una parte complessa (cioè formata da
più di un soggetto).
ELEMENTI
Gli elementi
del
contratto di compravendita sono: l'accordo
delle parti; la causa; l'oggetto; la
forma.
L'accordo
delle parti è disciplinato dalla
normativa prevista in tema di contratto in generale (artt. 1326‑1342
c.c.).
Per la forma
è valido
il principio generale della libertà della forma mentre il
formalismo
costituisce l'eccezione: vale, ad esempio, per la vendita
dei beni immobili e dei mobili registrati che deve
essere fatta, a pena di nullità, per scrittura privata o per
atto pubblico
(art. 1350 c.c.).
L'oggetto deve
essere,
ai sensi dell'ari. 1346 c.c., possibile,
lecito, determinato o determinabile.
È
espressamente
prevista l'applicazione della determinabilità
dell'oggetto ad opera di un terzo (arbitratore), ex ari. 1473 c.c..
Oggetto del
contratto
di compravendita può anche essere un bene
futuro, anzi la vendita di cosa futura è espressamente
prevista e
disciplinata dal codice civile dall'art. 1472.
2. IL PREZZO
La causa della
vendita
è caratterizzata dal prezzo, cioè dalla somma di denaro
pagata dall'acquirente
al venditore come corrispettivo del bene trasferito.
Il prezzo
distingue il
contratto di vendita da quello di permuta, che si caratterizza per lo
scambio
di bene con bene, e da altri contratti atipici che realizzano uno
scambio di
una cosa con un fare.
Il prezzo
è, di norma,
contrattualmente determinato dalle parti, ma, ex art. 1473 c.c., quale
applicazione della più generale figura dell'arbitraggio prevista
dall'art. 1349
c.c., le parti possono affidare ad un terzo la sua determinazione.
Questi dovrà
procedere secondo equo apprezzamento, trovando applicazione, in
mancanza di una
norma contraria, il 1 ° comma dell'art. 1349 c.c.:
occorrerà, dunque, una
apposita convenzione derogatrice per la determinazione secondo mero
arbitrio
del terzo.
In mancanza di
determinazione del prezzo compiuta dalle parti, o di ricorso ad un
terzo
arbitratore, la legge interviene, in omaggio al principio della
conservazione
del contratto, stabilendo una serie di criteri (art. 1474 c.c.):
‑ se il
contratto ha
per oggetto cose che il venditore vende abitualmente, si presume che le
parti
abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore
(criterio del prezzo del venditore);
‑ se si tratta
di cose
aventi un prezzo di borsa o di mercato, il prezzo si desume dai listini
o dalle
mercuriali del
luogo in
cui deve essere eseguita la consegna, o da quelli della piazza
più vicina
(criterio del
prezzo
corrente);
‑ qualora le
parti abbiano
inteso riferirsi al giusto prezzo, si applicano le disposizioni dei
commi
precedenti; e, quando non ricorrano i casi da essi previsti, il prezzo,
in
mancanza di accordo, è determinato da un terzo, nominato a norma
del 2° comma
dell'art. 1473 c.c. (criterio del giusto
prezzo).
3. LE
OBBLIGAZIONI DEL VENDITORE
Ex art. 1476
c.c. le
obbligazioni del venditore sono:
‑ quella di
consegnare
la cosa al compratore;
‑ quella di
fargli
acquistare la proprietà della cosa o il diritto, se l'acquisto
non è effetto
immediato del contratto (vendita
obbligatoria);
‑ quella di
garantire
il compratore dall'evizione e dai vizi della cosa.
L'OBBLIGAZIONE
DI
GARANTIRE IL COMPRATORE DALL'EVIZIONE E DAI
VIZI
Tre sono i
rimedi
previsti dal legislatore a favore del compratore:
‑ la garanzia per evizione;
‑ la garanzia per vizi;
‑ la garanzia per mancanza di qualità della cosa.
L'evizione si
verifica
allorché il compratore sia privato del
bene, oggetto del contratto di compravendita, a causa
dell'esistenza di un diritto, vantato da un terzo, sul bene
stesso.
L'evizione
può essere:
‑ totale, quando il
compratore è
privato dell'intero bene;
‑ parziale, quando il
compratore è
privato solo parzialmente del bene acquistato;
‑ limitativa, quando un
tetto vanta
un diritto limitato, reale o personale sul bene.
Le azioni a
favore del
compratore evitto sono previste dall'art. 1483 c.c., il quale rinvia
all'art.
1479 c.c.:
‑ l'interesse
negativo
è tutelato, senza che abbia rilievo la colpa del venditore,
dalle azioni di risoluzione e di riduzione del
prezzo;
‑ (interesse
positivo
dell'acquirente è, invece, tutelato dall'azione di risarcimento
del danno, esperibile solamente qualora vi sia stata
la colpa del venditore.
Il venditore
è tenuto
poi:
‑ alla restituzione del prezzo, al rimborso del
valore dei frutti che l'acquirente è obbligato a restituire al
terzo che vanta
diritti;
‑ al rimborso delle spese giudiziali ed in
particolare delle spese necessarie per la denunzia della lite al
venditore
(denunzia obbligatoria per l'acquirente ai sensi dell'art. 1485 c.c.) e
quelle
che debbono essere rimborsate all'evincente vittorioso;
I termini
brevi,
previsti dal legislatore in materia, trovano la loro ratio
nell'esigenza di
tutelare la parte venditrice permettendogli di rivalersi,
eventualmente, nei
confronti di chi gli ha fornito il bene.
Infine il
1° comma
dell'art. 1494 c.c. obbliga il venditore al risarcimento
del danno (danno diretto), se non prova di aver ignorato senza
colpa i vizi
della cosa; il secondo comma dello stesso articolo prevede anche il
risarcimento dei danni derivati dai vizi della cosa (danno indiretto).
Circa la garanzia per mancanza delle qualità
promesse, l'art. 1497, 1 ° comma, c.c. stabilisce che quando
la cosa
venduta non ha le qualità promesse ovvero
quelle essenziali per l' uso cui è
destinata, il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione
del contratto, secondo le disposizioni generali sulla
risoluzione per inadempimento, purché il difetto di
qualità ecceda i limiti di
tolleranza stabiliti dagli usi; egli ha, inoltre, diritto al risarcimento del danno eventualmente
subito.
L'azione per
assenza di
qualità promesse rientra, quindi, nell'azione di risoluzione del
contratto per
inadempimento, il compratore però dovrà rispettare i
termini di decadenza e di
prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c.
LE
OBBLIGAZIONI DEL COMPRATORE
L’
obbligazione
principale del compratore è quella di pagare
il prezzo.
L’art.
1498 c.c.
stabilisce che il prezzo deve essere pagato nel termine e
nel luogo fissati
dal contratto.
In mancanza di
pattuizione e salvi gli usi diversi, il pagamento deve avvenire al
momento
della consegna e nel luogo dove questa si esegue.
Se il prezzo
non si
deve pagare al momento della consegna, il pagamento si fa al domicilio
del
venditore.
A norma
dell'art. 1499
c.c., qualora la cosa venduta e consegnata al compratore produca frutti
o altri
proventi, decorrono gli interessi sul
prezzo, anche se questo non è ancora esigibile.
Ex art. 1475
c.c., le
spese del contratto di vendita sono a carico del compratore.
4.
La vendita
obbligatoria
è un contratto già perfetto che però produce
effetti traslativi solo in un
momento successivo. Nella vendita obbligatoria è possibile
distinguere:
‑ gli effetti
obbligatori (irrevocabilità
del consenso; impegno del venditore di far acquistare la
proprietà della cosa o
il diritto al compratore; obbligo del compratore di pagare il prezzo)
che si
verificano immediatamente sin dalla conclusione del contratto;
‑ gli effetti
reali (trasferimento
della
cosa o del diritto) che si realizzano in un momento successivo.
Costituiscono
ipotesi di vendita obbligatoria:
- la vendita di cosa futura. Si ha allorché
il contratto di compravendita ha ad oggetto una cosa che
non esiste al momento della conclusione dello stesso.
L’art. 1472 c.c. stabilisce che l'acquirente acquista la
proprietà del bene
venduto allorché la cosa viene ad esistenza.
La vendita di
cosa
futura, rientrando nel più ampio schema della vendita
obbligatoria, si
perfeziona con il semplice consenso delle parti, e sin dal momento
perfezionativo
sorgono in testa alle parti gli effetti obbligatori; gli effetti
finali,
invece, sono differiti al momento in cui viene ad esistenza la cosa
venduta.
Il 2°
comma dell'art.
1472 c.c. stabilisce che, qualora le parti non abbiano voluto
concludere un
contratto aleatorio, la vendita è nulla, se la cosa non viene ad
esistenza;
- la vendita di cosa altrui. È prevista dal
codice civile all'art. 1478 il quale stabilisce che «se
al momento del contratto la cosa venduta non era di proprietà
del
venditore, questi è obbligato a procurare 1 acquisto al
compratore. Il
compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore
acquista la
proprietà dal titolare di essa».
La vendita
di cosa altrui rappresenta, quindi, un'ipotesi per così dire,
fisiologica, nel
senso che la fattispecie si realizza soltanto nel caso in cui il
contratto ha
espressamente per oggetto una cosa altrui o nel caso in cui il
compratore
sapeva dell' alienità della cosa. Se, al contrario, il venditore
ha venduto per
propria una cosa di proprietà aliena, al compratore sarà
consentito
l'esperimento dei normali mezzi a sua difesa quali la risoluzione del
contratto
e la richiesta di risarcimento dei danni.
Anche la
vendita di
cosa altrui, così come la vendita di cosa futura, rientra nella
più ampia
categoria della vendita obbligatoria: sin
dalla conclusione del contratto, che avviene con la prestazione del
semplice
consenso delle parti, sorgono, infatti, immediatamente effetti
obbligatori sia
per il venditore (l'obbligo di procurarsi il bene) sia per l'acquirente
(l'obbligo di pagare il prezzo). Gli effetti reali del negozio si
realizzano,
invece, in un momento successivo e precisamente nel momento in cui il
bene
entra nel patrimonio giuridico del venditore: solo allora, infatti, il
compratore
diverrà automaticamente proprietario del bene oggetto del
contratto.
II venditore
può
adempiere il suo obbligo facendo acquistare il bene venduto
all'acquirente o in
via diretta o in via indiretta e cioè:
‑
la prima ipotesi si realizza allorché
egli acquisti, in qualsiasi modo, il bene oggetto del contratto;
‑
la seconda ipotesi si realizza,
invece, allorché il venditore stipuli con l'attuale proprietario
del bene un
contratto a favore di terzi, stabilendo l'alienazione del bene a favore
dell'acquirente del contratto di compravendita;
- la vendita con riserva di proprietà. Regolata
dagli artt. 1523‑1526 c.c., è caratterizzata dal fatto che il venditore, pur trasferendo sin dal momento
della conclusione del contratto il godimento del bene venduto ali
acquirente,
rimane proprietario dello stesso sino all'integrale pagamento del
prezzo, che è
invece differito nel tempo.
Tale tipo di
vendita ha
trovato larga utilizzazione soprattutto nella vendita a rate,
costituendo
un'ottima garanzia per il credito del venditore al pagamento del
prezzo. Per
quanto riguarda la natura giuridica di
tale contratto, è discusso se si tratta di vendita
sottoposta alla
condizione del pagamento dell' ultima rata, oppure di vendita
obbligatoria,
oppure, infine, di vendita a scopo di garanzia, con la costituzione di
un
diritto reale di garanzia a favore del venditore;
Il compratore,
ai sensi
dell'art. 1523 c.c., assume i rischi del bene venduto sin dalla
consegna, pur
non essendo ancora proprietario, e ciò è spiegabile
avendo l'acquirente
immediatamente il diritto di godimento e quindi il contatto diretto col
bene.
Il codice
poi prevede che il mancato pagamento di una sola rata che non ecceda
l'ottava
parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto ed
il venditore
potrà agire giudizialmente solo per il pagamento della rata
scaduta (art. 1525
c.c.). In caso di risoluzione del contratto (se la singola rata supera
l'ottavo
del prezzo o se l'inadempimento si protrae per più rate),
inoltre, il venditore
ha diritto di riottenere il bene, dovendo però restituire al
compratore le rate
riscosse, salvo il suo diritto ad un equo compenso, oltre al
risarcimento per
eventuali danni (art. 1526 c.c.).
‑ la vendita di cose generiche. Il bene
oggetto del contratto, è individuato solamente per la sua
appartenenza ad un
genere e non nella sua individualità fisica.
Nella vendita
di cose
generiche la proprietà è trasferita all'acquirente al
momento
dell'individuazione del bene.
Si è,
quindi,
nell'ambito della vendita obbligatoria dove il momento ulteriore, che
segna il
trasferimento della proprietà, è costituito
dall'individuazione del bene
venduto: con ciò, infatti, la cosa, indicata solamente per la
sua appartenenza
ad un genere, si concretizza in un bene specifico;
‑ la vendita alternativa. Si ha quando un
soggetto si obbliga a trasferire uno di due o più beni specifici
dedotti in
contratto.
Il
trasferimento del
diritto si realizzerà al momento della concentrazione
cioè quando viene
esercitata la facoltà di scelta (che di regola, spetta al
venditore). Il
legislatore disciplina, inoltre, le modalità e i termini di
esercizio di tale
facoltà (art. 1287 c.c.) nonché l'eventuale
impossibilità della prestazione
(artt. 1288, 1289 c.c.).
5.
L’art.
1500 c.c., nel disciplinare il patto di
riscatto, stabilisce che il venditore può riservarsi il diritto
di riavere la
proprietà della cosa venduta mediante la restituzione del prezzo
ed i rimborsi
indicati dalle norme successive.
La vendita con
patto di
riscatto è caratterizzata, quindi, dalla facoltà che il
venditore ha di
riottenere il bene venduto mediante la restituzione, entro un termine
stabilito, del prezzo e dei previsti rimborsi.
La funzione
di tale tipo di vendita consiste nel concedere al
venditore, necessitante temporaneamente di denaro liquido, di
riacquistare il
bene alienato una volta che è ritornato in una buona situazione
di liquidità.
Per impedire
che vi sia
un approfittamento della situazione da parte del venditore, il secondo
comma
del medesimo articolo stabilisce che «il patto di restituire un
prezzo
superiore a quello stipulato per la vendita è nullo per l’
eccedenza».
Il patto di
riscatto,
in quanto patto accessorio alla vendita, necessita degli stessi requisiti formali; esso, inoltre, deve
necessariamente essere contestuale al contratto di compravendita,
poiché un
patto successivo sarebbe un negozio autonomo che rientrerebbe in altre
figure
giuridiche.
A norma
dell'art. 1501
c.c. il termine per il riscatto non
può essere maggiore di due anni nella
vendita di beni mobili e di cinque in
quella di beni immobili. Se le parti stabiliscono un termine maggiore
esso si
riduce a quello legale (perentorio e inderogabile).
L’ art.
1502 c.c.,
invece, stabilisce gli obblighi del
riscattante, e cioè:
‑ rimborsare
il prezzo
al compratore;
‑ rimborsare
le spese
ed ogni altro pagamento legittimamente fatto per la vendita;
‑ rimborsare
le spese
per le riparazioni necessarie e, nei limiti dell'aumento, quelle che
hanno
aumentato il valore della cosa.
In caso di
successiva
alienazione da parte del compratore ancora sottoposto alla
facoltà di riscatto
del venditore originario, la legge riconosce la prevalenza del diritto
di
quest'ultimo rispetto al diritto di proprietà del terzo
acquirente: di
conseguenza il venditore può ottenere il bene dai successivi
acquirenti, purché
il patto di riscatto sia ad essi opponibile (art. 1504 c.c.).
6. VENDITE CON
CLAUSOLE SULLA QUALITÀ DEL BENE
A) Vendita con
riserva di gradimento
La vendita con
riserva
di gradimento è prevista dall'ari. 1520 c.c. il quale stabilisce
che quando si
vendono cose con riserva di gradimento da parte del compratore, la
vendita non
si perfeziona fino a che il gradimento
non sia stato comunicato al venditore.
Invero, si
è in
presenza di una proposta irrevocabile del venditore che il compratore
è libero
o meno di accettare, dopo un esame del bene; l'esame dovrà
essere eseguito nel
termine convenuto decorso il quale, nell'inerzia del compratore, il
venditore è
liberato dalla proposta ovvero la vendita si perfeziona se la merce
è presso
l'acquirente. .
B) Vendita a
prova
L'art. 1521
c.c.
prevede la vendita a prova e stabilisce che essa si realizza quando le
parti
hanno convenuto di sottoporre l'efficacia della vendita all'accertamento
di determinate qualità.
La vendita a
prova è,
quindi, una vendita condizionata sospensivamente all'accertamento delle
qualità
stabilite dalle parti.
La vendita in
esame si
distingue dalla vendita con riserva di gradimento essendo un contratto
già
perfetto, anche se condizionato.
C) Vendita su
campione
La vendita su
campione
si ha allorché le parti abbiano determinato il bene oggetto del
contratto facendo riferimento ad un bene esemplare
(campione): nel caso di difformità tra bene effettivamente
dedotto in
contratto ed il campione, il compratore può risolvere il
contratto.
Dalla vendita
su
campione va distinta la vendita su un
tipo di campione che si realizza allorché il campione ha la
sola funzione
di indicare in modo approssimativo l'oggetto del contratto: in tal caso
la
risoluzione del contratto può essere chiesta solo in presenza di
difformità notevoli rispetto al
campione.
7.
Il codice
civile, a
lungo, non ha previsto alcuna normativa a tutela del consumatore,
i cui interessi erano protetti solo in via mediata e
riflessa (ad es. dalle norme in materia di concorrenza sleale e antitrust).
Tuttavia, gli
obblighi
derivanti dall'appartenenza dell'Italia alla Unione Europea hanno
indotto il
legislatore a intervenire con l'introduzione di una normativa specifica
in tema
di vendite stipulate fuori dalle sedi
commerciali, a distanza e, più in generale, di contratti
conclusi dal consumatore.
Il D.Lgs. 15 gennaio 1992, n.
Le nuove norme
si
applicano ai contratti tra un operatore
commerciale ed un consumatore, per la fornitura di beni o la
prestazione di
servizi, stipulati:
‑ durante una
visita
dell'operatore commerciale nel domicilio del consumatore o nei luoghi
dove
lavora (vendita a domicilio);
‑ in area
pubblica o
aperta al pubblico mediante la sottoscrizione di nota d'ordine,
comunque
denominata.
In relazione a
tali
contratti la legge riconosce al consumatore un diritto di
recesso, svincolato
dalla sussistenza di particolari motivi, da esercitarsi attraverso
l'invio
all'operatore commerciale di apposita comunicazione nel
termine di sette giorni decorrenti dalla data di sottoscrizione
della nota d'ordine o dalla data di informazione dell'esistenza del
diritto di
recesso, oppure dalla data di ricevimento della merce. Il
diritto di recesso è irrinunciabile ed è
nulla ogni pattuizione in contrasto con la disciplina normativa
di esso.
La tutela del
consumatore si fa ancora più netta per i «contratti
di vendita a distanza», cioè quelli
conclusi tra un fornitore ed un consumatore attraverso tecniche di
comunicazione che non presuppongono la vicinanza fisica fra le parti
(vendita
su catalogo, tramite Internet, via fax, televendita etc.). Ai sensi del
D.Lgs. 22 maggio 1999, n.
La nuova
normativa
trova la sua ratio nell'esigenza di
garantire il giusto equilibrio tra le posizioni contrattuali a fronte
dei
possibili abusi provenienti dalla parte contrattualmente più
forte (il
professionista). Essa, in sostanza, sanziona le clausole vessatorie
(artt. 146 quinquies, 2° comma
e 1469 bis, 3° comma, c.c.) ovvero quelle
clausole che «malgrado la buona fede,
determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei
diritti e
degli obblighi derivanti dal contralto».
Le clausole
vessatorie
sono inefficaci. Si tratta, tuttavia, di una figura
speciale di inefficacia, in quanto:
L’ art. 1469 quater c.c. dispone, inoltre, che
le clausole devono essere inserite nel contratto per
iscritto e devono essere redatte in modo chiaro e
comprensibile; nel
dubbio prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore.
Il D.Lgs.
2‑2‑2002, n. 24 ‑ di attuazione della direttiva 1999/44/CE
su taluni aspetti
della vendita e delle garanzie dei beni
di consumo ‑ ha
introdotto nel Libro IV del codice civile gli articoli da 1519 bis a 1519 nonies al fine di disciplinare taluni
aspetti dei contratti di vendita (al contratto di vendita sono
equiparate
permuta e somministrazione) e delle garanzie concernenti i beni di
consumo.
In
particolare, sulla
base delle citate disposizioni, il venditore ha l'obbligo
di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di
vendita ed è responsabile nei
confronti del consumatore stesso per
qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della
consegna del
bene.
In caso di
difetto di
conformità, il consumatore ha diritto al ripristino,
senza spese, della conformità del bene ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione
del contratto secondo le regole di cui all'art. 1519 quater c.c. Il consumatore decade
dai diritti previsti dalle norme in esame se non denuncia
al venditore il difetto di conformità entro due mesi dalla
scoperta (ma la denuncia non è necessaria se il venditore
ha riconosciuto
l'esistenza del difetto o l'ha occultato).
Il venditore
finale
(responsabile verso il consumatore) ha diritto
di regresso nei confronti del produttore o di un precedente
venditore o
intermediario cui sia imputabile il difetto di conformità.
9. VENDITA
«A MISURA» E «VENDITA A CORPO»
Le due forme
contrattuali citate le troviamo, ovviamente, nella vendita immobiliare,
con
effetti diversi per entrambe le parti, a seconda che optino per l'una o
per
l'altra forma:
10.
L’ art.
1552 c.c.
definisce la permuta come «il contratto
che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di
cose, o di
altri diritti, da un contraente all' altro ». La permuta
è un contratto di scambio con una funzione
molto simile a quella della vendita. Si distingue, però, dalla
vendita in
quanto lo scambio non è caratterizzato dalla prestazione di un
corrispettivo in
denaro, ma ha per oggetto il reciproco trasferimento della
proprietà di cose o
della titolarità di altri diritti.
Tranne regole
particolari
in tema di evizione (art. 1553 c.c.) e di spese (art. 1554 c.c.) per la
permuta
sono richiamate, in quanto compatibili, le norme stabilite per la
vendita (art.
1555 c.c.).
Circa la garanzia per evizione il
legislatore riconosce al permutante il diritto di chiedere la
risoluzione
del contratto ed il risarcimento del danno, ex
art. 1479 c.c., quando deve ritenersi che egli non avrebbe
accettato la
cosa in permuta senza quella parte della quale è stato evitto.
Qualora,
invece, il
permutante evitto preferisca mantenere fermo il contratto, avrà
diritto al
pagamento del valore della cosa al momento in cui fu pronunziata
l'evizione,
tenuto conto dei miglioramenti e dei deterioramenti (mentre non
è dovuto il
rimborso delle spese del contratto), nonché al risarcimento del
danno.
La permuta
è di regola
un contratto consensuale ad effetti reali immediati, ma al pari della
vendita,
può avere anche un'efficacia obbligatoria immediata
ed un'efficacia reale differita
Tale seconda
ipotesi si
verifica quando l'effetto traslativo non è immediato e
conseguente al semplice
consenso delle parti legittimamente manifestato, ma è differito
e fatto
dipendere da ulteriori eventi, come nel caso di permuta di
cosa futura e nel caso di permuta di cosa altrui.
Il mutuo
1. NOZIONE E
NATURA
GIURIDICA
La definizione
di mutuo
è data dall'articolo 1813 c.c. secondo il quale esso è il
contratto con cui «una
parte consegna all’altra una determinata quantità di
denaro o di altre cose
fungibili e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose
della stessa
specie e qualità». La funzione che il contratto di
mutuo intende realizzare
consiste nell'attribuzione della piena disponibilità del bene
oggetto del
contratto a favore della parte mutuataria che ne acquista la piena
proprietà.
Per quanto
riguarda la natura
giuridica, il mutuo è un contratto:
2. GLI
ELEMENTI DEL
CONTRATTO
Elementi del
contratto
di mutuo sono:
3. LE
OBBLIGAZIONI
DELLE PARTI
Essendo il
mutuo un
contratto unilaterale, anche se con attribuzioni reciproche, dopo
la
conclusione del contratto vi sono obbligazioni solo a carico del
mutuatario.
Occorre, però, distinguere il mutuo oneroso da quello gratuito.
Nel primo il
mutuatario
è obbligato a restituire altrettante cose della stessa specie e
qualità, (art.
l8l3 c.c.) ed a pagare gli interessi convenuti (art. l8l5 c.c.). Nel
secondo,
invece, sorge solo l'obbligo di restituzione.
Per quanto
riguarda l'ammontare
degli interessi, trova applicazione l'art. 1284 c.c., pertanto il
saggio
degli interessi legali, attualmente è del 3%, è
aggiornato annualmente con
proprio decreto dal Ministro dell'economia e delle finanze; a tale
saggio si
computano gli interessi convenzionali, se le parti non ne hanno
determinato la
misura.
Interessi
superiori
devono esser determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella
misura
legale. L'ultimo comma dell'ari. l8l5 c.c. stabilisce che se sono
dovuti
interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti
interessi.
Prima della
modifica ad opera della L.
108/1996,l'art. 1815 c. c. sanciva la nullità della
clausola contrattuale con
cui si convenivano interessi usurari e l'automatica riduzione degli
interessi
dovuti al tasso legale.
La nuova
disposizione,
prevedendo che gli interessi non siano dovuti in nessuna misura,
costituisce un
più forte deterrente per il mutuante alla fissazione di interessi
usurari.
Inoltre,
mentre in
precedenza l'aleatorietà degli interessi veniva accertata sulla
base di elementi
di fatto (di non facile valutazione),
4. IL
PRELIMINARE DI
MUTUO. IL MUTUO DI SCOPO
Nonostante
l'opinione
contraria di qualche Autore, la promessa di mutuo, prevista dall'art.
1822
c.c., disciplina in realtà il contratto preliminare di mutuo:
con esso
una parte si obbliga a prestare un futuro consenso a consegnare la
cosa
oggetto della promessa.
La portata del
contratto è meramente obbligatoria; la promessa (che può
essere sia unilaterale
che bilaterale) benché vincolante, può non essere
mantenuta dal promittente
qualora sia intervenuta una modificazione nelle condizioni
Patrimoniali del
promissario tale da far ritenere difficile la restituzione del mutuo e
non
vengano offerte adeguate garanzie.
Il mutuo di
scopo è quel contratto in fora del
quale una parte si obbliga a fornire i capitali necessari al
conseguimento di
una finalità, legislativamente (mutuo di scopo legale) o
convenzionalmente
(mutuo di scopo volontario) stabilita, realizzata a cura dell'altra
parte la
quale si obbliga a restituire la somma ricevuta ed a svolgere
l'attività
necessaria al conseguimento dello scopo.
Il mutuo
di scopo
rientra nel più ampio fenomeno del finanziamento con il quale si
provvede a
fornire i mezzi necessari per il compimento di determinate
attività od opere.
5. IL MUTUO
GARANTITO
A tutela del
mutuante
si pone, prima di tutto, la normale garanzia generica prevista
dall'ari. 2740
c.c.
Il mutuante,
poi, potrà
esercitare tutti i mezzi conservativi previsti dalla legge (sequestro
conservativo, azione revocatoria, azione surrogatoria).
Inoltre le
parti hanno
la facoltà di stabilire forme di garanzia specifiche che possono
avere natura
reale (ipoteca e pegno) o personali (fideiussione) in relazione alle
quali si
parla di mutuo pignoratizio, mutuo ipotecario e mutuo cambiario.
Gli altri
contratti
1. IL COMODATO
La nozione del
contratto di comodato è data dall'art. 1803 c.c.: trattasi di un
contratto con
cui «una parte (comodante) consegna all'altra (comodatario)
una cosa mobile
o immobile affinché se ne serva per un tempo o per un uso
determinato, con
l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta».
Dal punto di
vista
della natura giuridica, il comodato è un contratto:
Oggetto del
contratto
di comodato è, come si è detto, l'attribuzione di un
diritto
personale di
godimento.
Il godimento
attribuito
può essere esercitato in maniera diretta o indiretta, anche se
è necessaria
l'autorizzazione del comodante per il godimento indiretto concesso
a terzi.
II bene
concesso in
comodato deve essere un bene restituibile nella sua
individualità; esso inoltre
deve essere non consumabile.
Il bene
può anche
essere per sua natura consumabile o fungibile allorché le parti
l'abbiano
dedotto in contratto per un uso anomalo o come cosa specifica.
Relativamente
agli obblighi
nascenti dal contratto, si distinguono:
A)
Obbligazioni del
comodante:
B)
Obbligazioni del
comodatario:
Anche se il
codice non
pone limiti alla durata del contratto, la dottrina prevalente ritiene
che un
limite temporale debba comunque sussistere. Nel caso di comodato a
tempo
indeterminato (comodato precario) il comodatario è,
comunque, tenuto alla
restituzione del bene non appena il comodante ne faccia richiesta.
Oltre ai
normali fatti
che comportano in generale lo scioglimento del contratto, in tema di
comodato
il legislatore ha previsto varie ipotesi di recesso a favore del
comodante e
precisamente:
2. IL
FRANCHISING
Il franchising
è un
sistema di collaborazione tra un produttore (franchisor) ed un
distributore
(franchisee), giuridicamente ed economicamente indipendenti l'uno
dall'altro,
ma vincolati da un contratto, in forza del quale il primo concede al
secondo la
facoltà di entrare a far parte della propria catena di
distribuzione, con il
diritto di sfruttare, a determinate condizioni e dietro il
pagamento di una
somma di denaro, propri marchi, brevetti, nome, insegna, knowhow,
formule o
invenzioni commerciali.
Il contratto
di
franchising è previsto anche dal regolamento n. 4087/88 della
Commissione della
Comunità europea del 30 novembre 1988, entrato in vigore il 1
° febbraio 1989.
Vi sono
diverse categorie di franchising e più
precisamente:
Circa la natura
giuridica, nonostante il citato regolamento CEE n. 4087/88 che fa
del franchising
un contratto nominato, esso rimane un contratto atipico in quanto
tuttora privo
di un'organica disciplina di carattere civilistico.
Il franchising
è un
contratto di impresa, a prestazioni corrispettive, di durata, in cui
rilevano
le qualità personali dei contraenti.
Il rapporto ha
una
durata corrispondente ad un periodo sufficiente per consentire al
franchisee
di ammortizzare gli investimenti; questo tempo minimo è sempre
stabilito nel
contratto ed oscilla nella maggioranza dei casi tra i tre ed i nove
anni.
Frequente è la clausola di rinnovazione tacita del rapporto in
mancanza di
disdetta.
Il contratto
è
intrasmissibile o al più trasmissibile solo dietro espressa
autorizzazione del
franchisor. Le
parti,
altresì, sono solite prevedere in caso di cessione o di affitto
dell'azienda
del franchisee, un diritto di prelazione esercitabile dal franchisor.
Le obbligazioni
del
franchisor sono:
Le obbligazioni
del
franchisee sono:
Una clausola
di
esclusiva appare generalmente in tutti i contratti di franchising,
solitamente in via reciproca: da un lato, cioè, il franchisee si
impegna a non
vendere beni in concorrenza con quelli del franchisor e, dall'altro, il
franchisor si obbliga a non servirsi sullo stesso territorio di altri
franchisee.
3. IL DEPOSITO
L’art.
1766 c.c. definisce
il deposito come «il contratto col quale una parte riceve
dall'altra una
cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in
natura». Il
deposito è un contratto reale: si conclude, cioè,
mediante accordo
seguito dalla consegna della cosa al depositario.
La consegna
della cosa,
oggetto del deposito, avviene normalmente con il passaggio materiale
del bene
da custodire: in tal caso il depositario ne acquista la detenzione;
la
consegna può tuttavia mancare quando la cosa si trovi già
nelle mani del
depositario. Il deposito si presume gratuito, salvo che dalla
qualità
professionale del depositario o da altre circostanze si debba desumere
una
diversa volontà delle parti (art. 1767).
Il deposito
è un
contratto di durata e non formale. Soggetti del contratto di
deposito
sono il depositante ed il depositario.
II depositario
è
obbligato:
Durante il
rapporto,
sorgono a carico del depositario alcuni obblighi accessori tra cui va
ricordato
l'obbligo di avviso al depositante, quando siano state modificate le
modalità
di custodia (art. 1770, 2° comma, C.C.), e quando il depositario
perda, per
fatto a lui non imputabile, la detenzione della cosa (art. 1780, 1
° comma
c.c.).
Obblighi del
depositante sono:
Oltre al
depositante ed
al depositario può essere interessato al rapporto di deposito
anche un terzo
(deposito a favore di terzo): ipotesi espressamente prevista
dall'art. 1773
c.c.
L'impresa e
l'azienda
1.
IMPRENDITORE E
IMPRESA
È
«imprenditore»
chi esercita professionalmente un'attività economica
organizzata al fine
della produzione o dello scambio di beni o di servizi (art.
Da tale
definizione si
desumono i caratteri della attività imprenditoriale, e
cioè:
L’imprenditore
è
assoggettato ad uno speciale regime giuridico, differenziato in
relazione alla
natura (commerciale o agricola) dell'impresa esercitata ed
alle
sue dimensioni,
che incide direttamente sui rapporti giuridici che a lui fanno capo.
Il codice
civile
definisce all'art. 2082 c.c. «l'imprenditore»; nulla dice,
invece, con
riferimento all'«impresa».
Tuttavia,
partendo dal
presupposto che l'imprenditore è il titolare
dell'impresa, quest'ultima
può definirsi come «l'attività economica
organizzata dall'imprenditore e da
lui esercitata professionalmente al fine della produzione o dello
scambio di
beni o servizi».
Da tale
definizione si
ricava che l'impresa non può considerarsi né come
soggetto, né come oggetto di
diritto; essa, infatti, consiste in un attività di
organizzazione dei /attori
produttivi., personali e reali, preordinata alla creazione di nuova
ricchezza
(beni o servizi) per soddisfare i bisogni del mercato.
Dalla
definizione di
«imprenditore» si evincono i caratteri peculiari
dell'attività
imprenditoriale.
«L'attività
imprenditoriale» consiste in «una serie di atti
(affari) coordinati al
conseguimento di uno stesso fine» consistente nella
creazione di una
nuova ricchezza destinata al «mercato», ossia a
soddisfare bisogni altrui,
o, come dice il legislatore, nella «produzione o scambio di
beni o servizi».
È
qualificabile economica
quell'attività produttiva, che, in quanto esercitata
«in proprio»
(individualmente o collettivamente ‑ società) espone il
soggetto che la
esercita al rischio di un ricavo inferiore ai costi sostenuti
per la
utilizzazione dei fattori impiegati, per la produzione di beni o di
servizi o
per la loro distribuzione.
Rischio,
quindi, di
perdere il capitale investito o di aver lavorato senza
remunerazione
(GALGANO).
Secondo
carattere
dell'attività imprenditoriale è quello dell'organizzazione.
Esso è
insito nel concetto stesso di impresa, intesa come «complesso di
mezzi (beni) e
di persone» che dal legislatore è stato considerato nel
suo aspetto dinamico e
funzionale, ossia «preordinato alla creazione di una nuova
ricchezza e non
statico».
In particolare:
E’
«organizzata»
quell'attività che si pone come intermediaria tra chi offre
lavoro e capitale
da un lato, e chi domanda beni e servizi dall'altro. Oltre a svolgere
questa
funzione di intermediazione, l'imprenditore
«trasforma» o «combina» e quindi
organizza i fattori di produzione creando nuova ricchezza. Il
potere di
organizzazione e indirizzo dell'impresa costituisce insieme al rischio,
l'altro elemento fondamentale che caratterizza l'attività
dell'imprenditore.
Requisito
essenziale,
per l'esercizio dell'attività di impresa, è
altresì quello della professionalità.
Per
«professionale»
deve intendersi un'attività:
Il concetto di continuità, però, non implica
necessariamente quello di«non
interruzione»: è imprenditore, infatti, anche chi gestisce
un'impresa a
carattere unicamente stagionale (si pensi al gestore di uno
stabilimento
balneare o di un albergo aperto per una sola stagione all'anno). Con la
professionalità neppure è da confondere il concetto di
esclusività: è
imprenditore, infatti, chi, oltre all'impresa, abbia anche una propria
attività
di diversa natura (si pensi ad un medico che, contemporaneamente,
gestisca una
casa di cura ed eserciti la libera professione);
Tale ultimo requisito non è espressamente contemplato dall'art.
2082 c.c., ma
per la prevalente dottrina e giurisprudenza è implicito nel
concetto di
«professionalità». Perché sussista la
«professionalità», sotto il profilo
giuridico, non è richiesta la «massimizzazione del
profitto» (c.d. lucro
soggettivo) ma è sufficiente che l'attività di impresa
sia gestita con criteri
tali da essere idonea a ricavare almeno quanto occorra per coprire i
costi dei
fattori di produzione impiegati nel ciclo produttivo o distributivo
(c.d.obiettiva economicità o lucro oggettivo).
Requisito
indispensabile per l'acquisizione della qualità di imprenditore
è l'esercizio
di un'attività produttiva e cioè il compimento di una
serie di atti coordinati
e finalizzati alla produzione o allo scambio di beni o di servizi. Non
solo
quindi produzione materiale di beni e servizi, ma anche scambio di beni
già
prodotti: è dunque imprenditoriale l'attività
creatrice di nuova ricchezza.
Tale
attività, comunque
deve essere rivolta al mercato.
E)
Attività esercitata
in nome proprio (c.d. spendita del nome)
Essenziale,
inoltre, è
che l'imprenditore eserciti l'impresa in nome proprio,
sopportandone il relativo
rischio economico (c.d.rischio imprenditoriale).
È il
requisito della
spendita del nome il criterio in base al quale si identifica la figura
dell'imprenditore.
2. CRITERI DI
CLASSIFICAZIONE DELL'IMPRESA
Esistono tre
criteri
principali di classificazione dell'imprenditore e della sua
attività:
Il vigente
codice col
considerare «imprenditore» chiunque svolga
un'attività creatrice di ricchezza,
ha configurato tale anche l'agricoltore, ma ha conservato ad esso
alcune
facilitazioni (per l'ulteriore «rischio ambientale» cui
è soggetto) che il
precedente sistema già gli garantiva, quali:
L’art. 2 del D.Lgs. 228/2001 conferisce espressamente a tale
iscrizione, oltre
alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle
leggi
speciali, l'efficacia di opponibilità ai terzi di cui all'art.
2193 c.c.
L'imprenditore
agricolo,
pertanto, non è assoggettato alla normativa
dell'imprenditore commerciale
e la disciplina ad esso relativa è affidata più alla
legislazione speciale che
alle poche norme contenute nel codice.
Il D.Lgs.
228/2001 ha
modificato la nozione codicistica di imprenditore agricolo,
riformulando l'art.
2135 c.c. Tale disposizione, nella sua attuale formulazione, definisce,
al 1°
comma, le attività agricole essenziali, e cioè
quelle dirette alla
coltivazione del fondo, alla selvicoltura, all'allevamento di
animali. Il 2°
comma specifica che nelle attività suddette vanno ricomprese
quelle «dirette
alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase
necessaria del
ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono
utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o
marine».
Con il D.Lgs.
228/2001,
è stato superato il rapporto produzione‑terra nella definizione
di imprenditore
agricolo. Tale qualifica viene oggi riconosciuta non solo a coloro che
coltivano materialmente il fondo o allevano il bestiame ma anche a chi
esercita
allevamenti ittici, alle aziende conserviere e casearie, e a chi presta
servizi
a favore dell'agricoltura.
Agli
imprenditori
agricoli è poi consentita la vendita al dettaglio di prodotti
provenienti in
misura prevalente dalle rispettive aziende agricole (art. 4, D.Lgs.
228/2001) e
può avere per oggetto anche prodotti derivati, ottenuti
attraverso attività di
manipolazione o trasformazione di prodotti agricoli e zootecnici.
La qualifica
di
imprenditore agricolo è, infine, riconosciuta pure ai soci di
società di
persone esercenti attività agricole (art. 9, D.Lgs. 228/2001).
L’ultimo
inciso del
comma 1° dell'art. 2135 c.c. attribuisce la qualifica di
imprenditore agricolo
a chi esercita attività connesse a quelle di coltivazione del
fondo, di
selvicoltura e allevamento di animali.
Il 3°
comma dello
stesso articolo, stabilisce che «si intendono comunque
connesse»:
Una volta
delineato il
concetto di imprenditore agricolo, si può definire quello di imprenditore
commerciale. In particolare, ai sensi dell'art. 2195 c.c., sono
imprenditori commerciali coloro che esercitano:
3. GLI ENTI
PUBBLICI
ECONOMICI (E.P.E.)
Gli Enti
Pubblici
Economici sono una particolare categoria di enti pubblici che ha ad
oggetto principale
o esclusivo (e quindi, non in posizione
«accessoria» rispetto ai loro
fini istituzionali) l'esercizio di un'attività d'impresa.
Essi non
operano ponendo in essere atti amministrativi, bensì negozi di
diritto privalo,
per la realizzazione di un’attività economica di
produzione o di scambio di
beni o servizi.
In particolare:
Per ridurre
l'incidenza
sul debito pubblico delle spese per il sovvenzionamento degli enti
pubblici
economici, il legislatore (L. 29‑1‑1992, n. 35) ha disposto che questi
possano
essere trasformati in S.p.a., conformemente agli indirizzi di
politica
economica ed industriale. Le società risultanti dalla
trasformazione succedono
agli enti trasformati nella totalità dei rapporti giuridici e
sono sottoposte
alla normativa generale vigente per le società per azioni.
L’impresa
familiare ‑
istituto introdotto dalla L. 19‑5‑1975, n. 151, nell'ambito della
riforma del
diritto di famiglia ‑ è quella impresa agricola o commerciale
cui collaborano
con l'imprenditore, senza che intercorra un rapporto societario o
di lavoro
subordinato, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli ani entro
il
secondo grado (art. 230bis c.c.).
Con essa il
legislatore
ha voluto riconoscere la eguale partecipazione dei familiari in
proporzione
alla qualità e quantità del lavoro prestato, equiparando,
altresì,
espressamente il lavoro della donna a quello dell'uomo (L. 9‑12‑1977,
n. 903).
L:impresa
familiare va
costituita, ai soli fini fiscali, con atto notarile con il quale si
stabiliscono anche le quote di utili da ripartire fra i singoli
familiari.
Soltanto al titolare compete il potere di ammettere un familiare
nell'impresa,
poiché l'imprenditore deve essere libero di scegliere i suoi
collaboratori. È
prevista anche la partecipazione dei minori (privi della
capacità d'agire);
costoro, però, nel voto sono rappresentati da chi esercita la
potestà su di
essi. Dell'impresa familiare possono far parte anche i figli naturali
del
titolare che li abbia riconosciuti: la legge, infatti, non
restringe il novero
dei partecipanti ai parenti legittimi. Si ricordi, infine, che la legge
non
richiede l'obbligo della convivenza in un'unica famiglia (quella del
titolare)
di quanti operano nell'impresa familiare.
Il familiare
che presta
in modo continuativo la sua attività di lavoro nell'impresa
familiare ha un
complesso di diritti definiti di partecipazione e cioè:
Ai fini della
determinazione degli utili deve affermarsi la necessità della
formazione di periodici
bilanci e conti profitti e perdite. Il titolare anche se non è
obbligato alla
tenuta delle scritture contabili è, però, tenuto ad una
documentazione
sufficientemente idonea a consentire ai familiari di esercitare, in
sede di
rendiconto, il controllo sulla gestione e sui risultati della
stessa.
Spettano al titolare
(in quanto, secondo l'orientamento prevalente, l'impresa
familiare
resta pur sempre un'impresa individuale) le decisioni
concernenti la gestione
ordinaria: egli vi provvede in piena autonomia e non è previsto
alcun obbligo
di previa consultazione o comunicazione ai familiari che collaborano.
Spettano,
invece, alla maggioranza dei componenti dell'impresa le decisioni
concernenti:
Spettano,
infine, a tutti
i partecipanti (all'unanimità) le decisioni inerenti al
trasferimento del
diritto di partecipazione all'impresa familiare.
5. IL PICCOLO
IMPRENDITORE
Un'altra
importante
distinzione tra le imprese è quella che tiene conto delle
dimensioni; a tal fine,
infatti, si distinguono: piccola, media e grande impresa. Notevoli
sono le
conseguenze connesse alla distinzione in esame, in quanto il piccolo
imprenditore (al pari dell'imprenditore agricolo):
Il concetto di piccola impresa è dato dal codice in riferimento
all'imprenditore:
sono così «piccoli imprenditori», ai sensi dell'art.
2083 c.c., «il
coltivatore diretto del fondo, l'artigiano, i piccoli commercianti
e coloro
che esercitano un'attività professionale organizzata
prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti la propria famiglia».
Tale norma
individua
alcune tra le più comuni figure di piccoli imprenditori, e
cioè:
Con l'ultimo
inciso
l'art. 2083 c.c. fissa un regola di carattere generale, quella
della prevalenza
del lavoro proprio e dei familiari sul lavoro altrui,
ossia dei dipendenti salariati, che serve come criterio di
identificazione per
eventuali altre categorie di piccoli imprenditori. Tale
«prevalenza» deve,
però, sussistere non solo rispetto al lavoro altrui, ossia dei
dipendenti
salariati, ma anche rispetto al capitale investito
nell'attività
d'impresa.
Ad es. non
può
considerarsi piccolo imprenditore il gioielliere anche se esercita
l'attività
senza avvalersi della collaborazione di dipendenti in quanto
l'ammontare del
capitale investito nell'impresa è certamente preminente
anche rispetto al suo
stesso lavoro.
In relazione
alla
figura di artigiano si sono create notevoli difficoltà
interpretative e di
coordinamento per il proliferare di una articolata legislazione
speciale con
finalità di ausilio e sostegno, legislazione che di volta in
volta ha prodotto
una nozione di artigiano non sempre conciliabile con i criteri di
definizione
della categoria adottati dal codice civile (art. 2083 c.c.). La
problematica è
stata superata con l'emanazione della legge quadro per l'artigianato
(L.
8‑8‑1985, n. 443) che ha fornito una nuova e definitiva nozione di
impresa
artigiana. Essa è contraddistinta dai seguenti elementi:
In seguito
alle
modifiche apportate dalla L. 20‑5‑1997, n. 133, la società
artigiana può essere
costituita anche in forma di accomandita semplice e a
responsabilità limitata
unipersonale. Infine
La
qualità di
imprenditore commerciale si acquista per il solo fatto di esercitare
professionalmente una attività economica tra quelle di cui
all'art. 2195 c.c.
Nessun altro adempimento è richiesto in quanto l'iscrizione nel
registro delle
imprese ha solo efficacia dichiarativa. La qualità di
imprenditore si perde per
cessazione effettiva dell'attività a prescindere dalla
cancellazione dal registro
delle imprese. Il rischio che implica l'esercizio dell'impresa e
l'importanza
del ricorso al
credito, con
conseguente necessità di tutelare i terzi che lo hanno concesso,
giustifica una
particolare disciplina in materia di capacità ad esercitare
un'impresa
commerciale.
Così: ,
7. IL REGISTRO
DELLE
IMPRESE
Il codice del
La disciplina
essenziale che il codice detta per il registro delle imprese è
la seguente:
L’iscrizione
ha, ex
nunc (art. 2193 c.c.), efficacia:
Una volta
avvenuta
l'iscrizione, la presunzione di conoscenza è assoluta; in caso
di mancata
iscrizione, invece, vi è solo una presunzione relativa di
ignoranza del terzo
(è ammessa, cioè, la prova contraria). L:efficacia
dell'iscrizione, di regola,
è solo dichiarativa, poiché si esaurisce nel campo della
opponibilità. In
alcuni casi particolari, tuttavia. l'efficacia è costitutiva:
come per le società
di capitali, che solo con l'iscrizione nel registro acquistano
personalità
giuridica (art. 2331 c.c.).
Prima della L.
29‑12‑1993,
n. 580 (con la quale il sistema di pubblicità delineato ha
trovato una prima
attuazione), vigeva un regime transitorio (art. 100 disp. att.) per
effetto del
quale le iscrizioni erano raccolte in appositi registri tenuti presso
L’art. 8
della L. 29‑12‑1993,
n. 580 (il cui regolamento di attuazione è contenuto nel D.P.R.
7-12‑1995, n.
581 successivamente modificato dal D.P R. 16‑9‑1996, n. 559) ha
disposto
l'istituzione di appositi uffici del registro presso le Camere di
commercio di
ciascuna provincia ed ha, altresì, esteso l'obbligo di
iscrizione nel registro
agli imprenditori agricoli, alle società semplici, ai
piccoli imprenditori e
agli artigiani iscritti al relativo albo, soggetti precedentemente
esonerati da
tale adempimento. L’ iscrizione per questi soggetti però
ha solo funzione di
certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, eccetto
per gli
imprenditori agricoli per i quali, come si è già detto,
il D.Lgs. 228/2001 ha
previsto l'efficacia di opponibilità ai terzi. La
predisposizione, tenuta,
conservazione e gestione del registro avviene mediante l'uso di
archivi
informatici in modo da assicurare la completezza,
l'organicità e la
tempestività dell'informazione. Dopo una fase transitoria,
necessaria a
garantire il travaso delle società già registrate presso
la cancelleria del
Tribunale nel nuovo registro, questo è
diventato pienamente operativo a far data dal 26 gennaio
1997,
ma
ulteriori modifiche sono stare introdotte con il D.P.R. 1 4‑12‑1999, n.
58, che
ha previsto !assorbimento in un'unica sezione speciale delle
quattro
precedentemente esistenti (per gli imprenditori agricoli, i piccoli
imprenditori, le società semplici e gli artigiani). Ha inoltre
stabilito che le
imprese hanno la possibilità di presentare le domande di
iscrizione e di
deposito presso il registro mediante invio telematico o su supporto
informatico.
8. GLI
AUSILIARI
DELL'IMPRENDITORE
All'attività
imprenditoriale partecipano diversi soggetti, che collaborano
nell'esercizio
dell'impresa.
Questa
collaborazione
si attua mediante svolgimento di prestazioni di opera:
Nell'ambito
degli
ausiliari dell'imprenditore, quindi, si distinguono:
L'institore
è la persona preposta dal titolare
all'esercizio di un'impresa commerciale, o di una sede secondaria
o di un ramo
particolare dell'impresa (art. 2203 c.c.).
Trattasi di un
prestatore di lavoro con funzioni direttive, cui spetta:
Proprio in
virtù di
tale posizione l'institore risponde, insieme all'imprenditore,
della
osservanza delle disposizioni in materia di iscrizione nel registro
delle
imprese e di tenuta dei libri contabili (art. 2205 c.c.), e sono estese
nei
suoi riguardi le disposizioni relative alla bancarotta e agli altri
reati
fallimentari. L’institore gode di ampi poteri di gestione (ossia
di poteri
decisionali interni) e rappresentativi (ossia verso i terzi) che
ineriscono
alla sua funzione e non richiedono, pertanto, per la loro attribuzione,
una
procura. La procura è necessaria soltanto nel caso che
l'imprenditore intenda
limitare i poteri che la legge attribuisce all'institore.
Riguardo ai
poteri
rappresentativi previsti dalla legge, si nota che:
Comunque,
l'agire
dell'institore nel nome e per conto del preponente può anche
risultare
implicitamente, per fatti concludenti (così, ad esempio, se usa
la carta
intestata dell'imprenditore o se tratta gli affari nella sede
dell'impresa).
I poteri
dell'institore
vengono meno con il cessare della preposizione: la revoca dei poteri,
tuttavia,
deve essere pubblicata, anche se non fu resa pubblica, a suo
tempo, la
preposizione stessa.
Sono
procuratori coloro
i quali, in base ad un rapporto continuativo, possono compiere per
l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa,
pur non
essendovi preposti (art. 2209 c.c.).
Ad essi si
applicano le
stesse norme previste per gli institori relative alla pubblicità
ed alla
modificazione e revoca delle procure (artt. 2206 e 2207 c.c.). Anche il
procuratore è un lavoratore subordinato (impiegato) ed è
largamente presente
nell'organizzazione delle aziende di credito. Anche la rappresentanza
dei
procuratori, in mancanza di espresse limitazioni, deve ritenersi
generale,
ovviamente, in relazione agli atti per i quali egli dispone di
un'autonomia
decisionale.
Nell'ambito
della
disciplina della rappresentanza di imprese commerciali la legge tende a
far
corrispondere l'esterno potere di rappresentanza all'interno
potere di
gestione. La differenza tra le figure dell'«institore» e
del «procuratore» si
basa sostanzialmente sul fatto che, malgrado ad entrambi sia
riconosciuta una
sfera decisionale di poteri direttivi inerenti alle mansioni ad essi
affidate:
C) I commessi
(artt.
2210‑2213 c.c.)
I commessi
sono quegli
ausiliari che esercitano attività subordinata di concetto o di
ordine, estranea
però a funzioni direttive. Tale nozione, in particolare, si
ricava dalla
consuetudine del commercio, in quanto il codice tace in proposito.
Essi possono
essere:
I loro poteri rappresentativi
sono strettamente collegati alle mansioni svolte: essi,
perciò, possono
compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie delle
operazioni di
cui sono incaricati.
La
pubblicità dei
poteri dei commessi
è soltanto di fatto.
Oltre
all'institore, ai
procuratori e ai commessi, generalmente operano nell'impresa altri
soggetti in
posizione di subordinazione rispetto all'imprenditore. Si tratta degli
impiegati ed operai, non dotati di potere di rappresentanza, e che
svolgono
pertanto la loro attività soltanto all'interno dell'impresa,
senza entrare in
contatto con i terzi.
9. AZIENDA
A) Nozione e
titolarità
L'azienda
è «il
complesso dei beni organizzali dall'imprenditore per
l’esercizio dell'impresa»
(art. 2555 c.c.).
Tali
«beni» sono
coordinati strumentalmente dall'imprenditore cui spetta la
«titolarità
dell'azienda » per consentirgli la utilizzazione funzionale
nonché la piena
disponibilità dei singoli beni per l'esercizio dell'impresa.
All'azienda,
in
particolare, fanno capo:
Non fanno
parte
dell'azienda i contratti, i crediti ed i debiti che, invece, fanno capo
direttamente all'imprenditore; essi sono suscettibili di essere
ricollegati
all'azienda, ma si tratta sempre di elementi distinti ed estrinseci ad
essa. Né
può ritenersi l'azienda comprensiva anche dei collaboratori
dell'imprenditore,
in quanto non è possibile equiparare le persone fisiche ai
«beni» materialmente
intesi. I termini impresa ed azienda vengono, talvolta, utilizzati nel
linguaggio comune come sinonimi, è da dire però che
da un punto di vista giuridico
essi indicano due realtà molto diverse anche se strettamente
connesse.
Possiamo
definire:
Tra azienda ed
impresa
esiste, quindi, un rapporto strumentale in quanto la prima è il
mezzo per il
raggiungimento di uno scopo costituito dall'esercizio di
un'attività di
impresa.
II fatto che
l'azienda
sia caratterizzata da un complesso di beni organizzati in funzione di
uno scopo
produttivo ci induce a considerare:
Il maggior
valore che
tali beni acquistano quando sono organizzati prende il nome di
avviamento dell'azienda
e trova espresso riconoscimento nella legge (artt. 2424 e 2426
c.c.). Se un
soggetto acquista un'azienda già avviata, acquista anche
l’avviamento, cioè
l'aspettativa di guadagni futuri ed infatti egli per la cessione
dell'azienda
dovrà pagare un prezzo più alto rispetto al reale valore
dei singoli beni.
L’avviamento, in pratica, è il plusvalore che deriva
all'azienda dal fatto che
i beni che la compongono sono organizzati e coordinati per conseguire
lo stesso
fine; esso può essere dunque:
Uno degli
indici per
misurare il valore dell'avviamento è la clientela, cioè
il flusso costante
della domanda di beni o servizi che fanno capo all'azienda. La
clientela non
deve quindi confondersi con l'avviamento, rappresentando soltanto
un aspetto
di questo.
A)
Generalità
L'imprenditore
nella
veste di titolare dell'azienda può trasferire a terzi:
Ouest'ultimo
tipo di
trasferimento può aversi per atto tra vivi in forme diverse (es.
vendita, art.
2558 c.c.; usufrutto, art. 2561 c.c.; affitto, art. 2562 c.c.) secondo
regole
particolari, mentre può trasferirsi secondo le regole
generali per donazione,
permuta, conferimento in società. Non sono previste disposizioni
particolari,
invece, per le ipotesi di trasferimento mortis causa dell'azienda; in
tal caso
si applicano le regole generali sulle successioni:
Norma
fondamentale in
materia è quella dell'art. 2556 c.c., secondo il quale: «per
le imprese
soggette a registrazione i contratti che hanno per oggetto il
trasferimento
della proprietà o il godimento dell'azienda devono essere
provati per iscritto,
salva l'osservanza delle forme stabilite dalla legge per il
trasferimento dei
singoli beni che compongono l’azienda o per la particolare natura
del contratto».
Tale articolo,
dunque,
fissa due principi:
Da tali
principi si
deduce che, in realtà, l'azienda non ha peculiari
modalità di trasferimento, ma
circola nelle forme proprie dei beni che la compongono: cedere o
affittare
l'azienda, cioè, equivale a cedere o locare una serie di
beni.
Nell'atto di
cessione
non è necessario indicare tutti i beni dell'azienda che si
trasferiscono
(basta, infatti, per l'art. 1346 c.c., che tali beni siano
determinabili),
mentre occorre necessariamente indicare i beni che non vengono
trasferiti.
Il cessionario
acquista
l'azienda a titolo derivativo, ma non così la qualità di
imprenditore, che
viene acquistata a titolo originario: da ciò consegue che il
cessionario non
esercita la stessa impresa che ha acquistato, bensì esercita
un'impresa nuova
ad essa corrispondente (è inesatto pertanto parlare, in tal
caso, di
successione nell'impresa).
11.
SUCCESSIONE NEI
CONTRATTI DELL'AZIENDA CEDUTA
Statuisce
l'art. 2558
c.c. che, in caso di trasferimento, «se non è pattuito
diversamente,
l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l’
esercizio
dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale».
Tale articolo
fissa due
principi:
I contratti in
cui
succede il cessionario sono quelli stipulati per l'esercizio
dell'azienda
stessa, e, quindi, qualunque contratto stipulato dall'imprenditore
per
l'esercizio dell'impresa. In particolare, per i contraili di lavoro
detta
espressamente l'art. 2112 c.c. (come sostituito dal D.Lgs. 18/2001) che
«in caso
di trasferimento dell'azienda, il rapporto di lavoro continua con il
cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano».
Altri
contratti in cui
subentra l'acquirente sono:
Le parti
possono
escludere, con apposito patto espresso, tale successione, anche se
questa
possibilità non sussiste per quei contratti che attengono
all'organizzazione
aziendale (c.d. contratti aziendali) ed il cui venir meno farebbe
venir meno
la stessa azienda. Tale successione, inoltre, si verifica, a differenza
del
principio generale sancito dall'art. 1406 c.c., indipendentemente
dal consenso
del contraente ceduto: questo, infatti, ha solo la facoltà, se
sussiste una
giusta causa, di recedere dal contratto entro i tre mesi dalla notizia
del
trasfèrimento (art. 2558, 2° comma, c.c.). Le ragioni
dell'impresa prevalgono,
quindi, sulle esigenze di protezione dell'autonomia privata.
A norma
dell'art. 2558
c.c. sono esclusi dalla cessione automatica i contratti che abbiano
carattere
personale, nei quali hanno fondamentale rilievo le qualità
personali e
professionali della controparte proprio perché basati su di un
rapporto
fiduciario con l'imprenditore.
12. DEBITI E
CREDITI
DELL’AZIENDA CEDUTA
I crediti ed i
debiti
relativi all'azienda ceduta sono regolati dagli artt. 2559 e 2560 c.c.:
tali
norme introducono alcune deroghe ai principi di diritto comune in
materia di
cessione dei crediti e successione nei debiti.
A) Successione
nei
crediti
Cart. 2559
c.c. dispone
che la loro cessione a favore dell'acquirente ha effetto, nei
confronti dei
terzi (debitori), dal giorno della notifica al debitore o della sua
accettazione (secondo le regole comuni in tema di cessione di
crediti);
ovvero, dal momento dell'iscrizione nel registro delle imprese
dell'intervenuto
trasferimento dell'azienda.
Per tutelare i
creditori che non devono subire pregiudizi dal trasferimento
dell'azienda nel
caso in cui il cessionario sia un soggetto che non offre
sufficienti garanzie
patrimoniali:
13. IL DIVIETO
DI
CONCORRENZA
La cessione
dell'azienda unitariamente considerata produce tutta una serie di
effetti che
vengono disciplinati in modo specifico dalla legge. Stabilisce
l'art. 2557
c.c.: «chi aliena l'azienda deve astenersi, per il periodo di
cinque anni
dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per
l’oggetto,
l’ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela
dell'azienda
ceduta [...]. Nel caso di usufrutto o di atto dell’azienda il
divieto di
concorrenza [...] vale [...] per la durata dell'usufrutto o
dell’affitto».
Questo divieto
è posto
a tutela dell'avviamento ed è soltanto un effetto naturale del
negozio: le
parti infatti, ai sensi del già citato art. 2557 c.c., possono
escluderlo,
limitarlo o, anche stabilire un divieto più ampio purché,
in quest'ultimo caso,
non ne resti impedita ogni attività professionale per
l'alienante. Il patto di
astensione dalla concorrenza, non può avere una durata maggiore
di cinque anni.
14. USUFRUTTO
E AFFITTO
DI AZIENDA
L’azienda
può anche
essere costituita in usufrutto (art. 2561 c.c.) o concessa
in affitto
(art. 2562 c.c.).
L’usufruttuario
ed
affittuario hanno l'obbligo di esercitare l'azienda sotto la ditta che
la contraddistingue,
gestirla senza modificarne la destinazione, ricostituire le normali
dotazioni
di scorte e sostituire gli impianti deteriorati dall'uso.
L'usufruttuario
e
l'affittuario subentrano automaticamente nei contratti aziendali per la
durata
dell'usufrutto o dell'affitto (art. 2558, 3° comma, c.c.), con la
conseguenza
che proprietario e locatore ridiventeranno parte di quelli che ancora
durano
alla fine del rapporto. Non si verifica accollo dei debiti aziendali
anteriori
(salvo che per i debiti di lavoro ex art. 2112 c.c.); mentre la
disciplina
dettata dall'art. 2559 c.c. per i crediti aziendali si applica soltanto
all'usufrutto e non all'affitto.
15. I SEGNI
DISTINTIVI
L’impresa
opera sul
mercato per lo più in un regime di concorrenza per cui è
necessario che sia
contraddistinta da alcuni elementi che ne permettano una facile
individuazione.
Segni distintivi dell'impresa sono la ditta, l'insegna ed il marchio
che la legge
tutela riconoscendone all'imprenditore la esclusività dell'uso e
impedendo che
altri se ne avvalgano.
Tra i segni
distintivi
assume una prevalente importanza la ditta, che è il nome sotto
il quale
l'imprenditore svolge la sua attività. Essa costituisce, a
differenza del
marchio e dell'insegna, che hanno carattere meramente facoltativo,
mezzo di
individuazione necessario dell'impresa economica. Nella creazione della
ditta
l'imprenditore deve rispettare due principi: il principio della
verità ed il
principio della novità.
Alfine di
evitare che
una ditta possa essere confusa con un'altra, l'art. 2564 c.c, prescrive
che: «quando
la ditta è uguale o simile a quella usata da altri imprenditori
e può creare
confusione, per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa
è
esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni
idonee».
La ditta
può essere
trasferita sia per atto tra vivi che per causa di morte purché
con essa avvenga
contestualmente il trasferimento della azienda. Nel caso, poi, di
usufrutto o
affitto dell'azienda, la ditta deve essere necessariamente trasferita.
L'insegna
è il segno
distintivo del locale nel quale si svolge l'attività
dell'imprenditore.
Essa può corrispondere alla ditta e, in questo caso, la tutela
dell'insegna è
un riflesso della tutela della ditta; può, invece, avere un
contenuto diverso
ed essere formata sia mediante una denominazione, che mediante figure o
simboli. Anche in questo caso l'insegna deve presentare i caratteri
della
originalità (e cioè capacità distintiva) e della
novità (deve essere, cioè,
tale da non ingenerare confusione, in relazione al luogo e all'oggetto
dell'attività, con l'insegna adottata da altro imprenditore).
Il marchio
è il segno
distintivo del prodotto. Esso può consistere tanto in un emblema
(c.d.marchio
emblematico), quanto in una denominazione o in un segno (si pensi al
cavallino
rampante delle auto della Ferrari), purché presenti carattere
distintivo e
cioè: abbia il carattere delle novità; non sia contrario
alla legge, all'ordine
pubblico o al buon costume; non sia generico e non veritiero. Funzione
precipua
del marchio è dunque quella di differenziare i prodotti di un
imprenditore da
quelli merceologicamente similari immessi sul mercato dai
concorrenti.
I marchi si
distinguono
in diversi tipi, fra i quali ricordiamo:
I marchi,
inoltre,
possono essere:
Si hanno poi
marchi
misti, composti o complessi, risultanti dalla combinazione di elementi
emblematici, figurativi o nominativi. Ciascun imprenditore ha diritto
di
avvalersi in modo esclusivo del marchio da lui prescelto, al pari di
quanto
avviene per la ditta e l'insegna.
Il diritto
all'uso
esclusivo del marchio può acquistarsi in due modi:
A norma dell'art. 2571 c.c., invero, chi ha fatto uso di un marchio non
registrato ha la facoltà di continuare ad usarlo, nonostante la
registrazione
da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è
avvalso.
Il marchio non
registrato gode di una tutela minore di quello registrato: infatti chi
ottiene
la registrazione gode della presunzione assoluta della
titolarità del diritto e
di una protezione estesa comunque a tutto il territorio nazionale:
colui che
vanta soltanto un preuso, invece, deve innanzitutto provarlo e riceve
poi una
tutela limitata all'ambito entro il quale detto preuso sia avvenuto.
L’esclusiva,
inoltre,
non si estende mai ai prodotti affini a quelli individuati dal marchio
di
fatto. Il marchio di fatto, infine, ha una tutela penale più
limitata (artt.
473 e 517 c.p.) ed una tutela civile ristretta alle sole azioni di
concorrenza
sleale e di risarcimento del danno. Il marchio può essere
trasferito per la
totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali
è stato registrato
e la cessione può avvenire anche indipendentemente dal
trasferimento
dell'intero complesso aziendale.
In ogni caso,
però, dal
trasferimento del marchio non deve derivare inganno in quei
caratteri dei
prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del
pubblico. Il
marchio, oltre che trasferito a titolo definitivo, può essere
anche concesso in
godimento temporaneo (c.d.licenza di marchio).
16. IL CONTRATTO DI
SOCIETÀ
Un'attività
economica
può essere esercitata da una singola persona fisica
(impresa individuale)
oppure da una pluralità di persone (impresa collettiva).
Nell'impresa
individuale
l'imprenditore è a capo dell'impresa e ne assume i rischi, nel
secondo caso più
soggetti concorrono all'esercizio dell'attività economica
dividendo utili e
perdite.
La
società quindi è la
forma di esercizio collettivo dell'impresa, in quanto è
un'organizzazione di
persone e di beni preordinata al raggiungimento di uno scopo produttivo.
Oggi l'impresa
collettiva è largamente prevalente su quella individuale
perché consente non
solo la raccolta di maggiori mezzi finanziari, ma anche il
frazionamento del
rischio d'impresa tra coloro che vi fanno parte.
In base
all'art. 2247
c.c. la società si costituisce mediante contratto con cui due o
più persone
confèriscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un
attività economica
allo scopo di dividerne gli utili.
Dalla
definizione si
desume che gli elementi essenziali del contratto di società
sono:
I conferimenti
sono le prestazioni di dare o di fare cui le parti del contratto
di società si
obbligano, al fine di esercitare in comune un'attività
economica.
Conferimento
non
significa consegna del bene o prestazione effettiva del servizio, ma
soltanto
assunzione dell'obbligazione di dare o di fare. Il contratto di
società è,
perciò, un contratto consensuale.
Possono
formare oggetto
di conferimento innanzitutto i beni, cioè denaro, beni mobili o
immobili, e in
generale ogni cosa che sia utilizzabile e suscettibile di
valutazione
economica.
Per effetto
del
conferimento il proprietario non può più utilizzare
individualmente il bene
conferito, essendo esso vincolato a quella specifica destinazione
che è
l'esercizio dell'attività economica, ma potrà farlo solo
collettivamente,
secondo le regole di organizzazione proprie dei diversi tipi di
società.
Possono
formare oggetto
di conferimento anche i servizi, ossia l'attività lavorativa o
gli apporti
d'opera del socio (è importante ricordare, però, che
nelle società di capitali
è escluso che si possano conferire servizi).
La
distribuzione degli
utili fra i soci è essenziale al contratto di società, ma
ciò non significa che
ciascun socio debba parteciparvi in uguale misura, e neppure che debba
sussistere una proporzione tra conferimento e partecipazione agli
utili. Alla
partecipazione del socio alla ripartizione degli utili della
società si correla
la partecipazione alle perdite, almeno nel limite del valore dei
conferimenti
eseguiti (artt. 2263 e 2264 c.c.).
Normalmente la
partecipazione agli utili ed alle perdite è proporzionale ai
conferimenti;
tuttavia, le parti sono libere di fissare nel contratto sociale criteri
di
ripartizione diversi, ad esempio attribuendo a determinati soci una
posizione
privilegiata.
Unico limite a
tale
libertà è quello stabilito dal divieto del patto leonino,
(chiamato così perché
consentirebbe ad uno o più soci di fare la «parte del
leone») ossia del patto
con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni
partecipazione agli utili o
alle perdite (art. 2265 c.c.).
17.
Il libro V del
codice
civile prevede diversi tipi di società, ciascuno dei quali con
una propria
normativa; in particolare il titolo V disciplina: la società
semplice, in nome
collettivo, in accomandita semplice, a responsabilità limitata,
per azioni, in
accomandita per azioni, a responsabilità limitata; mentre il
titolo VI
disciplina altri due tipi di società, dette mutualistiche: la
società cooperativa
e quella di mutua assicurazione.
Il sistema
previsto
dalla legge è un sistema «tipico», nel senso che chi
vuol costituire una
società deve necessariamente adottare uno dei tipi di
società previsti e disciplinati
dalla legge; non è possibile, cioè, creare società
atipiche diverse per
struttura o disciplina dal modello legale.
Le
società sono
variamente classificate.
Innanzitutto
in base
allo scopo distinguiamo tra:
In relazione all'oggetto sociale e quindi alla natura
dell'attività svolta distinguiamo
tra:
In relazione al grado di autonomia patrimoniale, che indica la
separazione che
si viene a creare tra il patrimonio della società e quello dei
singoli soci,
distinguiamo tra:
18. LE
SOCIETÀ DI
PERSONE
La società
semplice
è la forma più elementare di società, la cui
caratteristica fondamentale è
data dal fatto che essa può avere ad oggetto esclusivamente
l'esercizio di
attività non commerciali. Le società semplici svolgono
solitamente attività
agricole, attività di gestione di immobili e
attività di revisione contabile
di aziende. La disciplina prevista nel codice civile per la
società
semplice (artt. 22512290) assume particolare importanza, in quanto
il
legislatore, nel dettare le norme applicabili alle società di
persone, ha
ritenuto opportuno disciplinare in maniera dettagliata la
società semplice, per
poi limitarsi a richiamare tale disciplina (talvolta anche soltanto per
derogare ad essa) in occasione della regolamentazione della
società in nome
collettivo e della società in accomandita semplice. Le
norme che regolano
la società semplice valgono, dunque, fatte salve le
deroghe espressamente
previste (ad esempio, artt. 2293 e 2315 c.c.), anche per le altre
società di
persone.
Il contratto
costitutivo non richiede formalità particolari; tuttavia
quando si
conferiscono in proprietà beni immobili o diritti reali
immobiliari ovvero
quando si conferiscono in godimento gli stessi a tempo
indeterminato o per un
periodo superiore a nove anni è richiesto l'atto scritto a pena
di nullità.
La
società semplice non
ha personalità giuridica ed ha un'autonomia patrimoniale
imperfetta; ciò
comporta che i creditori sociali possono agire direttamente nei
confronti dei
soci che hanno agito in nome e per conto della società i quali
rispondono
solidalmente e illimitatamente dei debiti sociali. La
responsabilità dei soci,
pero, è sussidiaria nel senso che opera solo in caso di
insufficienza del
patrimonio societario, pertanto se il creditore si rivolge per la
soddisfazione
del suo credito ad un socio questi può domandare la preventiva
escussione del
patrimonio sociale indicando i beni su cui il creditore possa
agevolmente
soddisfarsi.
Inoltre i
creditori
personali del socio non possono agire sui beni della società, ma
possono
ottenere la liquidazione della quota del socio loro debitore, se i beni
di
quest'ultimo non sono sufficienti a soddisfarli.
L'amministrazione
intesa come attività di gestione dell'impresa sociale può
assumere nella
società semplice varie forme.
Il principio
generale
per la società semplice, richiamato anche per le altre
società di persone, è
che il potere di amministrazione della società spetta a
ciascun socio con
responsabilità illimitata, disgiuntamente dagli altri soci.
Tale potere,
tuttavia,
proprio perché può essere esercitato disgiuntamente dagli
altri soci, non è
illimitato, ma viene contemperato dal potere riconosciuto a
ciascuno degli
altri soci di opporsi all'operazione da compiere, prima che la stessa
sia
compiuta: diritto di veto.
Se
l'opposizione è
tempestiva, l'atto non può più essere compiuto fino alla
decisione
sull'opposizione.
Tale decisione
demandata alla collettività dei soci, i quali decidono a
maggioranza,
computata tenendo conto della quota di partecipazione agli utili a
ciascuno di
essi spettante (art. 2257 c.c.).
Nell'atto
costitutivo
può essere previsto un sistema di amministrazione congiuntiva,
secondo il quale
per il compimento delle operazioni sociali è necessario il
consenso di tutti i
soci e i singoli amministratori non possono compiere da soli nessun
atto, salvo
che vi sia urgenza di evitare un danno alla società.
Sia nel
sistema di
amministrazione disgiuntiva sia in quello di amministrazione
congiuntiva, vale
la regola per la quale tutti i soci illimitatamente responsabili
concorrono
nella amministrazione della società. Tuttavia tale regola
può essere derogata
dall'atto costitutivo, il quale può riservare I
ámministrazione ad uno o più
soci (disgiuntamente o congiuntamente, in quest'ultimo caso).
B) La società in nome collettivo
La società
in nome
collettivo è una società di persone che la legge ha
previsto per
l'esercizio di attività commerciali; solitamente si tratta di
imprese
commerciali di modeste dimensioni, basate soprattutto sul rapporto di
fiducia
tra i soci. Svolgendo attività commerciale le società in
nome collettivo sono
sottoposte allo statuto dell'imprenditore commerciale.
La disciplina
della
s.n.c. è compresa negli artt. 2291‑2313 del codice civile, ma
è previsto il
rinvio alle norme della società semplice in mancanza di
disposizioni specifiche.
La
stipulazione dell'atto
costitutivo deve essere fatta per iscritto e cioè mediante
scrittura
privata autenticata dal notaio o atto pubblico che deve essere
pubblicato nel
registro delle imprese. Tuttavia l'inosservanza di questo requisito
formale non
comporta l'invalidità del contratto, ma solo il divieto di
iscrizione nel
registro delle imprese; la società costituita mediante regolare
atto
costitutivo ma non registrata al registro delle imprese esiste
ugualmente,
anche se è irregolare.
Eventuali modificazioni
del contratto sociale devono essere decise, salvo patto
contrario,
all'unanimità (cioè con il consenso di tutti i soci) e
pubblicate, a loro
volta, dagli amministratori nel registro delle imprese (finché
non registrate,
infatti, esse non sono opponibili ai terzi, se non si prova che questi
ne erano
a conoscenza).
L’autonomia
patrimoniale delle s.n.c. è imperfetta, ma più netta
rispetto a quella delle
società semplici; infatti la responsabilità dei soci per
le obbligazioni
sociali è illimitata e solidale, ma più accentuato
è il carattere della
sussidiarietà in quanto il beneficio di escussione opera
automaticamente: il
creditore sociale non può rivolgersi ai singoli soci se non dopo
aver escusso
il patrimonio sociale (a differenza della società semplice
dove il beneficio
di preventiva escussione opera solo se richiesto dal socio). Inoltre il
creditore particolare del socio non può chiedere la
liquidazione della quota
del suo debitore.
Per quanto
riguarda
l'esecuzione del rapporto sociale, i soci hanno, in primo luogo,
l'obbligo
di compiere i conferimenti, così concorrendo alla
formazione del capitale
sociale.
In secondo
luogo, in
mancanza del consenso (anche presunto) degli altri soci, il socio
non può
esercitare, per conto proprio o altrui, un'attività
concorrente con
quella della società, né partecipare con
responsabilità illimitata ad altra
società concorrente.
In terzo
luogo, la
società è tenuta a redigere annualmente, alla chiusura
dell'esercizio sociale, l'inventario,
che è costituito dal bilancio e dal conto dei profitti e delle
perdite. Dopo
l'approvazione del rendiconto annuale, ciascun socio ha diritto di
percepire la
sua parte di utili, in misura proporzionale ai conferimenti. Anche
nella
società in nome collettivo, tuttavia, non può farsi luogo
alla ripartizione di
somme se non per utili effettivamente conseguiti.
In ordine all'amministrazione,
nella S.n.c. tutti i soci hanno diritto, in mancanza di speciali
accordi, di
amministrare personalmente i beni sociali; valgono le stesse regole
della
società semplice.
La società
in
accomandita semplice (s.a.s.) è una società di
persone caratterizzata dal
fatto che di essa fanno parte due diverse categorie di soci:
La ragione
sociale
è costituita dal nome di almeno uno dei soci accomandatari
con l'indicazione
di s.a.s.
L’atto
costitutivo
va redatto per iscritto (scrittura privata autenticata o atto pubblico)
e va
pubblicato nel registro delle imprese.
Con riguardo all'amministrazione
della società, abbiamo detto che i soci accomandanti
sono
obbligati solo al conferimento, corrono il rischio di perdere solo
il capitale
conferito, ma non hanno alcun potere di amministrazione. Pertanto,
qualora
l’accomandante si ingerisca nella gestione sociale compiendo
atti di amministrazione,
risponde illimitatamente e solidalmente delle obbligazioni sociali (si
considera di fatto un accomandatario).
Essi,
però, possono
prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori;
possono agire
per singoli affari, in forza di procura speciale; possono, se previsto
dall'atto costitutivo o con patto espresso, dare autorizzazioni e
pareri per
determinate operazioni e compiere atti d'ispezione e di sorveglianza,
purché
tali attività non abbiano a trasformarsi sostanzialmente in una
ingerenza
nell'amministrazione; hanno diritto, al termine dell'esercizio annuale,
di
avere comunicazione del bilancio e di esercitare un controllo di
legittimità
sullo stesso e sul conto dei profitti e delle perdite, consultando i
libri e
gli altri documenti della società pur non partecipando
all'approvazione del
bilancio stesso.
I soci
accomandatari,
invece, hanno il potere di amministrare la società, potere che
è conferito loro
di diritto.
Per quanto
riguarda la
possibilità di uscire dalla società cedendo la
propria quota, mentre i
soci accomandatari, in quanto personalmente responsabili per i debiti
sociali,
possono farlo solo con il consenso di tutti altri soci, gli
accomandanti, posta
la scarsa influenza che essi hanno nella vita della società,
possono, salvo
patto contrario, liberamente trasferire la propria quota per atto tra
vivi
purché vi sia il consenso di tanti soci che rappresentino la
maggioranza del
capitale sociale.
19. LE
SOCIETA’ DI
CAPITALI
La società
per
azioni (S.p.a.) rappresenta il principale tipo di società
di capitali e,
allo stesso tempo, la forma più importante di società
predisposta per le
imprese di grandi dimensioni, che richiedono l'apporto di ingenti
capitali e
importano l'assunzione di notevoli rischi. A norma dell'art. 2325 c.c.:
nella
società per azioni, per le obbligazioni sociali, risponde
soltanto la società
con il suo patrimonio. Le quote di partecipazione dei soci sono
rappresentate
da azioni.
Dalla lettura
di questa
disposizione legislativa, combinata con l'art. 2327, deriva che tre
sono i
caratteri che contraddistinguono
La denominazione
può essere costituita anche da un nome di fantasia, ma deve
contenere
l'indicazione società per azioni.
La s.p.a. si
costituisce per contratto che risulta da due documenti separati:
Vi sono due
tipi di
stipulazione dell'atto costitutivo:
La
costituzione della
S.p.a. si completa con l'iscrizione nel registro delle imprese che
avviene
d'ufficio; la pubblicità dell'iscrizione ha efficacia
costitutiva e cioè è un
elemento indispensabile per dirsi che la società sia venuta ad
esistenza ed
acquisti la personalità giuridica.
I fatti
più importanti
relativi alla vita della società (non solo l'atto
costitutivo, ma anche, ad
esempio, la nomina dei sindaci, il conferimento delle procure
etc.) devono
essere iscritti nel registro delle imprese.
Per la
costituzione di
una società per azioni, inoltre, sono richieste tre
condizioni necessarie
(art. 2329 c.c.):
In
considerazione delle
disposizioni previste dalla L. 340/2000, il controllo sulla
regolarità formale
dell'atto costitutivo, viene svolto direttamente dal notaio
davanti al quale è
stipulato, e non più, tramite il decreto di omologazione del
tribunale.
Proprio
perché, prima
dell'iscrizione nel registro delle imprese, la società non
può ritenersi ancora
esistente, è fatto alla stessa divieto di emissione e di vendita
di azioni fino
al momento dell'iscrizione ed è previsto che coloro che abbiano
eventualmente
compiuto operazioni in nome della società siano solidalmente ed
illimitatamente
responsabili vero i terni.
Una volta
avvenuta
l'iscrizione nel registro delle imprese, la nullità della
società può
essere pronunciata soltanto nei casi tassativamente indicati
dall'art.
2332 c.c.
Al socio
azionista spettano
diritti di amministrazione e diritti di natura patrimoniale.
Sono diritti
di
amministrazione:
Sono diritti
patrimoniali:
Costituiscono obblighi
dei soci l'esecuzione dei conferimenti e l'esecuzione di
prestazioni
accessorie (non consistenti in denaro) eventualmente stabilite
dall'atto
costitutivo.
La società
in
accomandita per azioni (s.a.p.a.) è una società di
capitali in cui sono
presenti due categorie di soci: gli accomandatari, solidalmente
e illimitatamente
responsabili delle obbligazioni sociali e i soci accomandanti
che
rispondono nei limiti del conferimento. Agli accomandanti si applicano
le
regole della società in accomandita semplice, ad esclusione
dell'art. 2320 c.c.
relativo al divieto di immistione. L'accomandante, infatti, non ha
poteri
amministrativi né può comunque esercitarli efficacemente;
per lui nemmeno si
prospetta la possibilità di compiere atti di
amministrazione neanche in forza
di una procura speciale per singoli affari.
Quanto agli
accomandatari l'atto costitutivo deve indicare con precisione i loro
nomi. Essi
assumono di diritto, ossia indipendentemente da una nomina assembleare,
la
carica di amministratori e la conservano senza limiti di tempo.
È
prevista decadenza
per revoca ad opera dell'assemblea (se, però, la revoca
avviene senza giusta
causa, l'amministratore revocato ha diritto al risarcimento dei
danni), per
rinuncia o per altre ragioni (morte, decadenza, vendita delle azioni
etc.).
Al contrario
di quanto
avviene nella società in accomandita semplice, ove gli
accomandatari possono,
ma non devono, esercitare le funzioni di amministratori, nella
società in
accomandita per azioni vi è un nesso indissolubile tra la
qualità di socio
accomandatario e la titolarità della carica di
amministratore.
Il capitale
sociale è
rappresentato da azioni e il suo ammontare minimo è
quello
previsto perle
s.p.a. (100.000 curo).
La s.a.p.a.,
pertanto,
presenta affinità sia con la s.a.s., per la presenza di due
categorie di soci,
sia con la s.p.a. in quanto le quote di partecipazione dei soci sono
rappresentate da azioni.
La disciplina
della
s.a.p.a. è in parte quella dettata per la s.p.a., in parte
consta di norme
proprie della società.
Le norme
proprie
previste per la s.a.p.a. riguardano:
Società
a
responsabilità limitata (s.r.l.)
è una società di capitali che
esercita un'attività col patrimonio conferito dai soci e con gli
utili
eventualmente accumulati ed in cui le quote di partecipazione dei soci
non
possono essere rappresentate da azioni.
Trattandosi di
società
di capitali, è dotata di personalità giuridica e di
autonomia patrimoniale
perfetta; essa si presta per l'esercizio di imprese sociali di ridotte
dimensioni, in cui lo schema societario permette di fruire del
beneficio della
responsabilità limitata.
La disciplina
della
s.rl. è in parte quella dettata per la s.p.a., in parte contiene
norme
specifiche per questo tipo di società.
La
costituzione della
s.r.l. avviene per atto pubblico e la società acquista
personalità giuridica
con l'iscrizione nel registro delle imprese.
Le s.rl. a
differenza
dalle s.p.a. presentano le seguenti caratteristiche:
Società
di persone e di capitali a confronto:
Società
di persone |
Società
di capitali |
-
L'elemento
determinante è la persona(affidabilità, conoscenza, stima
ecc.) -
La
costituzione può avvenire per allo pubblico o per scrittura
privata autenticata -
I soci sono
responsabili in modo illimitato, solidale e sussidiario (ciò
significa che, ciascun socio risponde, per le obbligazioni sociali, con
tutti i suoi beni presenti e futuri, deve essere solidale con gli altri
nel pagamento con diritto di rivalsa successivo, e inoltre, ha il
cosiddetto beneficio dell'escussione) -
Non vi sono
limiti di capitale, costituendo garanzia dei terzi anche il patrimonio
personale dei singoli soci -
L’autonomia
patrimoniale è imperfetta (l'organismo societario non ha piena
autonomia, né patrimoniale né giuridica) -->-
-->L’iscrizione
al registro delle imprese ha efficacia dichiarativa -->-
-->L’amministrazione
spetta ai soli soci disgiuntamente, congiuntamente o delegandola ad uno
solo di essi -->-
-->I
conferimenti possono essere rappresentati da capitale (denaro o beni),
ma anche da servizi (soci prestatori d'opera che non conferiscono
capitale) -->-
-->Non
vi sono organi sociali previsti dalla legge, proprio in virtù
del fatto che non esiste personalità giuridica e i soci hanno un
rapporto diretto con la società |
-->-
-->L’elemento
determinante è il capitale (questo spiega la
facilità con cui si possono trasferire le azioni o quote di
queste società) -->-
-->La
costituzione deve avvenire solo per atto pubblico -->-
-->I
soci hanno una responsabilità limitata alla quota conferita,
perché le società in questione hanno personalità
giuridica, quindi godono di autonomia patrimoniale perfetta -->-
-->Vi
sono limiti di capitale previsti per legge proprio in ragione
della personalità giuridica dell'organismo societario -->-
-->Devono
essere versati in un c/c vincolato almeno i tre/decimi dei conferimenti
in denaro -->-
-->Non
è più prevista l'omologazione dell'Atto Costitutivo da
parte del Tribunale (il controllo sull'atto viene effettuato dallo
stesso notaio rogante che effettuerà, poi, l'iscrizione al
Registro delle Imprese della società) -->-
-->L'iscrizione
nel registro delle imprese ha efficacia costitutiva (la
personalità giuridica si acquista nel momento
dell'iscrizione e non prima) -->-
-->L'amministrazione
può essere affidata a dei soci, ma anche a soggetti esterni -->-
-->Non
si possono avere soci prestatori d'opera che non abbiano fatto
almeno un minimo di conferimento in capitale -->-
-->Devono
essere nominati obbligatoriamente degli organi sociali (Assemblea,
Amministratore Unico o Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale) |
20. LE SOCIETÀ COOPERATIVE
Le società
cooperative sono predisposte per l'esercizio collettivo a scopo
mutualistico
di imprese commerciali e non.
Il fenomeno
cooperativo
si manifesta in vari campi:
-
consumo: (cantine
sociali, latterie sociali etc.) la cooperativa procura ai soci generi
alimentari a prezzo di costo lievemente aumentato per le spese generali;
-
produzione:
(cooperative agricole in generale etc.) i soci conferiscono i loro
prodotti
alla cooperativa e, tramite la stessa, li vendono direttamente ai
consumatori,
eliminando ogni intermediario;
-
lavoro: la
cooperativa
impiega direttamente il lavoro dei soci; costruzioni: (cooperative
edilizie) la
cooperativa ha come scopo la costruzione di edifici, da assegnarsi
in
proprietà ai soci, con divieto di alienazione ai non soci
ed esclusione di
ogni profitto per la società;
-
credito: (banche
popolari) la cooperativa esercita il credito a vantaggio dei soci, ai
quali
distribuisce anche, sia pure in misura limitata, gli utili
conseguiti.
Queste sono le
caratteristiche delle Cooperative:
-
hanno capitale
variabile (non hanno, al
contrario delle s.p.a. e delle s.rl., un capitale minimo e la
variazione del
numero dei soci, non comporta modifiche dell'atto costitutivo);
-
possono essere
a responsabilità illimitata
o a responsabilità limitata; devono essere sempre costituite per
atto pubblico;
-
occorrono un
minimo di 9 soci per quelle
di lavoro o produzione e almeno 50 soci per quelle di consumo (da
qualche anno
è stata introdotta anche la «Piccola Cooperativa»
con un minimo di tre soci);
-
le azioni o le
quote non possono essere di
un valore inferiore a 25 euro e in ogni caso non possono superare i
50.000
euro;
-
il valore
nominale di ciascun azione,
nelle cooperative a.rl., non può superare i 500 euro;
-
nelle
cooperative a responsabilità
limitata i soci rispondono per le obbligazioni sociali
limitatamente alla loro
quota, però l'atto costitutivo può stabilire che la
responsabilità si estenda
ad una somma multipla della quota;
-
nelle
cooperative a responsabilità
illimitata i soci rispondono in modo illimitato e solidale, come
nelle società
di persone.
Con il
D.Lgs.17 gennaio
2003, n. 6, pubblicato nella G.U. n. 17 del 22‑1-2003, è
stata approvata la
«Riforma organica della disciplina delle società di
capitali e società
cooperative», in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366.
DIRITTO
COMMERCIALE:
OPERAZIONI BANCARIE E TITOLI DI CREDITO
Nella sua
attività
l'agente o il rappresentante è giornalmente nelle condizioni di
utilizzare i
titoli di credito (assegni nelle loro varie forme, cambiali, tratte, e
così
via) e congiuntamente gli istitituti bancari per le operazioni che una
qualsiasi attività commerciale deve richiedere alle banche
stesse.
In questo
paragrafo
analizzeremo le operazioni bancarie fornendo gli elementi necessari ad
una
conoscenza sufficientemente approfondita delle «regole»
stabilite dalla legge e
delle norme fissate dall'ABI (l'Associazione Bancaria Italiana) nei
rapporti
con la clientela per ognuno dei molteplici aspetti dei vari servizi
effettuati
dagli istituti bancari nei confronti della clientela stessa.
Si tratta di
un
contratto fra la banca e il cliente caratterizzato da due elementi
essenziali:
Ogni
operazione di
pagamento o incasso eseguita dalla banca è seguita, di solito,
da comunicazione
scritta.
I fondi
depositati
originano a favore del correntista una remunerazione (interesse). Il
c/c, in
pratica, consente al cliente:
Oltre al
servizio
classico (pagamenti e accredito dei versamenti) le banche offrono una
variegata
gamma di servizi.
Il correntista
può
effettuare un pagamento ordinando alla sua banca di accreditare
l'importo sul
conto corrente del suo creditore.
Se debitore e
creditore
sono entrambi correntisti presso la stessa banca l'operazione è
definita
giroconto.
Se ciò
non è, o il
creditore non è cliente di alcuna banca, l'operazione ha nome
ordine di
bonifico.
Il correntista
può affidare alla sua banca
l'incarico di effettuare per suo conto il pagamento delle sue utenze,
delle
bollette (telefono, energia elettrica, ecc.) delle imposte, degli
affitti
(compreso il leasing che è locazione).
È
definita con questo
termine l'operazione con la quale il correntista stipula un contratto
con la
banca che «...previa deduzione dell'interesse, anticipa al
cliente un credito
verso terzi non ancora scaduto» (art. 1850 c.c.).
Generalmente
ciò viene
effettuato su titoli di credito (pagherò, tratte) ma anche su
altri titoli
(fatture, ricevute bancarie, titoli azionari).
Lo sconto
bancario ha
luogo pro solvendo, intendendosi con ciò che ove il credito non
venisse onorato
dal terzo, il correntista sarà tenuto a rifondere alla banca
l'intero importo
del credito stesso più le spese relative.
Con il
«salvo buon
fine» la banca non accredita immediatamente il valore (decurtato
dell'interesse
e delle spese) ma alla data della scadenza del titolo senza attendere
l'avviso
di avvenuto incasso, al valore nominativo del titolo stesso,
addebitando solo
commissione e spese incasso.
Può
essere concordata,
anche, la libera disponibilità: in questo caso il correntista
può utilizzare
tale disponibilità, ma pagando dalla data di utilizzo gli
interessi relativi.
È la
forma tecnica di
affidamento con la quale la banca si impegna ad onorare ordini di
pagamento per
importo superiore a quello deposi
tato dal
cliente sul
suo conto, entro un tetto concordato.
Esso viene
utilizzato congiuntamente o
disgiuntamente dallo sconto bancario
dall'operatore che deve effettuare operazioni presumendo
che, in
determinati momenti, non disporrà della liquidità
necessaria.
Lo scoperto di
conto (o «fido bancario») viene
concesso a clienti della cui solvibilità di base la banca si
è accertata: in
genere contro specifiche garanzie ma, anche, solo sulla fiducia.
Con la
definizione
titolo di credito si intende un documento con il quale un credito viene
trasferito fra due (o più) parti.
Comunemente
sono
considerati titoli di credito, nelle transazioni commerciali:
Ai titoli di
credito
sono connessi:
È il
documento con il quale il titolare del clc
(traente) ordina alla banca (trattario) di pagare a vista una
determinata somma
a favore dello stesso traente o di un terzo (beneficiario).
La banca
pagherà la
somma se il traente ha la relativa disponibilità sul conto (o se
è stato
affidato, nei limiti del fido) e se, nell'emettere l'assegno, ha
rispettato i
requisiti di forma richiesti ed i suoi elementi essenziali.
Gli elementi
essenziali
dell'assegno bancario sono:
La data
apposta
sull'assegno deve essere quella del giorno in cui lo stesso viene
emesso. La
post datazione non è consentita dalla legge: nella pratica,
comunque, può
essere ammessa una apposizione di data posteriore giustificata
però dal tempo
che viene reputato necessario a che il titolo pervenga al destinatario
nel caso
di spedizione e non di consegna brevi manu.
Se lo spazio
destinato
al beneficiario è lasciato in bianco, la legge stabilisce che
l'assegno è
pagabile al portatore, come se venisse apposta la dicitura «al
portatore».
Se
sull'assegno vengono
apposte due righe trasversali ciò garantisce a chi lo appone che
esso non potrà
essere pagato che a una banca
o a persone
ben note al
mondo bancario. Lo sbarramento si dice generale se sono apposte solo le
due
«righe» e speciale se fra di esse Compare il nome di una
banca specifica. Nel
primo caso (generale) la banca pagherà solo ad un suo cliente o
ad un'altra
banca, nel secondo (speciale) solo ad un suo cliente o alla banca
specificamente indicata.
Con questa
dicitura
apposta sull'assegno (nel «recto» o nel «
verso») è impedito il suo
trasferimento e quindi l'incasso da parte di persona non beneficiaria.
Non è
quindi ammessa la girata dell'assegno (vedi successivo paragrafo).
Essendo
strumento di
pagamento, l'assegno può circolare attraverso più
beneficiari prima di essere
presentato alla banca per l'incasso. Ciò è realizzato con
la girata che ne
trasferisce la proprietà e tutti i diritti inerenti.
Durante la sua
circolazione
l'assegno può incorrere in «incidenti di percorso»
prima della sua
presentazione per l'incasso.
Furto,
smarrimento,
distruzione dell'assegno.
Per queste eventualità il traente o il beneficiario devono
denunciare il fatto
alla banca trattaria e, in caso di furto, all'Autorità di
pubblica sicurezza.
Anche se la denuncia è stata fatta, la banca, ove l'assegno
venisse presentato,
dovrà pagarlo (anche se, in base alle consuetudini, vengono di
regola usate
particolari cautele dalla banca interessata).
Per
«bloccare» il
pagamento è prevista dalla legge la procedura di ammortamento,
che viene
richiesta con ricorso al Giudice (dove è domiciliato il
ricorrente) o al
Presidente del Tribunale (del luogo dove l'assegno è pagabile).
Pronunciato
dal
magistrato l'ammortamento del titolo e dopo la pubblicazione del
relativo
decreto sulla Gazzetta Ufficiale sarà autorizzato il pagamento,
e la banca non
dovrà più pagare l'assegno a chi lo presentasse.
Il sequestro
dell'assegno.
Può
essere disposto
solo dall'Autorità giudiziaria quando l'assegno è
collegato ad una
controversia: il sequestro è così civile e può
essere giudiziario o
conservativo. Se il sequestro è penale chi si vede sequestrato
l'assegno può
ottenerne copia autentica da presentare alla banca: se quest'ultima non
lo paga
il protesto sarà elevato se la copia è presentata nei
termini.
La
presentazione
dell'assegno alla banca deve aver luogo entro termini stabiliti dalla
legge:
8
giorni se «su piazza»; 15
giorni se «fuori piazza»; 20
giorni se emesso in altro Stato dello
stesso continente.
I termini sono
determinanti. Infatti:
Il mancato
pagamento di
un assegno bancario ha come conseguenza il suo «protesto».
Per elevare tale
protesto debbono trascorrere sessanta giorni dalla data del mancato
pagamento
per consentire al debitore di pagare: se ciò ha luogo il
«protesto» non viene
più elevato dal pubblico ufficiale a ciò delegato:
notaio, ufficiale
giudiziario (o suo aiutante), segretario comunale.
Oltre al
firmatario
traente, il legittimo possessore dell'assegno protestato (o non pagato)
può
chiamare in causa i giranti: uno qualsiasi o tutti assieme.
Non è
obbligatorio
richiedere il pagamento all'ultimo girante: saranno però
responsabili
successivi solo i giranti precedenti a quello cui s'è richiesto,
invano, il
pagamento, oltre che, ovviamente, al firmatariotraente.
Reato penale
nel
passato, il protesto dell'assegno è ora un reato civile
sanzionabile con
ammenda. Non è più, quindi, reato ostativo per gli atti
pubblici come
l'iscrizione al Ruolo Professionale degli Agenti e Rappresentanti di
Commercio.
Su questa
pubblicazione, edita da enti pubblici come le Camere di Commercio,
vengono
periodicamente elencati i protesti elevati, con le generalità
del traente
respondabile, con gli importi degli assegni e le date di scadenza.
La
riabilitazione
Con la
normativa
precedente, chi aveva subito una condanna per emissione di assegno
« a vuoto»
poteva ottenere la riabilitazione trascorsi cinque anni dalla condanna.
L'istituto rimane in vigore per le condanne comminate prima della nuova
normativa
che, ovviamente, non può avere valore retroattivo.
È emesso
a differenza di quello bancario
non dal correntista ma da una banca, che ne garantisce la
copertura (e
quindi il pagamento). Infatti l'assegno circolare è consegnato
dalla banca al
richiedente dopo averne ottenuto il controvalore:
L'emissione
dell'assegno è gratuita.
I
termini dell'assegno circolare
Questo titolo
di credito deve essere presentato per il pagamento
entro 30 giorni dalla data di
emissione; trascorso tale termine il portatore perde il diritto di
regresso
nei confronti degli eventuali giranti.
Nei confronti
della banca emittente, invece, gli
assegni si prescrivono dopo tre anni
dalla data di emissione. Sarà possibile ottenere il
controvalore, ma solo
dopo aver attuato la procedura
d'ammortamento.
La tabella
sinottica indica le differenze fra i
due tipi di assegno e le rispettive caratteristiche.
Assegno
bancario |
Assegno
circolare |
1) Un
correntista (cliente della banca) dà |
1) La banca
promette di pagare alla per- |
I'ordine ad
una banca presso la quale |
sona indicata
sul titolo la somma che |
esistono fondi
disponibili di versare al |
ha riscosso al
momento in cui ha |
beneficiario
indicato nel titolo la somma |
emesso
l'assegno |
ivi indicata |
|
2) può
essere emesso a vuoto (con con- |
2) ha sempre
la relativa copertura di fondi |
seguenze anche
gravi) |
|
3)
intervengono tre soggetti: correntista, |
3)
intervengono due soggetti: banca e be- |
banca,
beneficiario |
neficiario |
4) può
essere al portatore, cioè può non |
4) deve
contenere l'indicazione del bene- |
essere
specificato il nome del beneficiario |
ficiario |
5) è
soggetto a bollo fisso |
5) l'emissione
dell'assegno circolare è |
|
completamente
gratuita |
L'assegno
«a copertura garantita»
Questo
particolare tipo di titolo di credito,
agli effetti pratici, è molto simile a quello circolare
poiché garantisce al
beneficiario l'esistenza dei fondi
necessari pur non esprimendo una promessa di pagamento
incondizionata da
parte della banca, che certifica comunque (e stampa sull'assegno)
la cifra
della provvista, il deposito cioè esistente
presso la banca stessa.
I
valori dei titoli di credito vanno espressi in «euro»
È da
tenere presente che tutti i titoli di
credito, a far data dal 1° gennaio 2002, devono esprimere il loro
valore in
«euro» e non più in «lire» essendo da
tale data entrata in funzione a ogni effetto
la moneta unica della UE.
Ciò
vale sia per gli assegni che per le cambiali.
La cambiale
è un titolo
di credito compilato su stampati bollati emessi e forniti dallo Stato.
Gli elementi
essenziali
del documento cambiario sono:
Una cambiale
non ha
valore se non contiene tre dati essenziali (art. 2 legge cambiaria):
Non
contenendoli
diviene (art. 1988 c.c.) una semplice promessa di pagamento. Può
essere
attribuito al possessore il diritto di apporre gli elementi mancanti
ove il contraente
abbia previsto che ciò possa accadere.
In questo caso
però è
necessario che sulla cambiale « in bianco» compaiano:
·
firma del
debitore (o del creditore);
·
denominazione
cambiaria (cambiale o
tratta).
Il titolo
« in bianco»
ha valore ad ogni effetto, e ogni requisito è valido ai sensi di
legge anche
prima del completamento del titolo stesso.
L'apposizione,
sul
retro del titolo, della firma del possessore è una promessa
cambiaria oltre che
una forma di trasferimento del titolo stesso, che rende il girante
responsabile
del pagamento (art. 19 legge cambiaria) quando manca l'adempimento del
precedente firmatario.
Come per
l'assegno il
possessore può scegliere il girante a sua discrezione: unica
conseguenza è che
con tale scelta vengono liberati da ogni obbligo i giranti successivi
(art. 56
legge cambiaria).
È una
«garanzia
personale di un terzo a sostegno del debitore: l'avallo pone
all'avallante
l'onere della garanzia in solido ove il debito non risponda della sua
obbligazione (art. 36 legge cambiaria).
L'avallo
è apposto in
forma autografa dall'avallante, congiunta mente alla firma autografa
del
debitore/sottoscrittore della cambiale pagherò o della tratta
accettata.
Premesso che
il
possessore del titolo deve richiederne il pagamento, esso deve essere
effettuato:
Chi effettua
il
pagamento ha diritto alla consegna del titolo, e in possesso materiale
dello
stesso è dimostrazione, comunque, del pagamento avvenuto.
Non può
essere
effettuata, perché inutile, la richiesta di pagamento al
debitore fallito. Il
titolo potrà costituire comunque elemento per rivendicare il
credito nella
procedura concorsuale.
È un
impegno/promessa
di pagamento del debitore nei confronti del creditore. Su di essa
compare la
firma del debitore che riconosce incondizionatamente il suo debito
verso il
creditore, assumendosi così le obbligazioni imposte dalla legge
cambiaria.
La tavola
sinottica
dettaglia le caratteristiche della «cambiale
pagherò».
È
emessa dal creditore
che la firma: questo titolo di credito non può dimostrare
l'effettiva esistenza
di un debito del trassato (chi cioè riceve questo ordine di
pagamento) anche
se, nel caso di un pagamento con cordato di questo tipo, il creditore
appone
sulla «tratta» così
è comunemente
definito questo titolo i dati
relativi
all'emissione (in genere la fattura emessa a fronte della fornitura di
un bene
o servizio con numero e data).
È un
titolo di credito
anch'esso emesso dal creditore come la tratta semplice: la differenza
consiste
nel fatto che il debitore firma la tratta «per
accettazione» assumendosi così
l'onere del debito riconoscendolo incondizionatamente.
Agli effetti
pratici la
«tratta accettata» diviene una cambiale pagherò.
È un
titolo garantito,
gravando su di esso (art. 2381 c.c.) una ipoteca su beni (immobili o
mobili):
sulla cambiale possono essere riportati gli estremi della stessa
ipoteca.
La cambiale
non pagata
è soggetta (come l'assegno) ad essere «protestata».
Diverse le conseguenze,
però, a seconda che sia cambiale pagherò (o tratta
accettata) oppure cambiale
tratta.
Nel primo caso
il
protesto sarà pubblicato sul Bollettino anche se il pagamento
è avvenuto
successivamente al protesto stesso, che in questo caso
a differenza dell'assegno non
è reato penale.
Nel secondo
caso il
protesto non può essere applicato non essendo espresso, sul
titolo, il
riconoscimento del debito da parte del debitore.
Possono essere
intentate azioni per rivendicare il pagamento del titolo protestato:
II diritto,
comunque,
deve essere esercitato onde ottenere l'intera somma dovuta dal debitore.
Come si
può rilevare
dai facsimile pubblicati a pag. 106, lo stampato da utilizzare per
questo
titolo di credito è gravato da un «bollo» il cui
importo non può essere
inferiore al dodici per mille del valore
indicato sul titolo.
Per
esemplificare, la
cambiale e la cambiale tratta riportate in fac simile a pag. 106 hanno
un
«bollo» di lire 6.000 trattandosi di titolo emesso prima
dell'adozione
dell'Euro come moneta.
Su di essi,
però, è
stato sovrastampato il valore in Euro del titolo stesso, per cui il
valore
effettivo è di € 3,10.
Il titolo
(cambiale o
cambiale tratta) non potrà in questo caso essere utilizzato per
un valore
superiore a € 258,23 (pari al preesistente valore di lire 500.000).
Così,
se il valore
indicato sul titolo fosse di € 1000,00 il «bollo dovrebbe
essere di € 12 e così
via.
I diritti
cambiari,
spettanti al creditore per esercitare il proprio diritto di rivalsa si
prescrivono (perdono cioè validità legale) entro i
seguenti termini:
Le decorrenze
dei
termini sono altrettanto diverse:
Anche per i
termini
esistono varie situazioni; la loro decorrenza può essere:
Il fallimento
e le
altre procedure concorsuali
Il creditore,
per
conseguire ciò che gli è dovuto, può far
espropriare i beni del creditore o
anche i beni di un terzo che siano vincolati a garanzia del credito.
oggetto di
tale espropriazione è tutto il patrimonio del debitore: beni
immobili, mobili,
crediti e diritti di ogni genere, esclusi i beni elencati negli artt.
514 e 545
c.p.c.
Il creditore
non può da
solo soddisfare il suo diritto, ma dovrà rivolgersi ad
un'autorità superiore:
organo dell'esecuzione è lo Stato.
L’espropriazione
si
realizza attraverso tre fasi:
‑ il
pignoramento; ‑ la
vendita forzata (o l'assegnazione forzata);
‑
l'attribuzione del
ricavato al creditore o la distribuzione di esso fra i più
creditori
concorrenti.
Tali procedure
differiscono in relazione all'oggetto dell'esecuzione (per esse si
rinvia al
nostro volume di diritto processuale civile).
Un aspetto
più grave
assume la crisi dell'imprenditore commerciale, in quanto essa
coinvolge
una categoria abbastanza vasta di crediti e, di riflesso, si ripercuote
sull'economia generale, colpendo tutte quelle altre aziende titolari di
crediti
nei confronti dell'azienda insolvente. La legge, pertanto, tenuto conto
che
tutti i creditori che hanno fatto affidamento sulla proprietà
dell'impresa
debbono subire in egual misura le conseguenze della crisi economica
della
stessa, non consente azioni esecutive individuali, ma interviene
autoritativamente mediante una particolare procedura giudiziale,
sottoponendo
all'esecuzione l'intero patrimonio dell'impresa. Si ha, cosi,
l'applicazione
del principio della par condicio creditorum, e cioè un
egual regolamento
di tutti i rapporti che all'imprenditore fanno capo. Tale particolare
forma di
esecuzione collettiva, che ha lo scopo di liquidare l'attivo
dell'imprenditore
per soddisfare i suoi creditori, è detta procedura esecutiva
concorsuale o
fallimentare e si contrappone a quella singolare, che mira alla
soddisfazione di singoli crediti. L'esecuzione forzata che presenta le
citate
caratteristiche è quella che si attua attraverso le c.d.
procedure concorsuali,
che sono:
3. CARATTERI E
LIMITI
DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE
Con
l'espressione
fallimento si indica lo stato patrimoniale di un soggetto che non ha
più la
capacità obiettiva di far fronte puntualmente alle proprie
obbligazioni. La
procedura fallimentare riguarda tutti i beni del debitore e tutti i
creditori
e si basa sul principio paritario, per cui tutti i creditori debbono
essere
ugualmente soddisfatti, salve le cause legittime di prelazione.
Caratteri della
procedura fallimentare dunque sono:
-
l'universalità:
essa colpisce tutti i beni
del debitore;
-
la
concorsualità: è predisposta
nell'interesse di tutti quanti i creditori;
-
l'ufficialità:
essa, proprio perché tutela
un interesse collettivo, può essere iniziata anche di ufficio o
su iniziativa
del P .M., senza cioè impulso di parte.
Sono esclusi
dalla procedura fallimentare:
-
il piccolo
imprenditore;
-
l'imprenditore
agricolo;
-
gli enti
pubblici per i quali, però, è
prevista una procedura particolare ed in parte analoga al fallimento:
la
liquidazione coatta amministrativa;
-
le grandi
aziende in crisi: le aziende,
cioè, che si trovino nelle condizioni di cui al D.Lgs.8‑7‑1999,
n. 270.
4. PRESUPPOSTI
DEL
FALLIMENTO
I presupposti
del
fallimento sono di due specie:
‑ il
presupposto
soggettivo dato dalla qualità di imprenditore commerciale del
debitore;
‑ il
presupposto
oggettivo derivante dal suo stato di insolvenza.
Accanto a
questi due
presupposti, che potremmo definire positivi, devono però anche
concorrere altre
due condizioni negative, e cioè:
‑ che lo
stesso non
abbia fatto domanda di concordato preventivo o di amministrazione
controllata.
Esaminiamo di
seguito i
due «presupposti».
Può
essere dichiarato
fallito l'imprenditore commerciale, sia esso persona fisica sia
esso una
società. L’Art. 1 della legge fallimentare, escludendo dal
fallimento il
piccolo imprenditore, dichiara che: «in nessun caso sono
considerati
piccoli imprenditori le società commerciali». Nel caso di
imprenditore
individuale, fallisce colui che nella ditta spende il nome (si è
detto infatti,
che l'attività economica deve essere esercitata in nome
dell'imprenditore).
Da ciò
si desume che,
affinché ricorra il presupposto soggettivo richiesto dalla legge
fallimentare,
occorre che:
o
esista
un'impresa, ai sensi dell'art. 2082
c.c.;
o
l'impresa
stessa abbia carattere
commerciale, non sia cioè artigiana né agricola;
o
non sia
piccola, nel senso indicato dal 2°
comma dell'art.
o
sia imputabile
(riferibile) giuridicamente
al soggetto, nel senso che il soggetto che la gestisce abbia
capacità di agire
o, nel caso di incapace, vi sia stata l'autorizzazione all'esercizio
dell'impresa prevista dagli artt. 320, 371, 397 e 425 c.c. e che
l'impresa sia
esercitata dal soggetto in nome proprio.
È
soggetto a
fallimento, inoltre, ogni soggetto collettivo dotato di
autonomia
patrimoniale anche se privo di personalità giuridica, che
eserciti un'impresa
commerciale.
Sono pertanto
soggetti
al fallimento:
-
le
società commerciali (e non, dunque, le
società semplici);
-
le
associazioni o le fondazioni, che
svolgono attività commerciale;
-
i consorzi con
attività esterna.
Per
l’art.
Lo stato di insolvenza
è diverso dal semplice inadempimento: infatti, un
soggetto può non
adempiere ad una particolare obbligazione, perché ritiene di non
esservi tenuto
o anche per trascuratezza, senza che ciò comporli
automaticamente insolvenza.
Al contrario, può aversi stato d'insolvenza anche se
l'imprenditore paga i
debiti svendendo ad un prezzo vile i suoi beni, in quanto una vendita
rovinosa
aggrava solo la sua situazione economica ed è foriera
d'insolvenza.
Concludendo, lo stato d'insolvenza si riferisce non ad una singola
obbligazione,
bensì a tutta la situazione patrimoniale del debitore e non
consiste necessariamente
in una mancata prestazione.
Manifestazioni
dell'insolvenza possono considerarsi:
-
i reiterati
inadempimenti che
oggettivamente possono essere considerati grave indizio delle
difficoltà
finanziarie dell'imprenditore;
-
la fuga o la
latitanza dell'imprenditore
(art.
-
la chiusura
dei locali dell'impresa (art.
-
il
trafugamento o la diminuzione
fraudolenta dell’attivo (art.
-
il suicidio
dell'imprenditore;
-
eventuali
truffe etc.
Lo stato di
insolvenza
deve avere carattere permanente, non deve cioè consistere
in una «temporanea
difficoltà di adempiere», che legittima solo
1'amministrázione controllata non
anche il fallimento.
5.
La
dichiarazione di
fallimento può essere promossa (art.
-
su ricorso di
uno o più creditori.
-
su richiesta
dello stesso debitore.
-
su istanza del
P .M.
-
d'ufficio.
Competente
alla
dichiarazione di fallimento è il Tribunale del luogo ove
l'imprenditore ha
la sede principale dell'impresa
II Tribunale
può
rifiutare di emettere la dichiarazione di fallimento con decreto
motivato,
quando ritenga l'insussistenza dei presupposti richiesti dalla legge.
Se il
Tribunale,
invece, riscontra l'esistenza dei presupposti previsti dalla legge,
dichiara il
fallimento con sentenza.
L’art.
La sentenza
dichiarativa del fallimento ha contenuto complesso; essa infatti,
oltre a
dichiarare il fallimento del debitore, contiene:
o
la nomina dei
principali organi della
procedura (giudice delegato e curatore);
o
l'ordine al
fallito di depositare, nelle
24 ore, bilancio e scritture contabili;
o
la fissazione
di un termine ai creditori,
non superiore a 30 giorni, per presentare domande di ammissione al
passivo o
di rivendica;
o
la fissazione
della prima udienza di
verifica dei crediti, che deve avvenire entro 20 giorni;
o
eventualmente,
l'ordine di cattura del
fallito e degli altri responsabili, laddove sussistano reati
fallimentari.
La sentenza
è
provvisoriamente esecutiva. Nei 15 gg. dall'affissione della sentenza
che
dichiara il fallimento, possono
proporre
opposizioni
contro di essa il debitore e «qualunque interessato» (art.
La
dichiarazione di
fallimento, secondo la legge fallimentare, comporta quattro categorie
di
effetti che si riverberano:
‑ nei
confronti del
fallito;
‑ nei
confronti dei
creditori;
‑ sugli atti
pregiudizievoli ai creditori;
‑ sui rapporti
giuridici preesistenti.
In
particolare, nei
confronti del fallito, occorre distinguere fra effetti personali e
patrimoniali.
1) Effetti
personali nei confronti del fallito
In seguito
alla
dichiarazione di fallimento, il nominativo del fallito è
iscritto in un
pubblico registro (c.d. registro dei falliti) tenuto nella cancelleria
del
Tribunale. Fin quando non sia cancellata, per effetto della
riabilitazione,
tale iscrizione comporta determinate incapacità per il fallito
che importano:
-
la perdita
dell’elettorato attivo e
passivo;
-
la perdita
della capacità di esercitare
alcune professioni (avvocato, titolare di farmacia);
-
la perdita
della capacità di assumere
determinati uffici (tutore o curatore; giudice popolare; esattore delle
imposte; amministratore o liquidatore di società per azioni);
-
l'esclusione
dal frequentare sale di Borsa
per la negoziazione di titoli o merci.
La sentenza
dichiarativa di fallimento incide, inoltre, su due diritti civili
dell'imprenditore,
costituzionalmente
garantiti: il diritto di libertà e segretezza della
corrispondenza (art. 15
Cost.) ed il diritto di locomozione e soggiorno (art. 16 Cost.); per
effetto
del fallimento, infatti:
-
la
corrispondenza diretta al fallito è
consegnata al curatore, il quale ha diritto di trattenere quella
riguardante
interessi patrimoniali, ma deve conservare il segreto sul contenuto
estraneo a
detti interessi;
-
il fallito non
può allontanarsi dalla sua
residenza senza permesso del giudice delegato; deve presentarsi
personalmente a
questo, al curatore o al comitato dei creditori ogni qualvolta è
chiamato,
sotto pena di accompagnamento a mezzo della forza pubblica disposto dal
giudice
delegato e sotto minaccia di sanzione penale.
2) Effetti
personali in caso di fallimento di società
In caso di
fallimento di
imprenditore collettivo, gli effetti del fallimento (sopra delineati
per
l'ipotesi di imprenditore individuale), assumono aspetti particolari;
così, in
caso di fallimento di società:
-
restano in
carica gli organi sociali, che
esercitano quei poteri che la legge concede al debitore fallito;
-
ugualmente si
verifica la limitazione del
segreto epistolare;
-
le limitazioni
al diritto di locomozione e
soggiorno si verificano nei confronti degli amministratori o dei
liquidatori,
nonché dei direttori generali;
-
non possono,
naturalmente, verificarsi
tutte le incapacità che colpiscono la persona fisica, tuttavia
sono
ipotizzabili alcune incapacità per la società, quali
l'esclusione dagli appalti
per le opere pubbliche.
3) Effetti
patrimoniali nei confronti del fallito
In seguito
alla
dichiarazione di fallimento, il fallito viene spossessato dei suoi
beni, i
quali passano all'amministrazione del curatore, che li prende in
consegna. A
seguito di tale spossessamento il fallito è privato
dell'amministrazione e
della disposizione dei suoi beni che restano vincolati alfine di
garantire
un'equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l'esecuzione
forzata. Gli
atti compiuti dal fallito, pertanto, sono inefficaci nei confronti dei
creditori.
Lo spossessamento, tuttavia, non si estende a tutti i beni del fallito,
ma ne
restano esclusi:
-
i beni e i
diritti strettamente personali;
-
gli assegni
aventi carattere alimentare;
-
i frutti
derivanti dall'usufrutto legale
sui beni dei figli minori e dai beni costituiti in dote o in patrimonio
familiare;
-
le cose non
soggette a pignoramento per
disposizione di legge;
-
la casa di
abitazione, nei limiti
necessari al fallito ed alla sua famiglia.
4) Atti
compiuti
tra coniugi
Il coniuge di
un
imprenditore fallito difficilmente ignora lo stato di
difficoltà finanziaria
di questi. Partendo da tale presupposto il legislatore detta una
disciplina
alquanto rigida per:
-
gli atti di
disposizione conclusi fra il
fallito e il coniuge;
-
gli acquisti
effettuati dal coniuge del
fallito con terzi estranei.
Sotto il primo
profilo
gli atti sottoposti alla revocatoria fallimentare ai sensi
dell'art.
5) Effetti nei
confronti dei creditori
Detta l'art.
Effetto
fondamentale
della sentenza dichiarativa di fallimento, nei confronti di tutti
i creditori
del fallito, è il conferimento ad essi del diritto di
partecipare alla
distribuzione del ricavato dalla liquidazione del patrimonio del
fallito,
sulla base dell'importo del credito al momento della dichiarazione di
fallimento.
Il concorso
dei
creditori sui beni del fallito deve avvenire nel rispetto del principio
della
«par condicio creditorum» per cui, dichiarato il
fallimento, restano precluse
ai singoli creditori le azioni esecutive individuali sui beni del
fallito. Il
curatore del fallito, pertanto‑autorizzato dal giudice delegato‑deve
chiedere
al giudice dell'esecuzione che venga dichiarata improcedibile
l'esecuzione
forcata iniziata e che il ricavato dalla vendita di beni del
fallito‑debitore
sia attribuito alla massa fallimentare.
Il principio
della par
condicio, tuttavia, trova applicazione per i soli creditori
chirografari,
quei creditori cioè che non hanno alcun diritto di prelazione
sui beni del
debitore ed i cui crediti si fondano su un mero documento scritto
(contratto,
fattura etc.), ma non anche per i creditori privilegiati, cui fanno
capo cause
specifiche di prelazione, come ipoteca, pegno o privilegi.
Questi ultimi
‑ infatti
‑ fanno valere il loro diritto di prelazione sulla somma ricavata dalla
vendita
dei beni vincolati (per il capitale, gli interessi e le spese) e solo
allorché
non siano soddisfatti interamente con il valore realizzato da tali
beni,
diventano, per il residuo, creditori chirografari e concorrono con
costoro (per
la medesima percentuale) nelle ripartizioni del resto dell'attivo
(art.
Inoltre, la
regola
della cessazione del decorso degli interessi non trova
applicazione quando il
credito è assistito da ipoteca, pegno o privilegio speciale
(art.
6) Revocatoria
fallimentare
Nell’attivo
fallimentare rientrano non solo i beni appartenenti al debitore al
momento
della dichiarazione di fallimento, ma anche quei beni che hanno
cessato di
appartenere a lui anteriormente alla dichiarazione di fallimento e che
la
legge, ricorrendo determinati presupposti, ritiene opportuno
comprendere fra i
beni soggetti all'esecuzione collettiva.
Il mezzo
tecnico‑giuridico
attraverso cui attuare questo recupero di beni è l'azione «revocatoria
fallimentare», la cui finalità è di
ricostruire il patrimonio
dell'imprenditore fallito, rendendo inefficaci tutti gli atti compiuti
in precedenza
dallo stesso in pregiudizio ai creditori. A differenza della
revocatoria
ordinaria, la revocatoria fallimentare è preordinata alla
salvaguardia della «par
condicio creditorum » e si fonda sul presupposto che il
patrimonio del
debitore è destinato a soddisfare alla pari tutti i creditori.
Sul piano
degli effetti
la revocatoria fallimentare al pari della revocatoria ordinaria non
produce la
nullità degli atti di disposizione, ma semplicemente
l'inefficacia nei
confronti dei creditori. Il terzo che subisce la revocatoria
dovrà perciò
restituire al curatore quanto ricevuto dal fallito e sarà
ammesso al passivo
del fallimento se eventualmente vanti, per tale atto di disposizione,
crediti
nei confronti del fallito.
Quando gli
atti
dispositivi compiuti dal creditore non rientrano nelle categorie
di atti
sottoposti alla revocatoria fallimentare, al curatore rimane,
comunque, sempre
la possibilità di esperire la revocatoria ordinaria, ai sensi
degli artt. 2901
ss. c.c.
7) Effetti del
fallimento sui contratti in corso di esecuzione
II fallimento
non
determina mai la risoluzione dei contratti in corso di
esecuzione tra le
parti, ma solo lo scioglimento del rapporto in determinati
casi.
In particolare
è
opportuno fare una distinzione tra:
6. GLI ORGANI
PREPOSTI
AL FALLIMENTO
Con la
dichiarazione di
fallimento si apre la procedura concorsuale a carico dei beni del
fallito,
destinata a svolgersi attraverso una complessa serie di operazioni
demandate a quattro
organi, ciascuno dei quali è investito di speciali
competenze e di particolari
funzioni:
-
il Tribunale
fallimentare;
-
il giudice
delegato;
-
il curatore;
-
il comitato
dei creditori.
Tribunale
fallimentare
è lo stesso tribunale che ha dichiarato il fallimento, ed
è, in concreto,
l'organo investito dell'intera procedura concorsuale (art.
Spetta,
infatti, al
Tribunale:
-
nominare e
(eventualmente) sostituire il
giudice delegato ed il curatore;
-
risolvere le
disparità di vedute tra gli
organi anzidetti;
-
decidere sui
reclami contro i decreti del
giudice delegato;
-
chiedere
chiarimenti, informazioni ed
indicazioni al curatore, al fallito ed al comitato dei creditori.
Il Tribunale
fallimentare, oltre che organo preposto alla procedura fallimentare,
è anche
giudice naturale di tutte le cause che derivano dal fallimento;
detto
Tribunale adotta i propri provvedimenti con decreto motivato non
soggetto a
reclamo, salvo che per i provvedimenti che incidono su diritti
soggettivi, per
i quali è ammesso il ricorso in Cassazione.
Il giudice
delegato è l'organo
cui è affidata la direzione concreta della procedura
fallimentare; egli è,
infatti, «lato sensu», l'organo che dirige le
operazioni
fallimentari e vigila sull'attività del curatore.
In
particolare, il
giudice delegato (art.
-
riferisce al
Tribunale circa ogni
questione su cui deve pronunciarsi il collegio stesso;
-
emette i
provvedimenti necessari ed
urgenti in materia di amministrazione dei beni del fallito;
-
nomina e
convoca il Comitato dei
creditori;
-
autorizza il
curatore a nominare tutti
quegli ausiliari (es. periti, stimatori, avvocati etc.) che siano
necessari nel
corso della procedura;
-
provvede sui
reclami proposti contro gli
atti del curatore;
-
autorizza il
curatore a stare in giudizio
e a compiere gli alti di straordinaria amministrazione;
-
sorveglia
l'opera prestata nell'interesse
del fallimento da qualsiasi incaricato;
-
procede
all'esame preliminare dei crediti
e dei diritti reali vantati da terzi.
Si ricordi,
infine, che
tutti i provvedimenti del giudice delegato sono dati con decreto e
contro di
essi è ammesso il ricorso al Tribunale, da parte di qualunque
interessato (art.
II curatore
è l'organo
preposto alla procedura fallimentare che ha le mansioni più
complesse e varie;
il suo compito principale, tuttavia, consiste nell'amministrazione
dei beni
del fallito.
Il curatore
è nominato
dal Tribunale tra gli iscritti agli albi dei commercialisti, dei
ragionieri e
degli avvocati; può sempre essere revocato. Nell'esercizio delle
sue funzioni
il curatore è pubblico ufficiale (art.
Egli deve:
-
redigere la
prima relazione informativa
sul dissesto del fallito;
-
assistere il
giudice delegato nelle
operazioni di predisposizione dello stato passivo;
-
presenziare
all'udienza di discussione
dello stato passivo;
-
redigere
periodiche relazioni, per
informare il giudice delegato dell'andamento della procedura di
amministrazione
dei beni del fallito;
-
procedere alla
liquidazione delle attività
fallimentari, ai sensi dell'art.
-
presentare
ogni due mesi un progetto delle
somme disponibili depositate su tale conto ed, insieme, un progetto di
riparto
di tali somme fra i creditori ammessi definitivamente, riservando le
somme
spese per la procedura;
-
presentare il
rendiconto particolareggiato
della sua gestione, dopo avere compiuto la liquidazione dell'attivo e
prima del
riparto finale.
Contro gli atti
di
amministrazione del curatore, il fallito ed ogni altro
interessato ‑ come
su indicato ‑ possono reclamare al giudice delegato, che decide
con decreto
motivato poi soggetto a reclamo al Tribunale (art.
Il comitato
dei
creditori è organo collegiale che rappresenta i creditori del
fallito. Esso è
composto da tre o cinque creditori e nominato dal giudice
delegato. Il
comitato svolge funzioni prettamente consultive: deve essere ascoltato
in tutti
i casi previsti dalla legge (pareri obbligatori), e tutte le volte che
il Tribunale
o il giudice delegato lo ritenga opportuno (pareri facoltativi). I
pareri del
comitato non sono vincolanti; l'unico caso di parere vincolante
è quello
relativo all'autorizzazione per la continuazione provvisoria
dell'esercizio
dell'impresa del fallito (art.
Ciascun membro
del
comitato ha, inoltre, poteri di controllo su tutti i documenti del
fascicolo
ed ha, altresì, il diritto di essere informato specificamente su
tutte le
vicende del procedimento.
Il parere del
comitato
è sempre espresso collegialmente. Ai membri del comitato non
spetta alcun
compenso, ma solo il rimborso delle spese sostenute per l'adempimento
degli
obblighi del proprio incarico.
7.
La
complessità della
procedura fallimentare esige che la stessa si svolga attraverso fasi
successive
ben determinate, coordinate tutte insieme al raggiungimento del
medesimo fine.
Tali fasi, in
ordine
progressivo, sono le seguenti:
-
la
conservazione e l’amministrazione del
patrimonio del fallito;
-
l'accertamento
del passivo;
-
l’accertamento
dell'attivo;
-
la
liquidazione dell'attivo;
-
il riparto
dell’attivo;
-
la chiusura
del fallimento.
La prima fase
della
procedura fallimentare è diretta alla apprensione ed alla
conservazione del
patrimonio del fallito.
Le
attività
caratteristiche di tale fase sono:
-
l'apposizione
dei sigilli sui beni del
fallito, eseguita dal giudice delegato, nonché la descrizione in
un processo
verbale di tutti quei beni per i quali non è possibile
l'apposizione dei
sigilli. Restano, comunque, esclusi i beni dichiarati impignorabili
dagli artt.
514 e 515 c.p.c.;
-
l'inventario
dei beni, da effettuarsi ai
sensi degli artt. 518 ss. c.p.c. a cura del curatore ed alla presenza
eventuale
del fallito, previa rimozione dei sigilli e presa in consegna, da
parte del
curatore stesso, dei beni;
-
l'adozione dei
provvedimenti necessari ad
evitare il deterioramento o la perdita dei beni, ivi compreso
l'esercizio
provvisorio dell'impresa.
La
continuazione
dell'impresa del fallito ha carattere provvisorio ed è
consentita quando
dall'improvvisa interruzione può derivare un danno grave ed
irreparabile. In
tal caso il Tribunale, sentito il curatore, può autorizzare la
continuazione
temporanea dell'esercizio dell'impresa del fallito fino a che non sia
stato
costituito il comitato dei creditori ed abbia espresso il suo parere in
merito.
Con la presa
in
consegna dei beni il curatore subentra nell'amministrazione dei
beni del
fallito. Egli, pertanto:
-
può
compiere liberamente tutti gli atti di
ordinaria amministrazione. Il giudice delegato può
impartire direttive, mala
loro inosservanza non comporta nullità o
annullabilità degli atti, bensì
soltanto la possibilità di revoca del curatore;
-
può
compiere atti di straordinaria
amministrazione solo a seguito di autorizzazione del giudice
delegato.
La mancanza di
autorizzazione rende l'atto annullabile ad istanza degli organi
fallimentari.
Tale fase
serve ad
individuare i creditori ammessi al concorso: ammessi cioè a
partecipare, in
ragione dei propri crediti ed alla pari (salvo le cause legittime di
prelazione), al riparto dei beni del debitore. Essa ha inizio con le
domande di
ammissione al passivo che i creditori debbono presentare nel termine
fissato
dalla sentenza che dichiara il fallimento. La domanda di
ammissione al
passivo, peraltro, ha l'effetto di interrompere la prescrizione ed
eventuali
termini di decadenza.
Sulla base
delle
domande, il giudice delegato predispone lo stato passivo provvisorio
del
fallimento, ammettendo i singoli crediti con l'indicazione delle
relative
cause di prelazione riconosciute. Se il giudice ritiene di non dover
ammettere,
in tutto o in parte, un credito, dovrà sommariamente
indicare le ragioni; i
crediti condizionati o quelli per i quali non è stata esibita la
relativa
documentazione giustificativa possono essere ammessi con riserva.
È, altresì,
in tale fase che si accerta se vi sono atti assoggettabili alla
revocatoria
fallimentare, in quanto la relativa azione deve essere promossa dal
curatore
prima della chiusura della verifica, previa la necessaria
autorizzazione del
giudice. Cosi predisposto lo stato passivo viene depositato in
cancelleria e i
creditori possono prenderne visione. Seguono una o più
adunanze di verifica,
in cui ogni interessato può avanzare osservazioni e
deduzioni, presentare
ulteriori documenti giustificativi, chiedere nuove ammissioni di
crediti. Al
termine il giudice delegato redige lo stato passivo definitivo e lo
dichiara
esecutivo con proprio decreto. Da quel momento:
-
tutte le
ulteriori domande di ammissione
si considerano tardive e se il ritardo è dovuto a negligenza del
creditore egli
parteciperà solo al riparto dell'eventuale residuo attivo dopo
che siano stati
soddisfatti tutti i creditori intervenuti tempestivamente;
-
il fallito
può proporre il concordato
fallimentare;
-
il curatore
può procedere alla vendita di
beni compresi nella massa attiva.
Contro lo
stato passivo
possono essere proposte impugnazioni ed opposizioni:
-
le opposizioni
possono essere
proposte dai creditori esclusi alfine di ottenere l'ammissione del
proprio
credito o di una causa di prelazione non riconosciuta, nonché da
quelli ammessi
con riserva al fine di ottenere l'ammissione definitiva;
-
le impugnazioni
possono, invece,
essere proposte dai creditori ammessi alfine di ottenere l'eliminazione
dalla
massa passiva di uno o più creditori ammessi o il
disconoscimento di una causa
di prelazione. Entrambe devono essere proposte con ricorso al giudice
delegato
entro quindici giorni dalla ricezione dell'avviso che comunica loro il
deposito
dello stato passivo, vengono istruite dal tribunale e decise con
un'unica
sentenza sottoposta ai normali mezzi di gravame.
Accertato il
«passivo»,
si accerta lo stato attivo del fallimento, costituito da tutti i beni
del
fallito e da quei beni che, per effetto della revocatoria, sono
ritornati, ai
soli fini della procedura fallimentare, nel patrimonio del fallito.
Tale
accertamento si fa a mezzo della redazione dell'inventario e della
presa in
consegna dei beni inventariati da parte del curatore. L'attivo diventa
definitivo dopo che si sono esaurite le azioni revocatorie e le azioni
di
rivendica (proposte eventualmente dai terzi proprietari) sui beni del
fallito.
Con la liquidazione dell'attivo i beni del fallito vengono tramutati in
danaro,
ai fini del soddisfacimento dei creditori. La liquidazione ha inizio
dopo il
decreto che rende esecutivo lo stato passivo, in quanto è
tale decreto che
determina:
-
l’ammontare
dei crediti da soddisfare;
-
la misura
della liquidazione.
La
liquidazione, una
volta iniziata, può esser sospesa solo a seguito di
presentazione della domanda
di concordato. La liquidazione avviene attraverso vendite
giudiziarie,
effettuate sotto la direzione del giudice delegato, sentito il comitato
dei creditori
e con l'ausilio del curatore.
Effettuata la
liquidazione, si provvede ad attribuire il ricavato ai singoli
creditori.
Le somme
disponibili
debbono essere ripartite secondo il seguente ordine preferenziale:
-
le spese
incontrate nel corso della procedura
ed i debiti contratti dal curatore per la procedura stessa hanno
precedenza
assoluta (c.d. debiti di massa);
-
vanno poi
soddisfatti i creditori
privilegiati, secondo l'ordine previsto dalla legge;
-
infine si
provvede a soddisfare i
creditori chirografari in misura proporzionale all'ammontare del
credito di
ciascuno.
Il fallimento
si chiude
(art.
-
quando i
creditori non propongono domande
di ammissione al passivo, nei termini prescritti;
-
quando tutto
il passivo accertato a carico
del patrimonio fallimentare è stato saldato;
-
quando tutto
il patrimonio del fallito è
stato ripartito;
-
quando non
sono possibili ripartizioni per
mancanza di attivo.
Quando la
procedura è
stata chiusa per ripartizione finale dell'attivo o per mancanza di atti‑
vo, la legge
consente
che il fallimento si riapra quando non siano trascorsi cinque anni dal
decreto
di chiusura e nel patrimonio del fallito si rinvengano attività
tali da rendere
utile il provvedimento: la riapertura del fallimento può essere
chiesta da uno
o più creditori, ma non può essere disposta d'ufficio dal
Tribunale
fallimentare; ad essa, peraltro, possono accedere anche nuovi creditori;
-
nel caso in
cui venga stipulato il
concordato fallimentare.
Allorché
si verifica
una delle ipotesi anzidette la procedura fallimentare si arresta e si
avvia
all'emanazione del provvedimento di chiusura, qualunque sia la fase in
cui essa
si trovi. Con la chiusura del fallimento cessano dalle funzioni gli
organi
fallimentari, ed il debitore è reintegrato nei suoi diritti
patrimoniali; i
creditori riacquistano tutti i loro diritti nei confronti del debitore
per
ottenere l'eventuale parte dei propri crediti non soddisfatti per
intero.
Restano in vita, però, gli effetti personali in danno del
fallito, finché il
Tribunale non dichiari la sua riabilitazione.
8. IL
CONCORDATO
SUCCESSIVO O FALLIMENTARE
È una
particolare
chiusura del fallimento con la quale si realizza la soddisfazione
paritaria
dei creditori senza ricorrere alla fase della liquidazione
dell'attivo. Si ha
«concordato fallimentare» quando il debitore
propone il completo
pagamento dei crediti privilegiati ed il pagamento di una data
percentuale dei
crediti chirografari, e tale offerta, approvata dalla maggioranza dei
creditori, viene omologata dal Tribunale.
In particolare:
-
il fallito,
dopo che è stato reso
esecutivo dal giudice delegato lo stato passivo, può
proporre ai creditori il
concordato nei limiti sopra esposti, offrendo nel contempo idonee
garanzie per
il suo adempimento;
-
in seguito
alla proposta del fallito, il
giudice delegato deve sentire il curatore ed il comitato dei creditori,
il cui
parere è obbligatorio ma non vincolante. Se il giudice ritiene
conveniente la
proposta, ordina che questa venga comunicata a tutti i creditori,
fissando
loro un termine (non inferiore a 20 giorni e non superiore a 30) per
far
pervenire l’adesione al concordato stesso o il dissenso;
-
se il
concordato è approvato dai creditori
chirografari (non votano, ovviamente, i creditori privilegiati),
si apre il
giudizio di omologazione. A tal fine il Tribunale esercita un controllo
di
legittimità, sulle condizioni stabilite dalla legge per la
presentazione e
l'approvazione del concordato, ed un controllo di merito,
sull'opportunità e
sui vantaggi per i singoli creditori del concordato stesso. In
seguito a tale
duplice controllo, il Tribunale, con sentenza, può sia
omologare il concordato
che respingerlo nel qual caso prosegue la procedura fallimentare;
-
se il
concordato è omologato, la procedura
fallimentare si intende chiusa con il passaggio in giudicato della
sentenza di
omologazione;
-
il concordato
può essere risolto o
annullato:
-
è
risolto, se le garanzie promesse non
vengono date ovvero se gli obblighi assunti non sono adempiuti. La
domanda di
risoluzione può essere proposta dal curatore o da uno dei
creditori (art.
-
è
annullato, se si scopre che è stato
dolosamente esagerato il passivo ovvero sottratta o dissimulata una
parte
rilevante di attivo. Sia in caso di risoluzione che in caso di
annullamento del
concordato si riapre la procedura fallimentare.
La sentenza di
omologazione del concordato produce immediatamente due effetti:
-
vincola il
fallito (e il terzo garante o
assuntore) all'adempimento degli obblighi assunti;
-
rende
obbligatorio il concordato per tutti
i creditori anteriori all'apertura del fallimento, compresi quelli che
non
abbiano presentato domanda di ammissione al passivo (anche per mancata
conoscenza del fallimento).
Una volta
passata in
giudicato tale sentenza, il fallimento si chiude, con tutte le relative
conseguenze
e cioè:
‑ riguardo al
fallito:
-
ritornano allo
stesso i beni non
trasferiti all'assuntore o vincolati al concordato, con il riacquistato
pieno
potere di disporne;
-
cessa ogni
compressione della
legittimazione processuale attiva e passiva;
‑ riguardo ai
creditori:
-
il concordato
è, come detto, obbligatorio
per tutti: ammessi o non ancora ammessi;
-
le garanzie
offerte, però, non si
estendono ai creditori che non hanno ancora presentato domande di
ammissione;
-
i creditori
conservano le loro azioni per
il residuo credito non soddisfatto contro i coobbligati, i
fideiussori del
fallito e gli obbligati in via di regresso; ma non possono più
agire, contro il
fallito, per la parte non soddisfatta del loro credito (permane pero in
vita,
per il residuo, una obbligazione naturale a carico del fallito, per cui
se egli
paga spontaneamente, non può più chiedere la
restituzione).
9. IL
CONCORDATO
PREVENTIVO
Il concordato
preventivo è un mezzo che la legge accorda al debitore per
evitare la gravosa e
dannosa procedura fallimentare. Ad esso, infatti, si può
ricorrere solo prima
della dichiarazione di fallimento (da qui il nome) per evitare
la paralisi
che il fallimento determina nell'impresa del debitore con tutte le sue
dannose
conseguenze patrimoniali, personali e penali. II concordato preventivo
è un
accordo giudiziale fra debitore e creditori circa le modalità
con le quali
dovranno essere estinte tutte le obbligazioni, con una decurtazione non
inferiore ad una data misura stabilita per legge.
Presupposti
della procedura sono:
-
la
qualità di imprenditore commerciale del
soggetto (persona fisica o società);
-
lo stato di
insolvenza non ancora
giudizialmente accertato.
Requisiti
soggettivi di ammissibilità alla procedura sono:
-
l'iscrizione
dell'imprenditore nel
registro delle imprese almeno da un biennio; ‑ la regolare tenuta, da
almeno un
biennio, delle scritture contabili;
-
il non essere
stato dichiarato fallito o
ammesso ad altro concordato preventivo negli ultimi cinque anni;
-
il non esser
stato condannato per
bancarotta o reati contro il patrimonio, la fede pubblica, l'economia e
l'industria.
Requisito
oggettivo
di ammissibilità alla procedura è che il debitore offra
di pagare i debiti, per
l'intero ai creditori privilegiati e per una percentuale non inferiore
al 40%
ai creditori chirografari, con serie garanzie reali o personali
(concordato
remissorio); ovvero offra ai creditori tutti i suoi beni, la cui
valutazione
faccia presumere che i creditori stessi saranno soddisfatti in misura
non
inferiore a quella indicata (concordato per cessione dei beni).
La procedura
di
concordato preventivo si realizza mediante i seguenti organi:
-
il Tribunale
-
il giudice
delegato
-
il commissario
giudiziale
-
l'assemblea
dei creditori.
La procedura
di
concordato inizia con la domanda di ammissione, che consiste in un
ricorso
sottoscritto dall'imprenditore e diretto al Tribunale del luogo in cui
si trova
la sede principale dell'impresa. Il Tribunale, accertata la sussistenza
dei
requisiti, ammette il debitore alla procedura, con decreto, nominando
il
giudice delegato ed il commissario giudiziale, ordinando la
convocazione dei
creditori nei trenta giorni e stabilendo il termine, non superiore agli
otto
giorni, entro cui il debitore deve versare le somme che si presumono
necessarie
per far fronte alla procedura stessa. Alla deliberazione e
all'approvazione
della proposta di concordato è rivolta l'adunanza dei creditori.
Il Tribunale
controlla la legittimità ed il merito del concordato approvato
dai creditori e
se, sussistendo tutte le condizioni di legge, ritiene il concordato
opportuno e
conveniente, lo omologa con sentenza; altrimenti lo respinge
dichiarando
d'uscio il fallimento. Il concordato omologato è obbligatorio
per tutti i
creditori anteriori all'apertura della procedura: i crediti
chirografari
vengono così ridotti nella percentuale prevista.
Per effetto
del
concordato omologato:
-
il creditore
non perde l’amministrazione
dei suoi beni, mala
esercita sotto la vigilanza del
commissario giudiziale; egli può compiere tutti gli atti
relativi alla gestione
dell'impresa, ma deve essere autorizzato dal giudice delegato: la
mancata
autorizzazione comporta la inefficacia degli atti compiuti e la
dichiarazione
automatica del fallimento;
-
i creditori non
possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali contro il
debitore,
né acquistare diritti di prelazione;
-
i debiti
scadono tutti e
vengono computati, ai fini del concorso, secondo le 3 norme del
fallimento;
-
i contratti
in corso di
esecuzione mantengono la loro efficacia, a differenza di quanto accade
in caso
di fallimento.
Il concordato
può
essere:
-
risolto,
in caso di inadempimento degli obblighi con esso assunti;
-
annullato,
se sia scoperta una esagerazione dolosa del passivo o sottrazione o
dissimulazione dell'attivo.
Alla
risoluzione o
all'annullamento consegue la dichiarazione di fallimento, che deve
esser
pronunciala, d'ufficio, dal Tribunale contemporaneamente alla sentenza
che
annulla o risolve il concordato.
Con
l'amministrazione
controllata si concede al debitore in temporanea difficoltà
(non quindi,
in stato di insolvenza) la possibilità di evitare la
dichiarazione di
fallimento, sempreché esistano comprovate possibilità di
risanare l'impresa.
Anch'essa,
come il
concordato, è un accordo giudiziale con cui i creditori
concedono al debitore
una dilazione per l'estinzione integrale dei debiti, in un termine non
superiore a due anni, mentre l'impresa continua la sua attività
sotto la
gestione del debitore, controllata da un commissario e diretta dal
giudice.
L'amministrazione controllata, pertanto, a differenza del concordato
preventivo:
-
tende a
garantire il pagamento integrale
dei debiti, senza alcuna decurtazione;
-
comporta una
dilazione nel tempo dei
pagamenti stessi;
-
presuppone una
temporanea difficoltà
dell'imprenditore e la risanabilità dell'impresa e non un
più grave stato di
dissesto.
L’amministrazione
controllata, a differenza del concordato, non presuppone lo stato
di
insolvenza dell'imprenditore, ma una sua temporanea difficoltà a
far fronte ai
pagamenti. Mentre, infatti, l'insolvenza è una situazione
irreversibile, nel
senso che l'imprenditore non è più in grado
definitivamente di far fronte ai
propri debiti, la temporanea difficoltà è, invece, una
situazione reversibile,
nel senso che attualmente il debitore non può far fronte
regolarmente (cioè
puntualmente) ai propri creditori, malo potrà fare in seguito,
se gli viene
concessa una dilazione per superare la momentanea crisi.
Le condizioni
di
ammissibilità nonché la procedura sono sostanzialmente
identiche a quelle del
concordato preventivo.
Anche gli
organi sono
gli stessi del concordato preventivo ed hanno funzioni analoghe;
in più vi è
il comitato dei creditori, organo consultivo che assiste il commissario
giudiziale.
11.
Per
determinate
categorie dì imprese, la legge ha previsto una procedura in
parte analoga alla
procedura fallimentare, di competenza, però, delle
autorità amministrative che
sulle imprese stesse hanno la vigilanza: la liquidazione coatta
amministrativa.
Tali imprese,
a mero
titolo esemplificativo, sono:
-
le imprese di
assicurazione in genere
contro i danni e sulla vita; nonché le imprese di
capitalizzazione e gestione
fiduciaria (D.P.R. 13‑2‑1959, n. 449);
-
le imprese di
credito (L. 7‑3‑1938, n.
141);
-
le cooperative
esercenti attività
commerciale;
-
i consorzi di
cooperative ammessi ai
pubblici appalti e le associazioni di cooperative eretti in enti morali
(R.D.L.
13‑8‑1926, n. 1554);
-
le
società di intermediazione mobiliare
(D.Lgs. 23‑7‑1996, n. 415);
-
le
società di gestione dei fondi comuni di
intervento (L. 23‑3‑1983, n. 77); ‑ le società di investimento a
capitale
variabile (D.Lgs. 25‑1‑1992, n. 84).
La
liquidazione coatta
amministrativa non presuppone necessariamente lo stato d'insolvenza
dell'impresa, che può essere sottoposta alla procedura
anche in presenza di
irregolarità di funzionamento, o di violazioni di legge e di
norme
amministrative. Le singole leggi speciali dettagliano tassativamente le
varie
ipotesi. Regola generale è che la liquidazione coatta
amministrativa esclude il
fallimento. Vi sono, tuttavia, imprese per le quali le varie leggi
speciali
prevedono anche la possibilità, accanto alla liquidazione
coatta, del
fallimento; in tal caso vale il principio di prevenzione, e cioè
fra i due
istituti prevale quello che sia stato richiesto per primo (art.
Sono organi
della
liquidazione coatta:
‑ il
commissario
liquidatore.
Questi
è un pubblico
ufficiale che ha funzioni e poteri sostanzialmente analoghi a quelli
del
curatore fallimentare; ad esso infatti spetta:
-
amministrare
il patrimonio e gestire
l'impresa durante la liquidazione;
-
ricevere in
consegna il patrimonio sulla
base dell'inventario;
-
procedere alle
operazioni di liquidazione;
-
l'autorità di
vigilanza.
Tale organo
esercita le
stesse funzioni del giudice delegato e del Tribunale nel fallimento,
salvo
quelle affidate al commissario. In particolare:
-
nomina e
revoca il commissario
liquidatore;
-
autorizza il
liquidatore a compiere quegli
atti per i quali la legge richiede l'autorizzazione;
-
fissa le
direttive cui deve attenersi il
commissario;
-
sovrintende
alle operazioni di
liquidazione in senso stretto;
‑ il comitato
di
sorveglianza.
Tale comitato
è
costituito da tre o cinque membri scelti tra le persone esperte nel
ramo di
attività esercitata dall'impresa, possibilmente creditori ed
è organo
prettamente consultivo assolvendo ai compiti che nel fallimento
spettano al
comitato dei creditori (artt. 205, 206 e
La
liquidazione coatta
è disposta sempre dalla pubblica amministrazione, con decreto
che deve essere
inserito integralmente nella Gazzetta Ufficiale entro 10 giorni dalla
sua
emanazione.
-
l'accertamento
del passivo, che è compiuto
dal commissario liquidatore sulla base delle scritture contabili e
dei
documenti dell'impresa. Se in tale fase, sorgono controversie, la loro
risoluzione
è rimessa al Tribunale, nelle forme stabilite per le opposizioni
e le
impugnazioni dei creditori in sede di fallimento: si ha, così,
l'inserimento di
una vera e propria fase giurisdizionale nella fase prettamente
amministrativa
di accertamento del passivo, allo scopo di fornire una adeguata tutela
ai diritti
dei creditori opponenti e del debitore;
-
la
liquidazione dell’attivo, che spetta,
ugualmente, al commissario liquidatore, il quale ha tutti i poteri,
salvo il
caso di vendita in blocco di tutti i mobili o gli immobili, per la
quale
occorre il parere favorevole del comitato di sorveglianza e
l'autorizzazione
dell'autorità di vigilanza;
-
il riparlo
finale del ricavato è attuato
nei modi stabiliti dalla legge fallimentare: sono ammessi riparti
parziali.
La
liquidazione coatta
amministrativa produce, per espresso rinvio di legge, gli stessi
effetti del
fallimento salvo per quanto riguarda gli atti pregiudiziali ai
creditori e la
revocatoria fallimentare nonché per l'inapplicabilità
all'imprenditore messo
in stato di liquidazione delle incapacità personali di
diritto pubblico che
colpiscono il fallito e della relativa iscrizione nel registro dei
falliti.
L'amministrazione
straordinaria delle grandi imprese in crisi è stata
introdotta con il D.L. 30‑1‑1979,
n. 26, convertito nella L. 3‑4‑1979, n. 95 (c.d. Legge Prodi), e
successivamente integrato da numerosi interventi legislativi.
Quest'ultima
legge è stata poi abrogata e sostituita dal D.Lgs. 8‑7‑1999, n.
270.
La nuova
procedura
concorsuale è nata per realizzare finalità non
raggiungibili con le procedure
tradizionali, in quanto tende a conciliare il soddisfacimento dei
creditori
dell'imprenditore insolvente con il salvataggio del complesso
produttivo e del
livello occupazionale.
Il primo
aspetto sul
quale la nuova disciplina è intervenuta è quello che
riguarda i requisiti delle
imprese per poter accedere ai benefici di tale procedura. In
particolare è
necessario che le imprese non piccole e di natura privata:
‑ abbiano un
numero di
dipendenti pari o superiore a 200 unità (in luogo delle 300
richieste dalla
previgente normativa);
‑ che abbiano
una
esposizione debitoria pari almeno ai due terzi dell’attivo
patrimoniale e dei
ricavi provenienti dalle vendite e dalle prestazioni dell'ultimo
esercizio (in
precedenza il requisito dell'esposizione debitoria era stabilito
annualmente in
cifra fissa dal Ministero delle attività produttive); ‑ che per
esse venga
accertata, da parte del commissario giudiziale, sentito il Ministro
delle
attività produttive, la sussistenza di concrete
possibilità di recupero
dell'equilibrio economico.
Il
procedimento per
l'accertamento dei presupposti soggettivi ed oggettivi del nuovo
istituto è
delineato dalla legge con riferimento a quanto disposto dall'art.
-
nomina il
giudice delegato per la
procedura;
-
nomina uno o
tre commissari giudiziali, in
casi di eccezionale rilevanza e complessità della procedura;
-
ordina
all'imprenditore (se questi non vi
abbia già provveduto) di depositare entro due giorni in
cancelleria le
scritture contabili e i bilanci;
-
assegna ai
creditori e ai terzi che
vantano diritti reali mobiliari su beni in possesso
dell'imprenditore, un
termine non inferiore a 90 giorni e non superiore a 120 giorni dalla
data
dell'affissione della sentenza per la presentazione in cancelleria
delle
domande di ammissione alpassivo e di rivendicazione, restituzione e
separazione
delle cose mobili;
-
stabilisce il
luogo, il giorno e l'ora
dell'adunanza in cui, nel successivo termine di 30 giorni, si
procederà
all'esame dello stato passivo davanti al giudice delegato;
-
stabilisce se
la gestione dell'impresa
debba essere lasciata all'imprenditore insolvente o affidata al
commissario
giudiziale, fino a quando non si provveda alla dichiarazione di
apertura della
procedura di amministrazione straordinaria ovvero alla dichiarazione di
fallimento.
Il Tribunale,
con la
sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza (o con successivo
decreto)
adotta i provvedimenti conservativi opportuni nell'interesse della
procedura
(art. 21, D.Lgs. 270/ 1999). Contro la sentenza dichiarativa dello
stato di
insolvenza può essere proposta opposizione da qualunque
interessato, davanti
al Tribunale che l'ha pronunciata, nel termine di 30 giorni.
Sono organi di
amministrazione straordinaria:
a) Il Tribunale
Il Tribunale
dichiara
lo stato di insolvenza e adotta gli altri provvedimenti previsti dal
D.Lgs.
270/1999 in composizione collegiale. Il Tribunale che ha dichiarato lo
stato di
insolvenza è competente a conoscere di tutte le azioni che
ne derivano,
qualunque ne sia il valore, fatta eccezione per le azioni reali
immobiliari,
per le quali restano ferme le norme ordinarie di competenza. Appartiene
pure
alla competenza del Tribunale che ha dichiarato l'insolvenza la
cognizione
delle azioni revocatorie fallimentari proposte dal commissario
straordinario
ai sensi dell'art. 49, D.Lgs. 270/1999.
b) Il giudice
delegato
Il giudice
delegato
adotta i provvedimenti di sua competenza con decreti e questi sono
impugnabili
nei modi consentiti per i decreti del giudice delegato al fallimento
(art. 14,
D.Lgs. 270/1999).
c) Il
commissario
giudiziale
Il commissario
giudiziale, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni,
è pubblico
ufficiale. In caso di nomina di tre commissari giudiziali, gli stessi
deliberano a maggioranza. Il regime della responsabilità e
la possibilità di
revoca sono disciplinati con richiamo alle norme degli artt. 37 e 38,
1° e 2°
comma, L.F. Contro gli atti di amministrazione del commissario
giudiziale
chiunque vi abbia interesse può proporre reclamo al giudice
delegato, che
decide con decreto motivato, impugnabile alla stregua degli altri
provvedimenti emessi da tale organo (art. 17, D.Lgs. 270/1999).
L'apertura
dell'amministrazione straordinaria comporta il verificarsi di una serie
di
effetti nei riguardi dello stesso debitore assoggettato alla procedura,
dei
creditori, nonché relativamente ai rapporti giuridici
preesistenti. Nei
confronti del debitore il decreto che dispone l'amministrazione
straordinaria
determina:
-
la perdita
dell'amministrazione e della
disponibilità dei «beni esistenti»;
-
il venir meno
della capacità processuale
per ogni controversia relativa a rapporti di diritto patrimoniale
dell'impresa;
-
la cessazione
(o, secondo alcuni autori,
la sospensione) delle funzioni delle assemblee e degli organi di
amministrazione e di controllo delle società.
Per quanto
riguarda,
poi, gli effetti dell'apertura dell'amministrazione straordinaria
nei
confronti dei creditori, essi si sostanziano nel divieto di azioni
esecutive
individuali. La procedura di amministrazione straordinaria può
attuarsi
mediante un programma di cessione dei complessi aziendali, con
finalità
liquidatorie e della durata massima di un anno, oppure mediante un
programma di
ristrutturazione aziendale, con finalità conservative e
della durata massima
di due anni. In caso di esito negativo della procedura, alla scadenza
del
termine prestabilito ovvero in qualunque momento risulti che la
stessa non può
essere utilmente proseguita, il Tribunale dispone con decreto la
conversione
dell'amministrazione in fallimento.
In caso di
esito
positivo la procedura potrà concludersi:
-
con il
raggiungimento del fine, e cioè con
la ristrutturazione totale o parziale dell'impresa anche mediante
liquidazione
dei rami aziendali ritenuti secchi;
-
con la
ripartizione ai creditori delle
somme ricavate anche attraverso la cessione a terzi dei complessi
aziendali
risanati;
-
con un
concordato, proposto dagli
amministratori e deliberato dall'assemblea della società,
strutturato secondo
lo schema di cui all'art.
1. IL DIRITTO
DI
FAMIGLIA: GENERALITA’
Il diritto di
famiglia
comprende l'insieme delle norme che hanno per oggetto gli status
familiari
(coniuge, figlio, padre etc.) e i rapporti giuridici che si riferiscono
alle
persone che costituiscono la famiglia. Le relazioni che sorgono in tale
ambito
presentano caratteri del tutto particolari in quanto nella famiglia il
diritto,
più che tutelare esclusivamente l'interesse individuale dei
singoli componenti,
prende in considerazione l'interesse superiore dell'intero gruppo
familiare.
Ciò spiega perché il diritto di famiglia:
Dai rapporti
familiari
derivano, in capo ai componenti della famiglia, dei diritti soggettivi,
che
presentano caratteristiche del tutto particolari; tali diritti,
infatti, sono:
assoluti, indisponibili, imprescriltibili, personalissimi, oggetto di
una
particolare tutela penale (cfr. artt. 556‑574 c.p.), di ordine pubblico.
2.
Con la legge
19 maggio
1975, n. 151 il legislatore, rifacendosi al principio dell'uguaglianza
giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.), ha modificato la disciplina
relativa ai
rapporti familiari, abrogando numerose disposizioni del codice civile
in aperto
contrasto con
a)
la completa
parità giuridica (oltre che
morale) dei coniugi (art. 143 c.c.);
b)
il
riconoscimento ai figli naturali
riconosciuti di identici diritti successori rispetto ai figli
legittimi (art.
566 c.c.);
c)
un più
incisivo intervento del giudice
nella vita della famiglia (artt. 145 e
d)
la scomparsa
dell'istituto della dote e
del patrimonio familiare;
e)
l'istituzione
della comunione legale dei
beni fra i coniugi (art t. 159 ss. c.c.) come regime patrimoniale
legale della
famiglia (in mancanza di diversa convenzione);
f)
l'introduzione
della potestà genitoria
attribuita collettivamente e nella stessa misura ad entrambi i
genitori, in
luogo della patria potestà precedentemente attribuita
esclusivamente al padre;
g)
la
qualifica di erede, e non più di usufruttuario ex lege,
conferita al coniuge
superstite (artt. 581
ss. C.C.).
3. IL CONCETTO
DI
«FAMIGLIA»
Il codice
civile non dà
una definizione della famiglia.
Sotto il
profilo
storico nella società industriale si è avuto il tramonto
della ed. famiglia in
senso ampio (o famiglia parentale) progressivamente disintegratasi in
singoli
nuclei familiari per lo più costituiti da genitori e figli
minori. In tal modo
alla famiglia parentale si è venuta sostituendo la cd.
famiglia in senso
stretto (o famiglia nucleare).
Alla famiglia
fondata
sul matrimonio ‑ o famiglia legittima ‑ si contrappone la cd.
famiglia
naturale o di fatto, costituita da persone di sesso diverso che
convivono more
uxorio. La rilevanza giuridica di questa, tuttavia, è
discussa.
A tale
riguardo vanno
considerati tre aspetti:
a) i rapporti
tra i
conviventi di fatto: hanno, nel
nostro ordinamento, scarsa
rilevanza. Infatti, tra i conviventi di fatto non vi sono diritti e
doveri reciproci
alla coabitazione, all'assistenza morale e materiale, alla
fedeltà, così come
tra i coniugi: piuttosto, la reciproca assistenza materiale è
considerata
adempimento di un'obbligazione naturale e la collaborazione lavorativa
(non a
carattere subordinato) è assistita da presunzione di
gratuità;
b) i rapporti
tra i
genitori e i figli (cd. figli
naturali): sono equiparati a
quelli intercorrenti nella famiglia legittima. In particolare, i
genitori hanno
il diritto e l'obbligo di mantenere, istruire ed educare anche i
figli nati
fuori del matrimonio (art. 30 co. 1° Cost.);
c) i rapporti
con i
terzi: il familiare
di fatto, secondo un orientamento,
ha diritto al risarcimento dei danni nei confronti del terzo che
abbia
illecitamente causato la morte del convivente; a favore del convivente
di fatto
è prevista la successione nel contratto di locazione; il coniuge
divorziato
perde il diritto agli alimenti o al mantenimento se riceve assistenza
materiale
dal familiare di fatto.
4. CONIUGIO,
PARENTELA,
AFFINITÀ
Quanto ai
rapporti che
legano fra di loro i componenti della famiglia distinguiamo:
-
il rapporto di
coniugio,
che lega marito e moglie;
-
il rapporto di
parentela,
che costituisce, invece, un legame di sangue tra persone che discendono
da un
comune capostipite (genitori e figli, fratelli e sorelle, zii e nipoti
etc.)
riconosciuto fino al sesto grado. Il grado di parentela si calcola
contando le
persone fino allo stipite comune senza calcolare il capostipite.
Così, ad
esempio, i fratelli sono parenti di secondo grado [fratello, padre (che
non si
conta), fratello], i cugini di quarto grado [cugino, zio, nonno (che
non si
conta), zio, cugino]. Si distingue poi tra parentela in linea
relta (se le
persone discendono le une dalle altre, come padre e figlio) e parentela
in
linea collaterale (se le persone, pur avendo uno stipite comune, non
discendono
le une dalle altre, come i fratelli);
-
il rapporto di
affinità,
che lega tra loro il coniuge ed i parenti dell'altro coniuge
(così suocero e
genero sono affini di primo grado, il marito è affine di secondo
grado col
fratello di sua moglie e viceversa etc.). Nessun rapporto, invece, lega
gli
affini di un coniuge con quelli dell'altro coniuge (es.: consuoceri).
5. IL REGIME
PATRIMONIALE LEGALE E LE CONVENZIONI MATRIMONIALI
In seguito
alla riforma
del diritto di famiglia, che ha equiparato la posizione dei coniugi
anche sul
piano patrimoniale, il regime legale dei rapporti patrimoniali tra i
coniugi,
in mancanza di diversa convenzione, è costituito dalla
comunione dei beni
(detta comunione legale), che importa la contitolarità e la
cogestione dei
beni acquistati anche separatamente in costanza di matrimonio. La
legge,
tuttavia, ammette che i coniugi possano, mediante una apposita
convenzione,
accordarsi per un regime di separazione dei beni, di comunione
convenzionale
(il cui regolamento sia determinato convenzionalmente in maniera,
almeno
parzialmente, diversa da quello della comunione legale), ovvero per la
costituzione di un fondo patrimoniale, costituito da taluni
determinati beni
sui quali incombe un vincolo di destinazione.
I’autonomia
dei coniugi
incontra però i seguenti limiti:
-
il divieto di
derogare ai diritti e ai
doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio (art. 160 c.c.):
tale
divieto si riferisce specificamente ai doveri patrimoniali previsti
dagli artt.
143 c.c. (dovere di contribuire ai bisogni della famiglia), 147 c.c.
(dovere di
mantenere i figli) e 148 c.c. (dovere di concorrere al mantenimento dei
figli
in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la propria
capacità di
lavoro professionale o casalingo);
-
il divieto di
costituzione di dote (art.
166bis c.c.): è nulla ogni convenzione che tenda alla
costituzione di beni in
dote;
-
l'inderogabilità
in caso di modifica della
comunione legale, delle norme relative all'amministrazione dei beni
della
comunione e all'uguaglianza delle quote (cfr. Part. 210 c.c.).
Le parti
possono
derogare al regime legale di comunione mediante un negozio
giuridico, la
convenzione matrimoniale, che deve essere stipulata per atto pubblico a
pena di
nullità (art. 162 1° comma, c.c.). Le convenzioni possono
essere stipulate in
ogni tempo, anteriormente o successivamente alla celebrazione del
matrimonio, e
sono in qualsiasi momento modificabili col consenso di tutte le
persone che
sono state parti nelle convenzioni medesime o dei loro eredi e devono
essere
annotate a margine dell'atto di matrimonio. La scelta del regime di
separazione
può anche essere dichiarata nell'atto di celebrazione del
matrimonio.
6.
In mancanza di
diversa
convenzione, i rapporti patrimoniali tra i coniugi sono disciplinati
secondo le
regole della comunione legale.
Costituiscono oggetto
della comunione (artt. 177 e 178 c.c.):
a)
gli acquisti
compiuti dai due coniugi
insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli
relativi
ai beni personali;
b)
i frutti dei
beni propri di ciascuno dei
coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;
c)
i proventi
dell'attività separata di
ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non sono
stati
consumati;
d)
le aziende
gestite da entrambi i coniugi e
costituite dopo il matrimonio. Qualora si tratti di aziende
appartenenti ad
uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la
comunione concerne solo gli utili e gli incrementi;
e)
i beni
destinati all'esercizio
dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio, se
sussistono al
momento dello scioglimento della comunione (art. 178 c.c.); f) gli
incrementi
derivanti dall'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi
costituita prima del
matrimonio, se sussistono al momento dello scioglimento della comunione
(art.
178 c.c.).
Non cadono in
comunione
e sono beni personali di ciascun coniuge (art. 179 c.c.):
a)
i beni
acquistati dal coniuge prima del
matrimonio;
b)
i beni
acquistati successivamente al
matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di
liberalità o nel testamento non è specificato che
essi siano attribuiti alla
comunione;
c)
i beni di uso
strettamente personale di
ciascun coniuge (gli abiti, l'orologio, etc.) ed i loro accessori;
d)
i beni che
servono all'esercizio della
professione del coniuge (gli strumenti di lavoro, che possono essere
anche beni
immobili: si pensi infatti ad uno studio professionale), tranne quelli
destinati alla conduzione di un'azienda facente parte della comunione;
e)
i beni
ottenuti a titolo di risarcimento
del danno, nonché la pensione attinente alla perdita
parziale o totale della
capacità lavorativa;
f)
i beni
acquisiti con il prezzo del
trasferimento dei beni personali o col loro scambio.
L'acquisto di
beni
immobili o mobili registrati effettuato dopo il matrimonio
è escluso dalla
comunione ai sensi delle lettere c), d) ed f), quando tale esclusione
risulti
dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro coniuge.
L’amministrazione
del
patrimonio in comunione spetta ad entrambi i coniugi, in
applicazione del
principio di uguaglianza. Occorre però distinguere:
a) gli atti di
ordinaria amministrazione possono essere compiuti da ciascuno dei
coniugi
disgiuntamente: si tratta di quegli atti di utilizzazione,
conservazione o
manutenzione di beni che riguardano i bisogni ordinari della famiglia;
b) la
rappresentanza in
giudizio per gli atti di cui sopra è riconosciuta
disgiuntamente a ciascun
coniuge: anche uno solo di essi può validamente compiere gli
atti processuali;
c) gli atti di
straordinaria amministrazione (nonché la stipula dei contratti
con i quali si
acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in
giudizio per
le relative azioni) spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi,
salva la
possibilità, in caso di rifiuto del coniuge a prestare il
consenso, di
ottenere dal giudice l'autorizzazione al loro compimento, ove
risulti
necessario nell'interesse della famiglia o dell'azienda coniugale, o in
caso di
impedimento.
Gli atti
compiuti senza
il consenso necessario dell'altro coniuge sono: annullabili, se
concernono i
beni immobili o mobili registrati, ma l'azione di annullamento
può essere
proposta dal coniuge non consenziente solo entro un anno dalla data di
conoscenza; validi, se concernono beni mobili, ma è il coniuge
che ha agito
senza il consenso dell'altro ad essere tenuto a reintegrare lo
stato della
comunione.
La comunione
risponde
delle obbligazioni elencate all'ars. 186: i creditori possono
soddisfarsi sui
beni personali dei coniugi, in via sussidiaria, nella misura della
metà del
credito, se i beni della comunione sono insufficienti; i creditori
personali
dei coniugi possono soddisfarsi sui beni della comunione solo dopo aver
escusso
i beni personali, solo fino al valore del coniuge obbligato e solo dopo
che
siano stati soddisfatti i creditori della comunione.
7.
SCIOGLIMENTO DELLA
COMUNIONE
La comunione
legale si
scioglie in presenza di una delle seguenti cause:
a) in caso di
interdizione o inabilitazione di uno dei coniugi;
b) in caso di
cattiva
amministrazione;
c) quando uno
dei
coniugi non contribuisce ai bisogni della famiglia in misura
proporzionale
alle proprie sostanze e capacità di lavoro;
d) quando il
disordine
degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta
nell'amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi
dell'altro o
della comunione o della famiglia;
-
mutamento
convenzionale del regime
patrimoniale: quando, mediante convenzione i coniugi attuano un
regime
patrimoniale diverso dalla comunione;
-
pronuncia di
fallimento di uno dei coniugi.
L'azienda
coniugale può
essere sciolta per accordo dei coniugi, da stipulare con atto
pubblico a pena
di nullità (art. 191, 2° comma c.c.).
Verificatasi
una delle
cause anzidette, lo scioglimento produce i seguenti effetti:
-
fa cessare la
comunione legale;
-
conduce alla
divisione del patrimonio
comune.
La divisione
dei beni
della comunione legale si effettua ripartendo in parti uguali
l’attivo e il
passivo (artt. 194 e ss. c.c.).
8. I REGIMI
PATRIMONIALI CONVENZIONALI
I coniugi
possono,
mediante convenzione, modificare il regime della comunione legale,
dando luogo
ad una comunione convenzionale (v art. 210 c.c.). Le convenzioni
possono
escludere alcuni beni dalla comunione o includere dei beni che non
sarebbero
compresi nella comunione legale, purché non si tratti di beni di
uso personale
o beni che servono per la professione o beni ottenuti per
risarcimento del
danno o pensione. Possono, dunque, formare oggetto di comunione, per
effetto di
un contratto tra le parti, i beni acquisiti prima del matrimonio,
quelli
ricevuti in donazione o per successione e quelli acquisiti con il
prezzo del
trasferimento dei beni personali. Con la convenzione i coniugi non
possono
derogare le norme per l’amministrazione della comunione,
né evitare
l'uguaglianza delle quote relativamente ai beni che sarebbero oggetto
di
comunione legale.
I coniugi, con
espressa
convenzione, possono pattuire che ciascuno di essi conservi la
titolarità
esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Ciascun coniuge ha
il
godimento e l'amministrazione dei beni di cui è titolare
esclusivo e i redditi
derivanti da tali beni, se posseduti in regime di separazione,
sono attribuiti
esclusivamente al coniuge che ne risulta titolare. La scelta del regime
di
separazione che viene attuata con una convenzione.
I coniugi
possono
conferire dei beni immobili, mobili registrati ovvero dei titoli di
credito in
un fondo destinato a far fronte ai bisogni della famiglia. Il fondo
patrimoniale va costituito con atto pubblico e i beni che ne fanno
parte
possono essere:
-
di
proprietà di entrambi i coniugi;
-
di
proprietà in tutto o in parte di uno
solo di essi (il coniuge che costituisce il fondo patrimoniale
può riservarsene
la proprietà ovvero attribuirla volontariamente all'altro
coniuge);
-
di
proprietà di un terzo nel caso in cui
l'atto di costituzione sia stato compiuto da un terzo che si sia
riservata la
proprietà dei beni costituenti il fondo.
I frutti del
fondo,
comunque, devono essere impiegati per i bisogni della famiglia e
amministrati
secondo le regole della comunione legale (art. 168 c.c.). Dispone,
inoltre,
l'art. 170 c.c. che l'esecuzione forzata sui beni del fondo e sui
frutti di
essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva
essere stati
contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Per quanto
concerne
l'alienazione dei beni del fondo l'art. 169 c.c. distingue due ipotesi:
-
se vi sono
figli minori: è necessaria
l'autorizzazione del tribunale, da accordarsi solo in caso di
necessità od
utilità evidente;
-
se non vi sono
figli minori: l'alienazione
è subordinala solo al consenso di entrambi i coniugi, salvo che
i beni siano
stati già dichiarati alienabili all'atto della costituzione del
fondo patrimoniale.
LE SUCCESSIONI
PER
CAUSA DI MORTE E LE DONAZIONI
1. NOZIONE E
AMBITO DI
APPLICAZIONE
In generale,
si ha successione
in un rapporto giuridico quando questo, pur restando
inalterato
nei suoi
elementi oggettivi, viene trasmesso da un soggetto ad un altro. La
successione
comporta pertanto il subingresso di un soggetto ad un altro nella
titolarità di
uno o più rapporti giuridici: fermo il rapporto, ne muta il
titolare. In
particolare, la successione si qualifica mortis causa ‑
cioè a causa di
morte ‑ quando trova il suo presupposto essenziale e caratterizzante
nella
morte di un soggetto, nei cui rapporti si tratta di succedere. Il
principio
fondamentale è che, con la morte, i diritti patrimoniali di una
persona si
trasmettono (salvo eccezioni) ad altri soggetti. Costoro possono essere
designati o dal titolare del patrimonio (detto de cuius), mediante testamento
o dalla legge. Il fenomeno successorio non investe tutti i
rapporti
giuridici del defunto.
Formano
oggetto di
successione soltanto:
Tutti i
rapporti non
patrimoniali, sia personalissimi (es.: diritti della
personalità), che
familiari (matrimonio, potestà parentale) si estinguono con la
morte del
titolare.
2. SUCCESSIONE
A TITOLO
UNIVERSALE E A TITOLO PARTICOLARE: DISTINZIONE FRA EREDITA’ E
LEGATO
Si ha
successione a
titolo universale quando un soggetto (erede) succede indistintamente
nell'universalità o in una quota di beni (patrimonio ereditario)
da solo o in
concorso con altre persone. Si ha, invece, successione a titolo
particolare
quando un soggetto (legatario) succede in uno o più rapporti
determinati, che
non vengono considerati come quota dell'intero patrimonio (art. 588
c.c.).
L’erede, in quanto successore a titolo universale nei rapporti
attivi e passivi
del de cuius (in toto, o per quota), subentra al defunto anche nel
possesso,
fin dall'apertura della successione, con gli stessi caratteri che aveva
rispetto al defunto (buona o mala fede, vizi etc.: art. 1146, 1°
comma, c.c.).
II legatario, invece, non subentra nel possesso; inizia un nuovo
possesso al
quale può «unire quello del suo autore per goderne gli
effetti» (art. 1146, 2°
comma, c.c.) (accessione del possesso). L'erede, poiché subentra
nell'insieme
dei rapporti giuridici del de cuius, risponde dei debiti del defunto
anche coi
propri beni, salvo che abbia accettato con la formula del
beneficio
d'inventario.
Il legatario,
poiché
succede in uno o più determinati rapporti attivi, non è
tenuto a pagare i
debiti ereditari, a meno che il defunto non gli abbia posto a carico
espressamente il pagamento di qualche debito (in tal caso, però,
il legatario
non è vincolato al di là dei limiti del valore del legato
ricevuto). La
successione a titolo universale richiede un atto di volontà del
successore:
occorre, infatti, l'accettazione per l'acquisto dell'eredità
(art. 459 c.c.).
La successione a titolo particolare, invece, si realizza senza un
apposito atto
di volontà del destinatario dell'attribuzione, ed opera ipso
iure cioè di
diritto (salvo la possibilità di rinuncia).
3. IL
PROCEDIMENTO DI
ACQUISTO DELL'EREDITÀ
A) L'apertura
della successione (art. 456 c.c.)
L’apertura
della
successione segna il momento in cui il patrimonio del defunto
rimane privo del
titolare.
Essa avviene:
-
al momento
della morte del de cuius;
-
nel luogo in
cui il defunto aveva l'ultimo
domicilio (e non già nel luogo in cui è avvenuta la
morte).
La morte (sia
accertata
nei modi consueti che indiziariamente con la dichiarazione di
morte presunta)
costituisce pertanto l'evento fondamentale che dà luogo
all'apertura della
successione. Essa va intesa sia come momento cronologico al quale
si riporta
la successione, che come fatto giuridico cui la successione si
ricollega. Altro
presupposto essenziale dell'apertura della successione è la
sopravvivenza del
chiamato.
La vocazione
è una fase
del fenomeno successorio, più esattamente è il suo
fondamento: vocazione è,
infatti, la designazione del successibile.
La vocazione
può
aversi:
a)
per testamento,
ossia per atto di
volontà del de cuius, il quale dispone delle proprie sostanze
per il tempo in
cui avrà cessato di vivere (successione testamentaria);
b)
per legge,
quando, mancando il
testamento, l'eredità è devoluta ai soggetti indicati
dalla legge, ossia al
coniuge e ai parenti entro il sesto grado (successione legittima o
ab
intestato).
È
esclusa, pertanto, la
validità dei c.d.patti successori, cioè di patti con i
quali la persona:
a)
disponga o si
vincoli a disporre dei
propri beni, in vista della morte, a favore dell'uno o dell'altro
successibile
(patti costitutivi);
b)
disponga o si
obblighi a disporre con un
successivo negozio di diritti che eventualmente gli possono spettare su
una
futura successione (palli dispositivi);
c)
rinunzi o si
obblighi a rinunziare con un
successivo atto a successioni non ancora aperte (patti abdicativi).
C) La
delazione
(art. 457 c.c.)
La delazione
è l'attribuzione
(offerta), in favore del chiamato, del diritto a succedere, sul
fondamento della vocazione. Essa costituisce l'aspetto dinamico della
vocazione, normalmente coincidente con essa, tranne casi particolari.
La delazione
può
essere:
-
successiva
(c.d.devoluzione): se per effetto di un'unica chiamata, i due
soggetti sono
destinati a succedere l'uno dopo la morte dell'altro; è il
fenomeno che si ha
nella sostituzione fedecommissaria;
-
solidale: ciascun
successore è chiamato per l'intero, in concorso con altri;
è il fenomeno che si
ha nell'accrescimento;
-
condizionata:
se l'istituzione di erede è fatta sotto condizione sospensiva o
risolutiva (v
art. 633 c.c.); può farsi rientrare in tale ipotesi la delazione
nella
sostituzione ordinaria; ‑ indiretta: essa si ha nella rappresentazione;
infatti
il rappresentante acquista la medesima posizione del rappresentato.
A) Il diritto
di
accettazione (art. 459 c.c.)
Diritto di
accettazione
è il diritto del chiamato di acquistare l'eredità:
esercitando tale diritto il
semplice chiamato si trasforma in erede.
a)
Prescrizione e
decadenza del diritto di accettazione (artt. 480 e 481 c.c.)
La prescrizione
del diritto di accettazione è quella ordinaria decennale, il cui
termine
decorre dal giorno dell'apertura della successione (art. 480 c.c.). II
termine,
in particolare, è stabilito affinché non resti incerta
l'appartenenza dei
patrimoni. Ad esso si applicano i principi generali sulla sospensione e
sull'interruzione. La decadenza dal diritto di accettazione
(art. 481
c.c.) ricorre nel caso in cui l'Autorità Giudiziaria, su istanza
degli
interessati, abbia fissato un termine entro il quale il chiamato
avrebbe dovuto
accettare o rinunziare. Trascorso tale termine senza alcuna
dichiarazione, il
chiamato perde il diritto di accettare.
b)
Trasmissione del
diritto di accettazione (art. 479 c.c.)
Se il chiamato
all'eredità muore senza avere accettato l'eredità, il
diritto di accettare si trasmette
ai suoi eredi. Ciò, perché il diritto di accettare entra
a far parte dell'asse
ereditario del de cuius (trasmittente) e si trasmette come uno dei suoi
elementi. La differenza fra trasmissione del diritto di accettazione e
rappresentazione è nel fatto che: il rappresentante succede
direttamente al «de
cuius» e nulla rileva che il rappresentante sia indegno o
incapace a succedere
nei confronti del rappresentato ovvero abbia rinunziato alla sua
eredità;
l’rede del trasmittente, invece, succede direttamente al
trasmittente (e
mediatamente al de cuius), rendendosi necessaria, da parte sua,
l'accettazione
preventiva dell'eredità del trasmittente.
L’accettazione
è la dichiarazione
di volontà unilaterale del chiamato diretta
all'acquisto dell'eredità.
L'art. 459 c.c. dispone che l'effetto dell'accettazione risale al
momento in
cui si è aperta la successione. L’erede diviene titolare
del patrimonio
ereditario fin dal momento della morte del de cuius, anche se
l'accettazione
interviene in un momento successivo. L’accettazione non
può essere subordinata
a termine o a condizione, non può essere parziale (art. 475
c.c.) ed è
irrevocabile.
Quanto alle
modalità
l'accettazione può essere:
-
pura e
semplice: in tal caso produce i
seguenti effetti:
-
confusione tra
il patrimonio del defunto e
quello dell'erede;
-
responsabilità
«ultra vires» dell'erede
per i debiti ed i legati ereditari (l'erede, cioè, risponde dei
debiti e dei
legati ereditari anche se essi superano il patrimonio ereditario);
-
con beneficio
d'inventario.
Quanto alla forma,
l'accettazione può essere:
-
espressa: quando, in
un
atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato dichiara di
accettare
l'eredità ovvero assume il titolo di erede (art. 475 c.c.);
-
tacita: quando il
chiamato all'eredità compie uno o più atti che
presuppongono necessariamente la
sua volontà di accettare e che egli non avrebbe il diritto di
fare se non nella
qualità di erede (art. 476 c.c.), sempre che però egli
sia capace di agire
(es.: l'esercizio dell'azione di riduzione, la domanda giudiziale di
divisione
dell'eredità etc.);
-
presunta o
legale:
si ha quando il chiamato pone in essere atri di disposizione che
sono
considerati, con presunzione assoluta, atti di implicita
accettazione. Sono
tali le c.d.manifestazioni di volontà legalmente determinate
come, per esempio,
la donazione, vendita o cessione a vantaggio di uno o più
coeredi (art. 478
c.c.). Sono, invece, ipotesi di acquisto senza accettazione quelle
a seguito
di possesso dei beni ereditari senza redazione dell'inventario (art.
485 c.c.)
e di sottrazione di beni ereditari (art. 527 c.c.). Altro acquisto
senza
accettazione è quello da parte dello Stato quale ultimo
successibile del de
cuius.
C)
L'accettazione con beneficio d'inventario (artt. 484‑511 c.c.)
L'accettazione
con
beneficio d'inventario ricorre quando l'erede impedisce la
confusione tra il
suo patrimonio e quello del de cuius, per circoscrivere le conseguenze
economiche negative di una successione onerosa (cioè, di una
successione le cui
passività superino le attività) al solo patrimonio del de
cuius. In questo
caso, infatti, l'erede risponde delle obbligazioni trasmessegli dal de
cuius
solo nei limiti del valore del patrimonio ereditario.
L’accettazione
beneficiata è una facoltà per ogni chiamato, nonostante
eventuali divieti del
testatore (art. 470 c.c.). L'accettazione beneficiata costituisce,
invece, un
obbligo indefettibile per alcuni soggetti determinati dalla legge:
incapaci
assoluti e relativi (artt. 471 e 472 c.c.) e persone giuridiche (art.
473
c.c.).
Non soltanto
l'erede ha
interesse a mantenere distinto il patrimonio del defunto dal proprio.
Qualora
l'erede sia oberato di debiti, la confusione del patrimonio col suo
patrimonio
personale rappresenta infatti un evento pregiudizievole per i
creditori del
defunto, i quali sono costretti a subire, sui beni ereditari, la
concorrenza
dei creditori personali dell'erede. Per tutelare le loro ragioni,
nonché quelle
dei legatari, la legge (artt. 512 ss. c.c.) prevede il rimedio
della
separazione del patrimonio del de cuius da quello dell'erede. I
soggetti
legittimati a chiedere la separazione (c.d.separatisti) sono i
creditori del
defunto ed i legatari. La separazione ha per effetto l'attribuzione di
una
ragione di preferenza nel soddisfacimento sui beni ereditari, a favore
dei
creditori e legatari separatisti, nei confronti dei creditori
dell'erede e dei
creditori e legatari non separatisti. La separazione giova solo a chi
l'ha
promossa; il creditore separatista conserva, inoltre, la
possibilità di far
valere la sua pretesa anche sui beni personali dell'erede.
5.
La rinunzia
all'eredità
è un negozio unilaterale tra vivi, non recettizio, con il quale
il chiamato
dichiara di non voler acquistare l'eredità. È un vero e
proprio atto dismissivo
che ha per oggetto il diritto di accettare l'eredità. Con
quest'atto egli fa
cessare gli effetti della delazione verificatasi nei suoi confronti a
seguito dell'apertura
della successione e rimane, pertanto, completamente estraneo alla
stessa, con
la conseguenza che nessun creditore potrà rivolgersi a lui
per il pagamento di
debiti ereditari, né egli potrà esercitare alcuna azione
ereditaria o acquisire
alcun bene dell'asse.
Per ciò
che concerne
caratteri e forma si ricordi che:
-
la rinunzia
può farsi validamente solo in
un momento successivo all'apertura della successione, stante il
limite
dell'art. 458 c.c. (vedi ante) sul divieto dei patti successori;
-
la rinunzia
è atto solenne e, come tale,
deve risultare da una dichiarazione resa dal chiamato (o da un suo
rappresentante) ad un notaio o al cancelliere del Tribunale
territorialmente
competente ed inserita nel registro delle successioni;
-
la rinunzia
è actus legitimus: è, cioè,
invalida se fatta sotto condizione o a termine (art. 520 c.c.);
-
la rinunzia
non può essere parziale;
-
è
negozio limitatamente revocabile.
La rinunzia
è
revocabile, purché:
-
non sia
decorso il termine di prescrizione
del diritto (10 anni, ex art. 480 c.c.);
-
non vi sia
stata accettazione da parte di
altri eredi.
6. CONCETTO E
IPOTESI
DI SUCCESSIONE LEGITTIMA
L'espressione successione
legittima, o intestata, significa successione per volontà di
legge e non
per effetto di volontà privata espressa mediante testamento.
Presupposti
sono:
-
morte del de
cuzus senza testamento;
-
esistenza di
un testamento privo di
disposizioni patrimoniali, o nullo, o annullato, o revocato;
-
esistenza di
un testamento che dispone
solo per alcuni dei beni del de cuius: in questo caso, si avrà
coesistenza di
successione testamentaria e di successione legittima.
Sono
successori
legittimi: il coniuge, i discendenti (legittimi, legittimati, adottivi
e
naturali), gli ascendenti legittimi, i collaterali e gli altri parenti
fino al
sesto grado (art. 565 c.c.). Se questi successori mancano,
l'eredità è devoluta
allo Stato (art. 586 c.c.).
B) Successione
dei parenti legittimi (artt. 566‑572 c.c.)
Al padre ed
alla madre
succedono, innanzitutto, i figli legittimi e naturali in parti uguali
(art. 566
c.c.). Ai figli legittimi sono equiparati i legittimati e gli adottivi.
La
categoria dei discendenti esclude tutti gli altri parenti ad eccezione
del
coniuge.
Se non vi sono
discendenti, succedono i genitori, o gli ascendenti legittimi, o gli
adottanti:
in tal caso l'ascendente più prossimo esclude i remoti (es.: il
genitore
esclude il nonno). I genitori o gli ascendenti concorrono con il
coniuge
superstite e con i fratelli e sorelle del de cuius, escludendo
tutti gli altri
collaterali. I fratelli o sorelle unilaterali (consanguinei o uterini)
conseguono la metà della quota spettante ai germani (figli dello
stesso padre e
della stessa madre).
Si ricordi che:
-
consanguinei:
sono i fratelli nati dallo
stesso padre, ma da madre diversa;
-
uterini:
quelli nati solo dalla stessa
madre, ma di padre diverso.
Qualora
manchino le
suddette categorie di successibili, subentrano gli altri parenti fino
al sesto
grado (il più vicino esclude gli altri).
C) Successione
del coniuge superstite (artt. 581‑585 c.c.)
Il coniuge, in
particolare, può rivestire la qualifica di:
-
erede,
acquistando l'intera eredità,
quando il defunto non lasci figli, ascendenti o fratelli;
-
coerede,
quando concorre con i figli
legittimi, legittimati, adottivi o naturali del de cuius, con gli
ascendenti, o
con i fratelli del defunto.
Il divorzio fa
perdere
ai coniugi il reciproco diritto successorio, se la morte avviene
dopo
l'annotazione della relativa sentenza nei registri di stato
civile. Identici
effetti produce la separazione con addebito sempre che la sentenza
sia passata
in giudicato. La separazione coniugale, quando non è stata
addebitata al
coniuge superstite ex art. 151, 2° comma, c.c., con sentenza
passata in
giudicato, non importa diminuzioni di diritti successori. Nei casi di
divorzio
e di .separazione con addebito, al coniuge spetta un assegno vitalizio
commisurato
alle sostanze ereditarie ed alla qualità e al numero degli eredi
(legittimi),
se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a
carico
del coniuge deceduto (l'assegno non può mai essere superiore
alla prestazione
alimentare goduta) (art. 548 c.c. e L. 1‑8‑1978, n. 435).
D) Successione
dello Stato (art. 586 c.c.)
Il presupposto
di tale
successione è la vacanza dell'eredità, cioè
l'assenza di un successibile
appartenente alle categorie indicate innanzi che possa acquistare
l'eredità di
un defunto cittadino italiano. II fondamento, invece, risiede
nell'interesse
generale a che vi sia, in ogni caso, un titolare del patrimonio
ereditario, il
quale provveda all'amministrazione dei beni del de cuius ed al
pagamento dei
debiti ereditati, continuando così i rapporti patrimoniali che
facevano capo al
defunto.
Le
caratteristiche
della successione dello Stato, sono:
-
l’acquisto
dello Stato ha luogo di
diritto, senza necessità di accettazione per il solo fatto della
mancanza di
altro successibile e decorre dall'apertura della successione;
-
lo Stato
è l'unica figura di erede
necessario del diritto successorio italiano e, come tale, non
può rinunciare;
-
lo Stato non
risponde mai dei debiti
ereditari e dei legati oltre il valore dei beni acquistati.
7. NOZIONE E
CONTENUTO
DEL TESTAMENTO
II testamento
è
l'atto revocabile col quale taluno dispone, per il tempo in cui
avrà cessato di
vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse (art. 587
c.c.). Il
testamento è atto mortis causa, in quanto mira a disciplinare
situazioni che
sorgono per effetto della morte della persona ed è destinato ad
avere effetti
a causa della morte e dopo la morte.
È un
contenuto di
natura patrimoniale; sotto tale aspetto, il testamento può
contenere:
-
sia
l'istituzione di uno o più eredi, cioè
di soggetti che siano destinatari dei beni, a titolo universale;
-
che
l'attribuzione di uno o più legati.
Qualora questo sia l'unico contenuto del testamento, è la legge
che designa gli
eredi legittimi.
Il testamento
può
contenere anche disposizioni di carattere non patrimoniale (art.
587, 2°
comma, c.c.), destinate ad avere efficacia dopo la morte del loro
autore. Tali
disposizioni, che costituiscono il c.d.contenuto atipico del testamento,
sono efficaci
anche se
manchino disposizioni patrimoniali. Ad esempio, mediante testamento si
può riconoscere
un figlio naturale (in tal caso, il riconoscimento resta valido anche
se il
testamento è stato revocato: art. 256 c.c.), designare il tutore
per il proprio
figlio che resti orfano (v. art. 348 c.c.), riabilitare un indegno
(anche in
tal caso la revoca non toglie effetto alla riabilitazione) etc.
8. LE FORME
DEL
TESTAMENTO IN GENERALE
La legge
distingue i
testamenti in:
testamenti
ordinari:
che si dividono, a loro volta, in:
-
testamento
olografo;
-
testamento per
atto di notaio (che può
ancora essere pubblico o segreto);
testamenti
speciali
(artt. 609‑619 c.c.): sono forme particolari di testamento
pubblico
riconosciute solo per determinate situazioni o circostanze eccezionali:
testamenti redatti in occasioni di malattie contagiose,
calamità pubbliche,
infortuni; testamenti in navigazione marittima o aerea; testamenti
dei
militari o assimilati in tempo di guerra. L'efficacia dei testamenti
speciali è
limitata nel tempo; essi perdono efficacia dopo tre mesi dal ritorno
della
situazione normale.
A) Il
testamento
olografo (art. 602 c.c.)
È il
testamento
redatto, datato e sottoscritto di pugno del testatore:
costituisce, quindi, la
forma più semplice di negozio testamentario. I singoli requisiti
formali del
testamento olografo sono:
-
autografia:
il testamento deve essere interamente scritto a mano dal
testatore.
L’autografia è necessaria per stabilire
l'autenticità del documento; è perciò
invalido un testamento scritto a macchina o a stampatello, anche se sia
sottoscritto;
-
data:
l'indicazione
del giorno, mese ed anno, in cui il testamento fu scritto. Essa
può essere
sostituita da forme equipollenti (per es.: Natale 1986) e serve ad
accertare la
capacità del testatore nel momento della redazione e l'eventuale
revoca di
disposizioni incompatibili, nel caso di due o più
testamenti stilati dallo
stesso soggetto;
-
sottoscrizione:
ha, innanzitutto, la funzione di individuare il testatore, ma serve
anche ad
attestare che la volontà manifestata nello scritto è
divenuta definitiva. Essa
comprende di regola il nome e il cognome, ma è comunque valida
quando individua
con certezza la persona del testatore (es.: la firma «il tuo
papà» in un
testamento redatto in forma di lettera). La sottoscrizione deve
essere posta
in calce alle disposizioni: eventuali aggiunte non sottoscritte
sono perciò
prive di valore.
Se manca
l'autografia
(perché ad esempio il documento è stato redatto a
macchina o con l'intervento
anche parziale della scrittura di un terzo) ovvero la sottoscrizione,
il
testamento è nullo. Se, invece, manca la data (ovvero è
incompleta o
impossibile) il testamento è annullabile (art. 606 c.c.).
B) Il
testamento
pubblico (art. 603 c.c.)
Il testamento
pubblico è un documento redatto con le richieste
formalità da un notaio,
dopo che il testatore gli ha esposto le sue ultime volontà
davanti a due
testimoni: esso fa piena prova, fino a querela di falso, delle
dichiarazioni
del testatore. I requisiti formali del testamento pubblico sono:
C) Il
testamento
segreto (art. 604 c.c.)
Il testamento
segreto consiste nella consegna solenne di una scheda
contenente le
disposizioni testamentarie al notaio, che la riceve e la conserva tra i
suoi
atti. La scheda non deve essere necessariamente autografa (può
anche essere
scritta da un terzo), ma deve essere sempre sottoscritta dal testatore
o, se questi
non sa scrivere, deve dichiarare al notaio di aver letto il testamento
e di
approvarlo e la causa per la quale non ha apposto la firma. Il
testatore deve
consegnare la scheda, alla presenza di due testimoni, al notaio che, se
non
sigillata, provvede a sigillarla personalmente e redige o sullo stesso
involto
che contiene la scheda, o su un altro, appositamente preparato
l'atto di
ricevimento. L'atto di ricevimento deve essere sottoscritto dal
testatore, dai
testimoni e dal notaio.
9.
CAPACITÀ DI TESTARE
E DI RICEVERE PER TESTAMENTO
A)
Capacità ed
incapacità di testare (art. 591 c.c.)
Possono
disporre per
testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci di
testare. La
capacità di testare costituisce perciò la regola, mentre
i casi di incapacità
sono eccezionali.
Sono incapaci
di
testare:
-
il minore (chi
non ha compiuto gli anni
18);
-
l'interdetto
(giudiziale) per infermità di
mente;
-
colui che al
momento della redazione del
testamento era incapace di intendere e di volere (c.d.incapace
naturale).
In questi tre
casi il
testamento è annullabile su richiesta di chiunque vi abbia
interesse
(annullabilità assoluta) e l'onere di fornire la prova
dell'incapacità grava su
colui che, affermando tale incapacità, impugni il testamento.
La
capacità di ricevere
per testamento è più ampia della capacità di
ricevere per successione in
generale: infatti, possono essere chiamati a succedere per testamento
anche i
nascituri concepiti, le persone giuridiche, gli enti non riconosciuti.
I casi di
incapacità a
ricevere sono determinati da ragioni di incompatibilità tra
la qualità
d'istituito e la funzione esercitata nei confronti del testatore o la
partecipazione avuta in sede di formazione del testamento. Sono,
quindi, nulle
le disposizioni testamentarie a favore di:
-
tutore
(dell'interdetto o del minore), se
le disposizioni sono state fatte prima dell'approvazione del conto
della
tutela; ‑ notaio e testimoni intervenuti nel testamento pubblico;
-
persona che ha
scritto l’altrui testamento
segreto e notaio che abbia ricevuto lo stesso in plico non sigillato.
10.
PUBBLICAZIONE ED
ESECUZIONE DEL TESTAMENTO
La
pubblicazione del
testamento ha la funzione di rendere possibile la conoscenza del
contenuto di
esso da parte del chiamato alla successione e dei familiari del
defunto, ed
anche da parte dei creditori ereditari e dei creditori dell'erede,
a tutela
dei rispettivi diritti, nonché di renderne possibile
l'esecuzione.
a) Forme e
procedimento
di pubblicazione
La
pubblicazione del
testamento olografo: il I ° comma dell'art. 620 c.c. impone a
chiunque sia in
possesso del testamento olografo di un defunto di presentarlo ad un
notaio
alfine della pubblicazione, appena venga a conoscenza della morte
del
testatore. La pubblicazione del testamento segreto: il testamento
segreto deve
essere aperto e pubblicato dal notaio, appena gli pervenga notizia
della morte
del testatore. Tale pubblicazione ha luogo con le medesime
modalità relative
alla pubblicazione del testamento olografo. Il testamento pubblico, a
differenza degli altri, ha sempre valore di atto pubblico; non
è, quindi,
prevista per esso una pubblicazione in senso tecnico.
b)
Comunicazione dei
testamenti al Tribunale
Il notaio deve
trasmettere
alla cancelleria del Tribunale, nella cui giurisdizione si è
aperta la
successione, copia in carta libera dei verbali di pubblicazione del
testamento
olografo o segreto, nonché copia del testamento pubblico,
qualora di questo
tipo di testamento si tratti. Tale comunicazione rafforza la
pubblicità che
viene data al testamento, in quanto qualsiasi soggetto, anche se ignora
quale
notaio abbia proceduto alla pubblicazione, recandosi presso il
Tribunale del
luogo in cui è morta la persona della cui eredità egli si
interessa, può
prendere visione del suo testamento.
c)
Comunicazione agli
eredi e legatari
Il notaio che
ha
ricevuto un testamento pubblico, appena gli è nota la morte del
testatore, o ‑nel
caso di testamento olografo o segreto ‑ dopo la pubblicazione, comunica
l'esistenza del testamento agli eredi o legatari di cui conosce il
domicilio o
la residenza.
d) Iscrizione
nel
registro generale dei testamenti
La legge
25‑5‑1981, n.
307 all'art. 5 obbliga il notaio a trasmettere all'Archivio Notarile,
entro 10
giorni dalla redazione del verbale di pubblicazione, le informazioni
necessarie
per l'iscrizione nel R.G.T
Consiste nell'attuazione
della volontà testamentaria. II compito di eseguire le
disposizioni di ultima
volontà del de cuius è riservato normalmente
all'erede. La legge, però,
consente al testatore di nominare un esecutore testamentario (art.
700 c.c.),
il quale, in tal caso, prende il posto dell'erede nel curare
l'esecuzione di
tutte le clausole del testamento. Può avvenire, infatti, che il
testatore abbia
particolari ragioni di sfiducia nei confronti dell'erede istituito
soprattutto
quando l'interesse di quest'ultimo potrebbe essere in contrasto con
alcune
disposizioni a titolo particolare. L’esecutore nominato dal
testatore può anche
non accettare il suo ufficio. La dichiarazione di accettazione non
può essere
sottoposta a condizione o a termine (art. 702 c.c.). La durata
dell'esecutore
nell'ufficio è a tempo indeterminato; l'ufficio è
gratuito, tuttavia il testatore
può stabilire una retribuzione a carico dell'eredità.
I compiti
dell'esecutore sono diversi:
-
deve
amministrare la massa ereditaria
(art. 703 c.c.), prendendo possesso dei beni che ne fanno parte (tranne
che il
testatore non abbia espresso una contraria volontà);
-
ha la
rappresentanza processuale, attiva e
passiva, nelle azioni relative all'eredità (art. 704 c.c.);
-
ha
l’obbligo di far apporre i sigilli e di
far redigere l'inventario dei beni ereditari con particolari cautele
quando tra
i chiamati all'eredità vi sono minori, assenti, interdetti o
persone giuridiche
(art. 705 c.c.);
-
deve rendere
conto della sua gestione al
termine di essa, o, se questa si prolunga oltre l'anno dalla morte del
testatore, anche dopo un anno da questo evento, fermo restando
l'obbligo del
rendiconto finale (art. 709 c.c.).
11.
La successione
dei
legittimari è quella in favore di alcune categorie di
successibili, ai quali
la legge attribuisce il diritto intangibile ad una quota del
patrimonio
indipendentemente dalle disposizioni del testatore. La successione dei
legittimari è una specie di chiamata legale all'eredità,
che opera non in via
suppletiva ma in via correttiva di disposizioni testamentarie (e
più in
generale di attribuzioni a titolo gratuito) subordinatamente alla
iniziativa
del legittimario leso nei suoi diritti successori. Le norme sulla
successione
dei legittimari sono norme di ordine pubblico, quindi cogenti ed
inderogabili.
Esse, infatti,
per
assicurare la quota di loro spettanza (c.d.legittima o quota di
riserva) ai
legittimari, limitano il diritto di disporre del testatore, correggendo
o
neutralizzando l'effetto delle disposizioni testamentarie e delle
donazioni
fatte in vita; si tratta di norme eccezionali e quindi di stretta
interpretazione.
Sono
legittimari:
-
il coniuge
superstite;
-
i figli
legittimi (compresi i legittimati
e gli adottivi) ed i loro discendenti (in quanto succedono per
appresentazione);
-
i figli
naturali (o i loro discendenti);
-
gli ascendenti
legittimi.
L’azione
di riduzione è
l'azione che ha per scopo la reintegrazione della legittima, mediante
la
riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni
eccedenti la
quota di cui il testatore poteva disporre.
Soggetti
legittimati
all'azione di riduzione, sono:
-
il
legittimario leso;
-
il
legittimario pretermesso dal testatore:
l'acquisto della qualità di erede è appunto subordinata
all'esercizio
vittorioso della azione di riduzione;
-
l'erede del
legittimario (se il
legittimario muore prima di avere accettato l'eredità o vi
rinunzia: ossia per
trasmissione o per rappresentazione);
-
l'avente causa
del legittimario: ad es. il
compratore dell'eredità o cessionario di essa.
Se la domanda
di
riduzione è accolta, si procede in tal modo:
-
innanzitutto
si riducono le disposizioni
testamentarie proporzionalmente (tranne diversa volontà del
testatore);
-
successivamente
si riducono le donazioni,
cominciando dall'ultima che ha provocato la lesione e risalendo a
quelle precedenti.
L’azione
è soggetta
alla prescrizione ordinaria decennale, decorrente dall'apertura
della
successione. Dopo l'apertura della successione il legittimario
può rinunziare
all'azione di riduzione e l'atto è irrevocabile.
L'azione di
riduzione
non ha natura recuperatoria; l'effetto reale è, invece,
collegato all'azione di
restituzione. Il legittimario, che ‑ mediante l'azione di riduzione ‑
abbia
fatto dichiarare inefficace la disposizione lesiva, può
ottenere quindi la restituzione
dell'immobile oggetto di tale disposizione (art. 561 c.c.) e lo
riceve libero
da ogni peso o ipoteca.
Sono tenuti
alla
restituzione anche eventuali terzi acquirenti dell'immobile a
titolo
oneroso.Se oggetto delle disposizioni lesive sono beni mobili, si
reputano
salvi gli acquisti fatti in buona fede dal terzo possessore.
13.
Il legato
è una
disposizione mortis causa a titolo particolare, in base alla quale un
soggetto,
legatario, succede in uno o più rapporti determinati, che non
vengono
considerati come quota dell'intero patrimonio. Si ricordi, inoltre, che
si ha
sublegato quando il soggetto che è tenuto alla prestazione
oggetto del legato
è, anziché l'erede, un altro legatario.
È,
invece, prelegato il
legato del quale beneficiario sia uno dei coeredi. Costui,
pertanto, cumula (a
carico di tutta l'eredità) le due qualità di coerede e di
legatario. Eart. 661
c.c. dispone che il prelegato è considerato legato per
l'intero ammontare, che
grava su tutta l'eredità, e cioè anche sulla quota dello
stesso legatario
quale erede.
L’acquisto
del legato
ha luogo di diritto, senza che occorra accettazione (art. 649 c.c.):
pertanto,
a differenza che nell'acquisto dell'eredità, delazione ed
acquisto del diritto
coincidono logicamente e cronologicamente.
La rinunzia al
legato è
un atto abdicativo: infatti, opera rispetto ad un diritto già
acquistato e
porta, quindi, non ad un mancato acquisto, ma alla perdita di un
acquisto già
fatto. La rinunzia al legato non tollera l'apposizione né di
termini né di
condizioni (art. 520 c.c.).
14. COMUNIONE
E
DIVISIONE DELL'EREDITA
Si ha
comunione
ereditaria quando al de cuius succedono più eredi, i quali
diventano
comproprietari dei beni che fanno parte dell'eredità. Alla
comunione ereditaria
sono applicabili i principi sanciti in tema di comunione ordinaria.
Ogni coerede
può cedere
la propria quota, ma, comunque, deve notificare la proposta di
alienazione ed
il prezzo agli altri coeredi, i quali hanno il diritto, se a loro
conviene, di
essere preferiti a parità di prezzo (art. 732 c.c.) (c.d.diritto
di
prelazione). Se il coerede cede la propria quota a terzi e non compie
la
preventiva notificazione ai coeredi, questi hanno il diritto di
riscattare
dall'acquirente la quota alienata (c.d.retratto successorio).
B) La
divisione
(artt. 713‑768 c.c.)
La comunione
ereditaria
cessa con la divisione. In seguito alla divisione il diritto che ha
ogni
coerede su tutto il patrimonio ereditario in ragione di una quota
aritmetica,
si converte in diritto esclusivo su beni determinati. La divisione cui
non
partecipano tutti i coeredi è nulla.
Abbiamo i
seguenti tipi
di divisione:
-
divisione
amichevole o contrattuale, che
ha luogo, nell'esercizio del potere di autonomia privata, con le
modalità
stabilite dagli stessi coeredi, sulla base dell'unanimità dei
consensi;
-
la divisione
giudiziale (artt. 713 ss.
c.c.), che è quella deliberata ed attuata dall'autorità
giudiziaria quando,
mancando l'unanimità dei consensi, i coeredi (o un coerede)
abbiano promosso
l'azione di divisione ereditaria;
-
la divisione
testamentaria (art. 734
c.c.), che è quella operata personalmente e direttamente
dal testatore. Tale
divisione può comprendere anche la quota legittima, ma il
testatore deve
comunque rispettare i diritti dei legittimari. La divisione
testamentaria è
nulla quando il testatore nell'effettuarla abbia omesso qualcuno
dei
legittimari o degli eredi istituiti.
La divisione
contrattuale può essere impugnata per nullità. Il
contratto di divisione può
essere annullato per violenza o dolo, ad istanza di ciascuno dei
coeredi; è
esclusa, invece, l'azione di annullamento per errore (art. 761 c.c.).
Se per
errore sono stati omessi dei beni, vi è un apposito rimedio: il
supplemento di
divisione (art. 762 c.c.): se, invece, vi è stato errore nella
stima dei beni,
è prevista una particolare impugnazione: la rescissione per
lesione (art. 763
c.c.).
D) La
divisione
dei debiti e pesi ereditari (artt. 752‑756 c.c.)
a)
Divisibilità dei
debiti ereditari
Al riguardo si
deve
distinguere:
-
nei rapporti
interni,
cioè tra coeredi, vige il principio per cui i debiti
ereditari si dividono fra
di loro in proporzione della rispettiva quota ereditaria; è
fatta salva, però,
una diversa volontà del testatore che potrebbe addossare il
pagamento dei
debiti ad un solo coerede o ripartire l'onere dei debiti non
proporzionalmente;
-
nei rapporti
esterni,
cioè nei confronti dei creditori, opera in assoluto il
principio della
divisibilità: anche quando il testatore abbia previsto una
responsabilità non
proporzionale tra i coeredi, il creditore può chiamare in
giudizio ogni coerede
in proporzione alla sua quota.
b) Eccezionali
ipotesi
di indivisibilità dei debiti ereditari
Ricorrono
quando:
-
uno dei
coeredi possegga il singolo bene
oggetto del debito (art. 1315 c.c.);
-
l'oggetto del
debito sia indivisibile
(art. 1316 c.c.);
-
il debito sia
garantito da ipoteca gravante
su un bene ereditario; in tal caso sarà tenuto al pagamento quel
coerede cui è
toccato il bene gravato da ipoteca, salva l'azione di rivalsa.
c) La
divisibilità dei
pesi ereditari
Si definiscono
pesi
ereditari gli oneri che sorgono come effetto necessario dell'apertura
della
successione (imposta di successione; spese giudiziali di
inventario e di
divisione; spese funerarie etc.) ed i legati.
15.
La collazione
è
l'atto con il quale i figli o i discendenti legittimi,
legittimati, adottivi e
naturali, ed il coniuge del de cuius, che concorrono alla
successione, devono
conferire alla massa attiva del patrimonio ereditario tutti i beni che
sono
stati loro donati in vita dal defunto, in modo da dividerli con gli
altri
coeredi in proporzione delle rispettive quote.
La collazione,
dunque,
svolge la funzione di mantenere tra alcuni coeredi del de cuius quella
proporzionalità di quote che è stabilita nel testamento o
nella legge. La
collazione opera a favore solo degli stessi soggetti che vi sono
tenuti, non a
favore di eredi estranei. Essa può essere effettuata mediante il
materiale
conferimento alla massa ereditaria del bne avuto in donazione, oppure
addebitando alla propria quota il valore del bene ricevuto in donazione.
Oggetto della
collazione sono le donazioni dirette ed indirette. Non sono soggette a
collazione, tuttavia:
-
le spese di
mantenimento, educazione,
malattia;
-
le spese
ordinarie per abbigliamento,
nozze, istruzione artistica o professionale;
-
le
liberalità fatte in occasione di
servizi resi o in conformità agli usi;
-
le cose
donate, perite per causa non
imputabile al donatario; ‑ le donazioni di modico valore fatte al
coniuge (art.
738 c.c.).
16.
L’art.
769 c.c. definisce
la donazione come un contratto, col quale una parte (donante), per
spirito di
liberalità, arricchisce l’altra (donatario), senza
ricavarne un corrispettivo.
La donazione è caratterizzata da:
-
spirito di
liberalità del donante: esso
consiste nella coscienza di compiere un atto che arricchisce
gratuitamente il
donatario senza esservi tenuto, nemmeno in adempimento di un dovere
morale o
sociale;
-
arricchimento
del donatario (cioè
l'incremento del suo patrimonio) che può realizzarsi sia
disponendo a suo favore
un diritto (donazione reale) che assumendo verso di lui
un'obbligazione
(donazione obbligatoria).
Si ricordi
che, proprio
in considerazione di tale arricchimento, il donatario ha sempre
l'obbligo di
fornire gli alimenti al donante che in seguito venga ad averne bisogno,
purché
non si tratti di donazione rimuneratoria o di donazione obnuziale
(fatta, cioè,
in vista del futuro matrimonio). Il donatario, però, non
è tenuto oltre il
valore della donazione tuttora esistente nel suo patrimonio (artt.
437 e 438
c.c.).
17. IL
CONTRATTO DI
DONAZIONE
Quanto alla
capacità,
distinguiamo:
capacità
di donare:
-
per le persone
fisiche si richiede la
piena capacità di disporre. La donazione è atto
personale che non consente
rappresentanza: è ammessa solo la procura speciale con espressa
indicazione del
donatario e dell'oggetto della donazione (art. 778 c.c.);
-
per le persone
giuridiche, vi è capacità
se è ammessa dal loro statuto o dall'atto costitutivo;
capacità
di ricevere:
-
per le persone
fisiche non vi sono limiti
particolari (si ricordi che può farsi donazione anche in favore
di un
nascituro, sia pure non concepito, purché figlio di una
determinata persona
vivente al tempo della donazione: artt. 784 e 321 c.c.);
-
per le persone
giuridiche, si ricordi che
l'accettazione non è più subordinata
all'autorizzazione governativa (a seguito
dell'abrogazione dell'art. 17 c.c. effettuata dall'art.
Oggetto della
donazione
può essere qualunque bene che si trovi nel patrimonio del
donante: non può
essere un bene altrui, né un bene futuro (v art. 771 c.c.). La
donazione deve
essere fatta per atto pubblico, con la presenza di testimoni a
pena di nullità
(art. 782 c.c.), qualunque sia l'oggetto (mobile o immobile) della
liberalità.
Se, però, ha per oggetto cose mobili di modico valore (da
valutare anche in
rapporto alle condizioni economiche del donante), l'atto pubblico non
è necessario,
ma occorre l'effettiva consegna della cosa (art. 783 c.c.).
La disciplina
dell'invalidità diverge da quella stabilita per gli atti tra
vivi e si avvicina
a quella del testamento:
-
l'onere
illecito o impossibile
rende nulla la donazione se ne ha costituito il motivo determinante;
-
l'errore sul
motivo della donazione
è causa di annullabilità, se il motivo risulta dall'atto
e sia il solo che ha
determinato il donante a compiere la liberalità (art. 787 c.c.);
-
l'illiceità
del motivo rende nulla
la donazione quando il motivo è stato determinante (a compiere
la liberalità) e
risulta dall'atto (art. 788 c.c.);
-
la donazione
nulla è convalidabile
mediante conferma espressa o esecuzione volontaria, dopo la morte del
donante
(art. 799 c.c.).
18.
La legge
prevede che la
donazione possa revocarsi in presenza di due gravi ragioni:
-
ingratitudine
del donatario (art. 801
c.c.);
-
sopravvenienza
dei figli (art. 803 c.c.).
La revoca
è, quindi,
giustificata da motivi di ordine etico‑sociale.
Essa
rappresenta
l'esercizio del diritto potestativo di togliere efficacia alla
donazione, che
si attua con domanda giudiziale.
La sentenza
che
pronuncia la revoca condanna il donatario alla restituzione dei beni;
non
pregiudica, però, i terzi che hanno acquistato diritti
anteriormente alla
domanda di revoca, salvi gli effetti della trascrizione. Se il
donatario ha
alienato i beni, deve restituirne il valore con riguardo al tempo della
domanda. Si ricordi, infine, che la revoca per ingratitudine può
essere chiesta
entro un anno dal fatto (ingrato) o dalla notizia di esso; mentre la
revoca per
sopravvenienza di figli può essere chiesta entro cinque anni
dalla nascita
dell'ultimo figlio. Per ciò che riguarda, invece, la
riversibilità, essa
consiste nella possibilità da parte del donante di stabilire
nell'atto di
donazione che, qualora il donatario muoia prima di lui, i beni
donati tornino
a far parte del suo patrimonio. Il patto di riversibilità
risolve tutte le
alienazioni dei beni donati, che ritornano al donante liberi da
ogni
limitazione o peso.
I TRIBUTI NEL
SETTORE
IMMOBILIARE
L'imposta di
registro
ha origini molto antiche, essa nasce dall'esigenza sorta da parte
dello Stato
di attribuire data certa agli atti sottoposti a registrazione per
assicurare
la più totale intangibilità degli stessi.
Originariamente, dunque, veniva
considerata come una tassa corrisposta ogni qual volta l'atto
presentato per la
registrazione veniva annotato in un registro cronologico. Con l'andar
del tempo
si sono attenuati i motivi cosiddetti sociali del tributo, che
è venuto ad
acquisire, via via, natura di imposta, mentre è mutata
l'originaria natura
giuridica. Se infatti, formalmente rientra tra le imposte,
sostanzialmente ha
una natura promiscua. In alcuni casi, infatti, l'imposta di registro
è
applicata in misura proporzionale al valore dell'atto registrato
(configurandosi
come un'imposta), mentre in altri casi si applica in misura fissa (e,
pertanto,
si configura come una tassa). La struttura del tributo quale
risultò sin dalla
riforma, attuata nel 1972 col D.P.R. 634, e quale emerge dalla
disciplina del
vigente Testo Unico 26 aprile 1986, n. 131 prevede una duplice serie di
obblighi:
a)
sottoporre
alla formalità di registrazione gli atti scritti di qualsiasi
natura
(negoziale, amministrativa, giudiziaria), produttivi di effetti
giuridici, nonché
alcuni atti stipulati verbalmente che vanno sottoposti a registrazione
nei casi
e con criteri determinati dalla legge;
b)
pagare
il tributo liquidato
dall'ufficio.
Sarà
comunque l'ufficio
locale dell'Agenzia delle Entrate o l'ufficio del registro a
provvedere alla
registrazione di tali atti ed alla riscossione dell'imposta dovuta.
L'imposta di
registro è
un'imposta reale indiretta sugli affari. Essa colpisce con
aliquote, in
prevalenza proporzionali, la capacità contributiva che si
deduce da atti di
scambio della ricchezza, nonché da atti giuridici negoziali di
vario genere, in
occasione della loro registrazione che può essere obbligatoria o
volontaria.
La
registrazione può
essere:
a) a
termine fisso
se è stabilito un termine dalla formazione dell'atto entro cui
si è obbligati a
chiedere la registrazione. Tale termine é di 20 giorni per gli
atti formati in
Italia e di 60 giorni per gli atti formati alt éstero e di 30
giorni per gli
atti soggetti a registrazione telematica (atti relativi a diritti sugli
imponibili o autenticati da pubblici ufficiali) nonché per i
contratti di locazione
e atto di beni immobili).
Per gli atti
degli
organi giurisdizionali il termine è di 5 giorni da quello della
pubblicazione o
emanazione.
Una
novità è stata
introdotta, dalla L. 448/1998 per i contratti di affitto di fondi
rustici non
formati per atto pubblico o scrittura privata autenticata. Per questi,
infatti,
l'obbligo della registrazione può essere assolto presentando
all'ufficio del registro,
entro il mese di febbraio, una denuncia relativa ai contratti in essere
nell'anno precedente.
Sono soggetti
ad essa:
b) in caso
d'uso
se l'atto deve essere registrato quando viene depositato, per essere
poi
acquisito presso le cancellerie giudiziarie, o presso le pubbliche
amministrazioni.
Tuttavia se l'atto ha la forma di scrittura privata autenticata o atto
pubblico, la registrazione va fatta in termine fisso anche se
l'oggetto
dell'atto rientrerebbe tra le ipotesi di registrazione in caso d'uso.
Sono
soggetti a tale registrazione gli atti indicati nella parte 2' della
tariffa
allegata al Testo Unico, fra gli altri:
-
i contratti
di locazione di beni
immobili se non formati per atto pubblico o scrittura privata
autenticata di
durata non superiore a trenta giorni complessivi nell'anno;
-
i contratti
di lavoro autonomo;
-
le scritture
private non
autenticate se contengono disposizioni relative ad operazioni
sottoposte ad IVA
etc.;
In attuazione
di
direttive Comunitarie e per evitare la doppia imposizione la legge ha
sancito
il principio dell'alternatività dell'applicazione dell'imposta
di registro
rispetto all'IVA; gli atti soggetti ad NA vanno pertanto registrati
solo in
caso d'uso e scontano l'imposta di registro in misura fissa (art. 40,
D.P.R.
131/1986).
c) volontaria.
Gli atti per i quali non si è obbligati alla registrazione,
possono essere
ugualmente registrati dal soggetto. Per questi atti l'imposta di
registro è
determinata in misura fissa.
Soggetti
passivi
dell'imposta sono coloro che pongono in essere o che si
avvantaggiano
dell'atto soggetto a registrazione. Costoro, peraltro, sono i veri e
propri
debitori d'imposta, ma altri soggetti possono avere una serie di
obblighi sia
per la richiesta della registrazione che per il pagamento dell'imposta,
come
responsabili solidali con l'obbligato principale. Occorre dunque
distinguere i
soggetti obbligati a chiedere la registrazione ed i soggetti tenuti al
pagamento del tributo.
Obbligati a
chiedere la
registrazione sono:
a)
per gli atti
compiuti con l'assistenza di
un pubblico ufficiale (notaio, segretario comunale etc.): il pubblico
ufficiale;
b)
per gli alti
compiuti senza tale
assistenza o alt estero e per le scritture private autenticate: le
parti;
c)
per le
sentenze, i decreti e gli atti
giurisdizionali: i cancellieri e i segretari;
d)
per gli atti
da registrarsi d'ufficio: gli
impiegati dell'Amministrazione finanziaria e gli appartenenti al
corpo della
Guardia di Finanza;
e)
per le
operazioni di società o enti
esteri: i loro rappresentanti o responsabili.
Tenuti ai
pagamento del
tributo sono:
a)
le parti
solidalmente e chi si serve
dell’atto per richiedere un provvedimento all'autorità
giudiziaria;
b)
solidalmente
con le parli, ma
relativamente al pagamento dell'imposta principale (cioè quella
dovuta al
momento della registrazione) i pubblici ufficiali che hanno redatto
l'atto ed i
soggetti nel cui interesse fu richiesta la registrazione;
c)
chi ha
richiesto la registrazione per gli
alti registrati in caso di uso, o volontariamente;
d)
nei contratti
in cui è parte lo Stato,
obbligata al pagamento dell'imposta è unicamente l'altra parte
contraente; e)
negli atti di espropriazione o di trasferimento coattivo, l'ente
espropriante o
acquirente (che non sia lo Stato).
A seguito
dell'abrogazione dell'imposta sulle donazioni, ad opera della L.
383/2001, è
opportuno soffermarsi sulle nuove modalità di tassazione degli
atti che
contengono disposizioni e a carattere oneroso e a titolo gratuito. Per
i primi
si applicherà, infatti, semplicemente l'imposta di registro
mentre per i
secondi è necessario fare una distinzione:
o
se le
disposizioni a titolo gratuito
riguardano donazioni di beni e diritti a favore di soggetti diversi dal
coniuge, dai parenti in linea retta e dagli altri parenti fino al
quarto grado,
laddove la quota spettante ad ognuno superi i 180.759,91 euro si
applica
l'imposta di registro);
o
se, invece, le
disposizioni riguardano le
donazioni a favore del coniuge, dei parenti in linea retta e dei
parenti fino
al quarto grado, non si applica alcuna imposta.
Se invece
nell'atto è
inserita una disposizione onerosa di beni o diritti per i quali sono
previste
aliquote diverse, si applica l’aliquota più elevata, a
meno che non sia
stabilito un distinto corrispettivo per ogni singolo bene o diritto
(art. 23,
1° comma, D.P.R. 131/1986).
La base
imponibile è il
corrispettivo dichiarato nell'atto ovvero il valore venale dei beni o
dei
diritti che costituiscono l'oggetto dell’atto registrato.
In particolare
la base
imponibile è costituita:
In merito al
valore
venale l'art. 51 del Testo Unico ne fissa i criteri di
determinazione.
Innanzitutto si assume come valore venale quello dichiarato dalle
parti; in
mancanza o se superiore, il valore venale sarà dato dai
corrispettivi pattuiti.
Nel caso in
cui non si
potesse far ricorso a nessuno di questi due criteri di valutazione,
sarà
l'ufficio a determinare il valore venale. Per quanto concerne gli
immobili e le
aziende, l'Ufficio del Registro, qualora ritenga che il valore
venale dei beni
o diritti sia superiore a quello dichiarato provvede alla rettifica
mediante
notificazione di avviso entro due anni dal pagamento dell'imposta
principale.
L’ufficio, ai sensi dell'art. 52 del Testo Unico, non procede
alla rettifica se
il valore degli immobili è stato dichiarato in misura non
inferiore a 75 volte
il reddito dominicale risultante in catasto per i terreni, a 100 volte
il
reddito risultante in catasto per i fabbricati rientranti nelle
categorie A, B
e C (esclusi A/10 e C/1), a 50 volte il reddito catastale per i
fabbricati di
categoria A/10 e D, a 34 volte il reddito catastale per i
fabbricati
rientranti nei gruppi C/1] ed E. Peraltro ai sensi dell'art. 3, 51°
comma, L.
662/1996 per gli atti da registrare dal 1° gennaio 1997 e fino alla
data di
entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo i redditi dominicali‑ai
fini
dell'imposta di registro ‑vengono rivalutati del 25%. Anche per i
fabbricati la
legge di accompagnamento alla finanziaria
La legge
prevede due
tipi d'imposta di registro:
Mentre nel
primo caso
l'imposta colpisce gli atti in relazione al loro contenuto giuridico ed
economico, nel secondo, il tributo funziona ‑ conformemente alle sue
origini
storiche ‑ quasi come corrispettivo della prestazione pubblica della
conservazione nel registro. La tariffa allegata al D.PR. 131/1986
contiene
nelle parti 1° e 2a l’elencazione degli atti assoggettati a
tassa fissa e di
quelli assoggettati ad aliquota proporzionale. Sia l'imposta fissa
‑
attualmente l'imposta fissa è stata individuata nella misura
minima di 129,11
euro ‑che quella proporzionale, variano secondo la natura e il
contenuto degli
alti cui si riferiscono. Basti considerare, ad esempio, i trasferimenti
di
immobili, che hanno trovato sistematica ed organica collocazione
nell'art. 1,
parte 1 della Tariffa: l'aliquota varia dal 7% per i fabbricati, al 3%
per le
cessioni di beni di interesse storico, artistico, archeologico soggetti
alla
legge 1089/1939, al 15% per i terreni agricoli e relative pertinenze,
alla
misura fissa di 129,11 euro per i trasferimenti a favore dello Stato e
di enti
pubblici.
1) Acquisto di
prima casa, con caratteristiche
non di lusso (incluse le abitazioni rurali) da parte di un soggetto
privato con
agevolazioni
Venditore Privato |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
3% |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
- |
soppressa |
Venditore Costruttore |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
4% |
soppressa |
Venditore Impresa non
costruttrice |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
3% |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
- |
soppressa |
2) Acquisto di
casa di abitazione (non prima
casa), con caratteristiche non di lusso (incluse le abitazioni rurali)
da parte
di un soggetto privato senza agevolazioni
Venditore Privato |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
7% |
2% |
1% |
- |
soppressa |
Venditore Costruttore |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
10% |
soppressa |
Venditore Impresa non
costruttrice |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
7% |
2% |
1% |
- |
soppressa |
3) Acquisto di
casa di
abitazione con caratteristiche di lusso da parte di un soggetto privato
Venditore Privato |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
7% |
2% |
1% |
- |
soppressa |
Venditore Costruttore |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
20% |
soppressa |
Venditore Impresa non
costruttrice |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
7% |
2% |
1% |
- |
soppressa |
4) Acquisto di
immobile per uso diverso da civile
abitazione (Cat. A/10, B, C,D, E)
Venditore Privato |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
7% |
2% |
1% |
- |
soppressa |
Venditore Costruttore e
altra impresa |
I. di registro |
I. Ipotecaria |
I. Catastale |
IVA |
Invim |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
euro 129,11 |
20% |
soppressa |
L’imposta,
se non è
dovuta in misura fissa, viene liquidata dall'ufficio mediante
applicazione
delle aliquote alla base imponibile. Il pagamento deve essere
contemporaneo
alla registrazione: se manca, la presentazione dell'atto e la denuncia
del
contratto verbale si intenderanno omesse e scatteranno, per il
contribuente
inadempiente, le sanzioni relative. In pratica il contribuente, nel
produrre
gli atti per la registrazione, ottiene dall'Ufficio il calcolo
dell'imposta da
versare. Una volta effettuato il pagamento presso il concessionario
della
riscossione, ovvero un istituto di credito o uno sportello postale,
esibisce la
ricevuta all'Ufficio locale dell'Agenzia delle Entrate o all'Ufficio
del
registro che procede alla registrazione dell'atto. Solo per i contratti
di
locazione e affitto è prevista l'autoliquidazione dell'imposta a
carico del
contribuente. Oltre all'imposta principale, riscossa all'atto
della
registrazione e dovuta da chiunque sia obbligato alla registrazione
(salvo il
diritto di regresso nei confronti delle parti interessate), o richiesta
dall'ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in
sede di
autoliquidazione dell'imposta nei casi di registrazione telematica, la
legge
prevede altri tipi di imposta:
-
l'imposta
suppletiva,
richiesta successivamente alla registrazione, quando l'Ufficio
incorre in
errore od omissione sul calcolo dell'imposta dovuta;
-
l'imposta
complementare,
da applicarsi successivamente alla registrazione, perché
mancavano gli
elementi utili a determinare l’effettivo importo del tributo, o
perché la
liquidazione era sospesa per disposizione di legge.
Dall'1‑7‑2000,
le
procedure relative alla registrazione degli atti relativi a diritti
sugli
immobili, alla trascrizione, all'iscrizione e all'annotazione nei
registri
immobiliari, nonché alla voltura catastale, sono effettuate
attraverso
l'utilizzo di procedure telematiche. È quanto stabilisce,
infatti, il D.Lgs. 9/
2000 e il successivo D.M. 13‑12‑2000 con il quale è stato
approvato il modello
unico informatico, con l'obiettivo di snellire le procedure relative
agli atti
immobiliari riducendo le lungaggini burocratiche che hanno
caratterizzato gli
uffici del registro negli ultimi anni. Le richieste di registrazione,
le note
di trascrizione e d'iscrizione nonché le domande di
annotazione e di voltura
catastale, relative agli atti relativamente ai quali sarà
attivata la procedura
telematica, vanno presentate su di un modello unico informatico, da
trasmettere
telematicamente assieme a tutta la documentazione necessaria. Le
formalità di
rito dovranno essere espletate previo pagamento dei tributi dovuti in
base ad
autoliquidazione.
2. LE IMPOSTE:
IPOTECARIA E CATASTALE
Questi
tributi, in
origine assimilati alle imposte di registro, nel corso della loro
evoluzione
hanno assunto una configurazione autonoma. Sono connessi, in maniera
specifica,
alla pubblicità immobiliare e sono commisurati al valore dei
diritti
immobiliari cui si riferiscono. Quanto alla disciplina, sono quasi del
tutto
assimilati all'imposta di registro e l'unica novità
rilevante concerne la
previsione di una aliquota non proporzionale ma stabilita in
misura fissa per
gli atti già soggetti ad IVA. Le imposte ipotecaria e catastale,
istituite col
D.P.R. 26‑10‑1972, n.
Successivamente,
il
D.L. 155/1993 (convertito nella L. 243/1993) ha ulteriormente
apportato delle
innovazioni in materia disponendo l'aumento delle imposte fisse di
registro e
delle imposte ipotecaria e catastale. Da ultimo, Part. 16 della L.
537/1993 ha
ridisegnato (con effetti a partire dall'1‑1‑1994) la tabella allegata
al Testo
Unico.
L’imposta
ipotecaria
è collegata allo svolgimento delle formalità relative
all'attuazione della
pubblicità immobiliare, per cui, oggetto del tributo sono le
formalità di
trascrizione, iscrizione, rinnovazione, cancellazione da eseguirsi
presso le
Conservatorie dei registri immobiliari. Per le trascrizioni, la base
imponibile
è commisurata a quella determinata ai fini dell'imposta di
registro o
dell'imposta sulle successioni e donazioni. Per quanto concerne le
iscrizioni e
rinnovazioni, nel determinare la base imponibile, si tiene conto del
capitale e
degli accessori per i quali è iscritta o rinnovata l'ipoteca.
L’aliquota
dell'imposta
ipotecaria può essere, secondo gli atti, proporzionale o
fissa. L’aliquota
d'imposta, è stata determinata nella misura fissa di 129,11 euro
o
proporzionale, variabile dallo 0,50% al 2%. I soggetti passivi sono gli
stessi
soggetti obbligati al pagamento dell'imposta di registro o che
erano obbligati
al pagamento dell'imposta sulle successioni, vale a dire i
pubblici ufficiali
che hanno ricevuto o autenticato l'atto soggetto a trascrizione e
coloro che
richiedono le formalità oggetto dell'imposta. Sono anche
obbligati solidalmente
tutti coloro nel cui interesse è stata fatta la richiesta,
inoltre sono
obbligati i debitori contro i quali è stata iscritta o rinnovata
l'ipoteca nel
caso di iscrizione e di rinnovazioni.
L’imposta
catastale
colpisce l'esecuzione delle volture catastali e quindi i trasferimenti
di tutti
i beni inseriti nel catasto.
Il processo di
assimilazione alle imposte di registro è, per l'imposta
catastale, ancor più
netto che per l'imposta ipotecaria. Prova ne è che sia il D.P.R.
635/1972,
istitutivo di esse, sia il D.Lgs. 347/1990, rinviano interamente alle
disposizioni in materia di imposta di registro, per quanto concerne
l'accertamento
e la riscossione dell'imposta catastale.
L’imposta
catastale è
commisurata al valore dei beni immobili rustici ed urbani accertato
agli
effetti delle imposte di registro o di quelle sui trasferimenti a
titolo
gratuito. L’aliquota risulta essere attualmente del 10 per mille.
Per alcuni
atti l'imposta è invece determinata nella misura fissa di
129,11 euro. Sono
soggette all'imposta fissa le volture in dipendenza di atti che non
comportano
trasferimenti di immobili o di diritti reali immobiliari, di atti
di fusione
di società, di conferimenti di aziende o di complessi aziendali,
di atti
soggetti all'imposta sul valore aggiunto e di atti di
regolarizzazione di
società di fatto. inoltre, con il collegato fiscale 2000 (L.
342/2000) è stato
stabilito che le imposte ipotecaria e catastale sono applicate in
misura fissa
anche per i trasferimenti di immobili non di lusso e per la
costituzione o il
trasferimento di diritti immobiliari relativi alle stesse, derivanti da
successioni o donazioni sempreché sussistano in capo al
beneficiario i
requisiti previsti per l'acquisto della prima abitazione a norma
dell'art. 1,
1° comma, della tariffa, parte prima, del D.PR 131/1986 in materia
di imposta
di registro.
L’accertamento
e la
riscossione vengono effettuate presso il concessionario, nella cui
circoscrizione ha sede l'ufficio finanziario competente, o gli istituti
di
credito. Le tasse ipotecarie vengono invece versate mediante conto
corrente postale;
solo in alcuni casi, sono competenti le Conservatorie dei registri
immobiliari
nella cui circoscrizione sono situati i beni (per le
formalità relative ad
atti che non importino trasferimenti di immobili o trasferimenti o
costituzioni
di diritti reali su tali beni).
L’art.
11 del D.L.
79/1997 ha introdotto, a decorrere dal 29‑3‑1997, il meccanismo di
autoliquidazione per le imposte ipotecaria e catastale, per il bollo e
per
l'imposta sostitutiva dell'INVIM. Il versamento va effettuato mediante
delega
bancaria ovvero direttamente al concessionario per la riscossione
entro 6 mesi
dall'apertura della successione. Il prospetto di liquidazione delle
imposte va
allegato alla denuncia di successione. Per le successioni aperte prima
del 29‑3‑1997,
è prevista l'applicazione di un regime transitorio in base al
quale si
applicano regole diverse secondo che a tale data sia stata effettuata o
meno la
liquidazione. Da ultimo, con l'introduzione del modello unico
informatico,
attraverso il quale vanno presentate le richieste di registrazione, le
note di
trascrizione e di iscrizione nonché le domande di annotazione e
di voltura
catastale, è prevista l'autoliquidazione dei tributi di cui
sopra per poter espletare
telematicamente le suddette formalità.
L'imposta
sulle
successioni e sulle donazioni era disciplinata nel D.P.R.
26‑101972, n. 637,
ed in alcune leggi modificative ed integrative. L’intera
normativa è stata,
successivamente, raccolta nel Testo Unico che accorpa tutte le
disposizioni in
materia e che è stato approvato con decreto legislativo
31‑10‑1990, n. 346. Il
tributo in esame colpiva, secondo quanto enuncia l'art. 1 del D.Lgs.
346/ 1990,
i trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte ed i
trasferimenti a titolo gratuito di beni e diritti tra vivi. Il Testo
Unico in
parola è stato più volte modificato fino all'emanazione
della L. 342/2000 che
aveva fortemente modificato le imposte in esame prevedendo
l'abolizione della
quota d'imposta commisurata al valore globale netto dell'asse
ereditario,
stabilendo che la franchigia andasse riferita alle singole quote
ereditarie,
innalzando in certi casi tale franchigia da 350 milioni a 1 miliardo di
lire e
stabilendo aliquote molto più basse che in passato, non
più a carattere
progressivo. Tuttavia la riforma operata dalla L. 342/2000 è
stata ritenuta
insufficiente: di conseguenza si è giunti con gli artt. 14‑17
della L. 383/2001
alla soppressione delle due imposte.
Prima di
esaminare le
innovazioni introdotte dalla L. 383/2001 per quanto attiene alle
imposte dovute
dai contribuenti in caso di successione o donazione, è opportuno
fornire
qualche cenno sul precedente meccanismo operante per effetto delle
modifiche
introdotte dalla L. 21‑11‑2000, n. 342. Per le successioni, la norma
tributaria
collegava il presupposto d'imposta alla semplice apertura della
successione, a
prescindere dall àccetlazione dell'eredità, o del legalo
da parte dell'erede o
legatario. In quest'ottica, venivano considerati eredi ‑ a differenza
di quanto
previsto dalle norme civilistiche ‑lupi i chiamati che non avevano
rinuncialo
all'eredità. Per le donazioni, il presupposto era costituito
dalla stipula
dell’atto, mentre, per le dichiarazioni di assenza esso
consisteva
nell'immissione nel possesso lemporaneo. Infine, per la morte presunta,
il presupposto
poteva essere costituito dall'immissione nel possesso dei beni o in
mancanza di
questo dall'eseguibilità della sentenza di morte presunta. I
soggetti passivi
erano gli eredi (o meglio i chiamati all'eredità), i legalali
(limitatamente ai
beni loro legati) o donatari, i beneficiari di altre liberalità
tra vivi, i
tutorie curatori degli eredi e dei legatari, gli esecutori testamentari
ed i
curatori dell’eredità, coloro che .succedevano a seguito
di dichiarazione di
morte presunta, gli immessi nel possesso dei beni dell'assente. Nei
confronti
dello Stato, ciascun erede era solidalmente obbligato al pagamento
dell'imposta
complessivamente dovuta e risponde anche per la quota dei legatari. La
base
imponibile su cui calcolare l'imposta sulle successioni era costituita
dal
valore delle quote ereditarie e dei legati, dato dalla differenza tra
il valore
dei beni e dei diritti (alla data di apertura della successione) che
componevano la singola quota o il singolo legato, e l'ammontare delle
passività
e degli altri oneri ammessi in deduzione in ragione della quota di
spettanza di
ognuno.In caso di fallimento del defunto, si teneva conto
esclusivamente delle
attività pervenute agli credi o legatari a seguito della
chiusura della
procedura concorsuale. Ai soli fini della verifica della franchigia
godibile,
la quota ereditaria o il legato andavano aumentati delle donazioni
eventualmente ricevute dallo stesso defunto. Il valore
dell'eredità o delle
quote ereditarie era determinato al netto dei legati e degli altri
oneri che
eventualmente le gravano. Analogamente, gli oneri gravanti sui legati
ne
andavano a ridurre il valore. Dalla base imponibile rimanevano esclusi,
oltre
ai beni c diritti elencati negli artt. 12 e 13 del D.P R 346/1990,
anche quelli
per i quali il defunto aveva provveduto ai pagamento dell'imposta in
vita.
Nelle donazioni, la base imponibile cui commisurare l'imposta era
rappresentata
dal valore globale dei beni o diritti oggetto della donazione o ‑ nel
caso di
dichiarazione a favore di più soggetti o di più donazioni
a favore di soggetti
diversi comprese nello stesso atto ‑ al valore della quota spettante o
dei beni
o diritti spettanti a ciascuno di essi, al netto degli oneri che
gravavano sul
donatario. In riferimento alle successioni l'imposta si determinava
applicando,
sulla parte del valore della quota di eredità o del legato che
eccedeva i 350
milioni di lire, le seguenti aliquote:
4%
nei
confronti di:
-
coniuge;
-
dei parenti in
linea retta;
6% nei
confronti di:
-
altri parenti
fino al quarto grado;
-
degli affini
in linea retta;
-
degli affini
in linea collaterale fino al
terzo grado;
8% nei
confronti degli altri soggetti.
Quindi per
valori
inferiori o pari alla suddetta franchigia di 350 milioni di lire
(elevata a 1
miliardo se l'erede o il legatario era un discendente in linea retta
minore
d'età o soggetto portatore di grave handicap) l'imposta non
trovava
applicazione. Nel caso in cui l'erede o il legatario aveva già
beneficiato di
donazioni effettuate dallo stesso defunto, la franchigia doveva essere
ridotta
per la parte di cui avesse già usufruito. Le suddette aliquote
erano ridotte di
un punto percentuale in relazione a beni e diritti per i quali il
defunto aveva
provveduto al pagamento in vita dell'imposta. All'imposta così
determinata si
applicavano poi le riduzioni e le detrazioni, qualora ne
ricorrevano i
presupposti. In riferimento alle donazioni l'imposta era calcolata
applicando
al valore dei beni o diritti oggetto della donazione le seguenti
aliquote:
3% nei
confronti di:
-
coniuge;
-
parenti in
linea retta;
5% nei
confronti dì:
-
altri parenti
fino al quarto grado;
-
affini in
linea retta;
-
affini in
linea collaterale fino al terzo
grado;
7% nei
confronti degli altri soggetti.
L’imposta
andava
applicata esclusivamente alla parte della quota di ciascun donatario
che
superava la franchigia di 350 milioni dì lire (elevata a 1
miliardo se il
donatario era un discendente. in linea retta minore d'età o
soggetto portatore
di grave handicap).
Si è
detto che la legge
383/2001 ha soppresso l'imposta sulle successioni e donazioni, ma ‑ di
fatto ‑
il legislatore non ha ancora abrogato il D.Lgs. 346/1990: piuttosto in
più di
un'occasione il legislatore si rifà ai contenuti della vecchia
normativa. Basti
pensare, ad esempio:
-
al richiamo
alle esenzioni ed agevolazioni
contenute nel TU. sulle imposte sulle successioni e donazioni;
-
all'introduzione
di un regime transitorio
nel quale il contribuente continua a presentare in certi casi la
dichiarazione
di successione.
L’abolizione
dell'imposta di successione, a differenza di quanto accade per quella
sulle
donazioni, rappresenta una perdita netta per l'erario, dal momento che
non è
prevista alcuna tassazione sostitutiva per i trasferimenti mortis causa.
Le uniche
imposte dovute
per la successione, inerenti beni immobili e diritti reali sono
ora quelle
ipotecarie (2%) e quelle catastali (1 %). Già prima dell'entrata
in vigore
della legge 383/2001 non era più dovuta l'imposta sostitutiva
dell'INVIM, per
effetto della specifica abrogazione contenuta nella L. 342/2000.
Le nuove
disposizioni si applicano alle successioni aperte alla data di
entrata in
vigore della legge n. 383 del 18 ottobre 2001 e cioè dal 25
ottobre.
(coniuge,
parenti in
linea retta, parenti entro i14° grado e altri soggetti)
Natura del bene |
Obbligo di
dichiarazione |
Imposta di successione |
Imposta ipotecaria |
Imposta catastale |
Immobili |
sì |
‑ |
2% |
1% |
Prima casa |
sì |
‑ |
misura fissa € 129,11 |
misura fissa € 129,11 |
Terreni |
sì |
‑ |
2% |
1% |
Denaro/gioielli |
No |
- |
- |
- |
Crediti |
No |
- |
- |
- |
Partecipazioni
e titoli di Stato |
No |
- |
- |
- |
Diversamente
da quanto
previsto per le successioni, l'abrogazione dell'imposta sulle
donazioni non ha
eliminato del tutto la tassazione degli atti di donazione e le altre
liberalità
tra vivi. AI contrario il legislatore ha operato una netta distinzione,
stabilendo che i trasferimenti di beni e diritti per atto di donazione
o altra
forma di liberalità, ivi incluse le rinunzie pure e semplici:
a)
se effettuati
in favore di coniuge,
parenti in linea retta e altri parenti fino al quarto grado non
scontano le
imposte sui trasferimenti. Ovviamente devono essere comunque
corrisposte ‑ in
caso di atti che hanno ad oggetto immobili o diritti reali immobiliari
‑ le
imposte ipotecarie e catastali;
b)
se effettuati
nei confronti di soggetti
diversi da quelli indicati nella precedente lettera a) e di
importo non
superiore a 180.759,91 euro, non scontano le imposte sui
trasferimenti. Anche
in questo caso sono dovute le imposte ipotecarie e catastali in
presenza di
donazioni di immobili o diritti reali immobiliari;
c)
se effettuati
nei confronti di soggetti
diversi da quelli indicati nella precedente lettera a) e di
importo superiore
a 180.759,91 euro, scontano le normali imposte sui trasferimenti
determinate
per le cessioni a titolo oneroso.
Le donazioni
effettuate
nei confronti di soggetto diverso da quelli indicati nella citata
lettera a),
che sia portatore di handicap grave, sono esenti da imposta sui
trasferimenti
fino alla soglia di 516.456,90 euro.
Natura del bene |
Imposta sulle
donazioni |
Imposta sui |
Imposta |
Imposta catastale |
Immobili |
- |
- |
2% |
1% |
Prima casa |
- |
- |
Misura fissa € 129,11 |
Misura fissa € 129,11 |
Terreni |
- |
- |
Tassa fissa € 129,11 |
Tassa fissa € 129,11 |
Denaro/gioielli |
- |
- |
- |
- |
Partecipazioni
e titoli di Stato |
- |
- |
- |
- |
Natura del bene |
Imposta sulle
donazioni |
Imposta sui |
Imposta |
Imposta catastale |
Immobili |
- |
7% con la
franchigia di €
180.759,91 |
Misura fissa € 129,11 |
Misura fissa € 129,11 |
Prima casa |
- |
3% con la
franchigia di €
180.759,91 |
Misura fissa € 129,11 |
Misura fissa € 129,11 |
Terreni |
- |
8%
(edificabili) 15% (non
edificabili) con la franchigia di €
180.759,91 |
2% |
1% |
Denaro/gioielli |
- |
3% con la
franchigia di €
180.759,91 |
- |
- |
Partecipazioni
e titoli di Stato |
- |
- |
- |
- |
L’INVIM,
istituita con
il D.P.R. 26‑10‑1972, n. 643 si applicava sull'incremento di
valore degli
immobili siti nel territorio dello Stato quando:
-
veniva a
qualunque titolo trasferito o
conferito il diritto di proprietà sul bene ovvero veniva
trasferito o
costituito su esso un diritto reale diverso dalla servitù.
Si noti che il
trasferimento poteva avvenire indifferentemente a titolo gratuito o a
titolo
oneroso, per atto tra vivi o a causa di morte o per usucapione;
-
si verificava
l'utilizzazione edificatoria
delle aree fabbricabili;
-
quando erano
passati dieci anni di
ininterrotto possesso del bene da parte di società ed enti di
ogni tipo.
Il gettito di
quest'imposta ‑ affluito per molti anni ai Comuni dal 1993 è
confluito nelle
casse erariali.
E’ da
tener presente
che
Dal 1°
gennaio 1993 è
entrata in vigore l'ICI ‑ imposta comunale sugli immobili ‑ istituita
dal
D.Lgs. 504/1992, in attuazione della legge delega 421/ 1992.
L’ICI è un'imposta
a base reale con gettito destinato ai Comuni. II presupposto
dell'imposta è
dato dal possesso di fabbricati, aree fabbricabili o terreni
agricoli siti nel
territorio dello Stato qualunque sia la loro destinazione.Per
fabbricato si
intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta
nel catasto
urbano comprensiva delle pertinenze. L’area fabbricabile è
definita come quella
«utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti
urbanistici generali
o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di
edificazione». I
terreni agricoli sono individuabili in quei terreni adibiti ad
attività agraria
(coltivazione, silvicoltura, allevamento di animali, attività di
trasformazione) ex art. 2135 c.c.
Ai sensi
dell'art. 7
del D.Lgs. 504/1992 sono esenti da imposta:
a)
gli immobili
destinati all'uso
istituzionale dello Stato, degli Enti locali, delle
Comunità montane, di
consorzi tra gli enti precedenti, delle ASL, delle istituzioni
sanitarie
pubbliche, delle Camere di Commercio. I Comuni possono, tuttavia,
disporre con
proprio regolamento l'esenzione anche per immobili destinati a scopi
istituzionali;
b)
i fabbricati
delle categorie E (fabbricati
a destinazione particolare);
c)
i fabbricati
con destinazione a usi
culturali esenti dall'IRPEF, IRPEG ed ILOR;
d)
i fabbricati
destinati all'esercizio del
culto e quelli di proprietà della Santa Sede esenti a norma del
Trattato
Lateranense;
e)
i fabbricati
degli Stati Esteri e dì
organizzazioni internazionali esenti da ILOR;
f)
i fabbricati
dichiarati inagibili o
inabitabili e recuperati per attività assistenziali di cui alla
L. 104/1992,
per il periodo di impiego secondo tali finalità;
g)
i terreni
agricoli ricadenti in aree
montane o in collina;
h)
gli immobili
utilizzati da enti non
commerciali e destinati allo svolgimento di attività
assistenziali, didattiche,
ricreative, culturali, sportive e ricettive;
i)
gli immobili
posseduti dai Comuni, anche
con destinazione diversa da quella istituzionale, purché la loro
superficie si
trovi prevalentemente o interamente sul territorio comunale.
L'esenzione
spetta per
il periodo dell'anno per il quale sussistano le condizioni
prescritte.
L’art. 3
del D.Lgs. in
esame stabilisce che soggetti passivi dell'imposta sono i proprietari
di
immobili ovvero i titolari del diritto di usufrutto, uso,
abitazione,
enfiteusi, superficie sugli stessi, anche se non residenti nel
territorio dello
Stato o se non hanno ivi la sede legale o amministrativa o non vi
esercitano
l’attività. Per gli immobili concessi in locazione
finanziaria soggetto passivo
è il locatario. Nell'ipotesi in cui si tratti di fabbricati
classificabili nel
gruppo catastale D, non iscritti in catasto, il locatario assume la
qualifica
di soggetto passivo a partire dal 1 ° gennaio dell'anno successivo
a quello nel
corso del quale è stato stipulato il contratto di locazione. Nel
caso di
concessione su aree demaniali soggetto passivo è il
concessionario.
Nell'ipotesi di trasferimento di proprietà durante l'anno oppure
di inizio o
fine dell'usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi o superficie nel corso
dell'anno, il carico fiscale verrà ripartito fra gli interessati
in proporzione
della durata dei rispettivi diritti. Nel caso di comproprietà,
invece, debitore
dell'imposta è ciascun comproprietario per la sua quota.
La base
imponibile è
costituita:
- per i
fabbricati,
iscritti in catasto, dalle rendite catastali, calcolate moltiplicando
le
tariffe d'estimo:
a)
per un
coefficiente pari a 100 se si
tratta di abitazioni, alloggi collettivi e fabbricati a destinazione
varia
(gruppi catastali A, B, C ad eccezione delle categorie A/ 10 e C/ 1);
b)
per un
coefficiente pari a 50 se si tratta
di uffici e studi privati e altri fabbricati a destinazione speciale
(gruppi
catastali A/10 e D);
c)
per un
coefficiente pari a 34 se si tratta
di negozi e botteghe (gruppo catastale C/1);
d)
per i
fabbricati non iscritti in catasto
il valore è determinato con riferimento alla rendita dei
fabbricati simili già
iscritti.
‑ per le
aree
fabbricabili, dal valore commerciale dell'immobile al 1°
gennaio dell'anno
di imposizione;
‑ per i
terreni
agricoli, dal reddito dominicale vigente al 1 ° gennaio
dell'anno di
imposizione moltiplicato per.75.
L'imposta si
calcola
applicando all'imponibile un'aliquota variabile dal 4 al 7 per mille.
Entro tali
limiti i
Comuni potranno differenziare le aliquote con riferimento a (art.
6, D.Lgs.
504/1992):
-
immobili
diversi dalle abitazioni;
-
immobili
adibiti ad abitazione principale
da parte di persone fisiche;
-
immobili
posseduti da enti senza scopo di
lucro;
-
fabbricati
posseduti in aggiunta
dell'abitazione principale;
-
unità
immobiliari locate a soggetti che la
utilizzano come abitazione principale.
È
tuttavia accordata la
facoltà ai comuni di fissare aliquote agevolate anche
inferiori al 4 per
mille, a favore di proprietari che eseguono interventi volti al
recupero di
unità immobiliari inagibili o inabitabili; recupero di
immobili di interesse
artistico localizzati nei centri storici; realizzazione di
autorimesse o posti
auto anche pertinenziali; utilizzo di sottotetti.
L’imposta
da versare si
calcola applicando l'aliquota ICI alla base imponibile e deducendo
le
eventuali detrazioni o riduzioni spettanti.
Gli artt. 8 e
9 del
D.Lgs. 504/1992 prendono in esame alcune ipotesi di detrazioni
nonché riduzioni
dell'ICI relativamente all'abitazione principale, ai fabbricati
inagibili o
inabitabili ed ai terreni agricoli condotti direttamente. In
particolare per
l'abitazione principale dell'obbligato, oltre alla aliquota ridotta
prevista
dall'art. 4 D.L. 437/96, è riconosciuta una detrazione
d'imposta di 103,29
euro, rapportata al periodo dell'anno in cui l'immobile è stato
effettivamente
utilizzato come abitazione principale. A decorrere dall'1‑1‑1997 i
Comuni
possono, per le abitazioni principali:
-
ridurre
l'imposta fino al 50%;
-
elevare la
detrazione fino a 258,23 euro.
Le
agevolazioni
suddette possono essere applicate, previa delibera comunale, anche
ad anziani
e disabili residenti in istituti di ricovero o sanitari a condizione
che
l'abitazione non risulti locata. Nel caso in cui l'abitazione sia
utilizzata da
più soggetti passivi la riduzione è ripartita in
proporzione tra gli stessi.
Per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili e di fatto non
utilizzati,
l'imposta è ridotta del 50%. L'inagibilità o
inabitabilità è accertata
dall'ufficio tecnico comunale con perizia a carico del proprietario
oppure con
autocertificazione dello stesso. Il comma 2° dell'art.
-
considerare
abitazioni principali (con
conseguente applicazione delle agevolazioni) anche quelle concesse
in uso
gratuito a parenti in linea retta o collaterale;
-
stabilire
riduzioni dell'imposta superiori
a 258,23 euro fino al 100% dell'importo del tributo per le prime case.
In
questa ipotesi, però, il Comune non potrà stabilire
aliquote maggiorate per le
cd. seconde case.
Ulteriore
facoltà è
concessa ai Comuni dall'art. 4, 2° comma, L. 431/1998 alfine di
agevolare la
stipula di contratti protetti (di cui all'art. 2 della medesima legge)
da
definire a livello locale fra le organizzazioni delle proprietà
edilizie e le
organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative. Tale
riduzione è
applicabile solo per gli immobili destinati ad abitazione principale
dei
conduttori.
A coltivatori
diretti
dei terreni agricoli sono riconosciute particolari agevolazioni.
Per essi la
base imponibile è costituita dal valore del terreno che
supera i 25.822,84 euro;
inoltre, l'imposta viene ridotta percentualmente in relazione al
valore dei
terreni. Limposta si calcola come segue:
-
sui primi
25.822,84 euro di valore:
aliquota 0%;
-
oltre
25.822,84 euro fino a 61.974,83 euro
di valore: riduzione al 30%;
-
oltre
61.974,83 euro e fino a 103.291,38
di valore: riduzione al 50%;
-
oltre
103.291,38 euro e fino a 129.114,22
euro di valore: riduzione al 75%.
La dichiarazione
iniziale, redatta su moduli approvati dall'Agenzia delle Entrate,
va
presentata da tutti i contribuenti soggetti ad ICI, congiuntamente alla
dichiarazione dei redditi, relativamente all'anno in cui ha avuto
inizio il
possesso.
La denuncia
di
modificazione va presentata allorquando intervengano cambiamenti
nel
patrimonio immobiliare del contribuente, rispetto alla
dichiarazione iniziale,
per acquisti o vendite o donazioni o espropriazioni, per riunione o
separazione
del diritto di usufrutto, uso od abitazione. La denuncia
dovrà essere
presentata entro il termine della dichiarazione dei redditi relativa
all'anno
in cui la modifica è avvenuta. Il sistema di versamento
dell'ICI, che è
un'imposta annuale, prevede un acconto e un saldo. L'acconto va versato
nel
mese di giugno in misura del 50% dell'imposta dovuta calcolata sulla
base
dell'aliquota e delle detrazioni dei dodici mesi dell'anno
precedente. Il
saldo, invece, va versato dal 1 ° al 20 dicembre e consiste
nell'ammontare
dell'imposta dovuta per l'intero anno, con eventuale conguaglio
sull'acconto
versato. L’art. 1 del D.Lgs.
L’imposta
di bollo,
introdotta dal D.P.R. 642/72, ha nature mista, in quanto a volte si
configura
come un'imposta e a volte come una tassa. Viene assolta principalmente
mediante
l'acquisto di valori bollati da apporre su determinati atti e da
ciò la
definizione di imposta cartolare. Un Decreto ministeriale del
L'imposta di
bollo si
applica su tutti gli atti civili e commerciali, giudiziali e
stragiudiziali,
sugli scritti, sugli avvisi, sui manifesti, sui disegni e sui
registri
indicati dalla tabella allegata al D.P.R. 642/72. I documenti e atti
soggetti a
bollo si distinguono in tre categorie:
-
atti soggetti
fin dall'origine all'imposta:
sono quelli su l'imposta deve essere pagata tassativamente e sono gli
atti
civili, amministrativi e giudiziali;
-
atti soggetti
solo in caso d'uso:
sono gli atti che devono essere acquisiti dalle cancellerie giudiziarie
o dalle
pubbliche amministrazioni (es.: contratti di locazione non
superiori a 30
giorni, contratti di lavoro autonomo, scritture private non autenticate
ecc.);
-
atti esenti in
modo assoluto:
tra questi ricordiamo gli atti legislativi dello Stato, Regioni,
Provincie e
Comuni, gli atti e i documenti elettorali ecc.
Possiamo
notare delle
analogie tra l'imposta di registro e l'imposta di bollo, ma la
differenza
consiste nel fatto che la prima si riferisce al contenuto giuridico
dell'atto,
mentre la seconda investe la forma scritta del negozio, senza
riferimento al
contenuto.
Per quanto
attiene ai
soggetti passivi, la legge non è così specifica nel
determinarli, per ogni
singolo atto, ma individua dei soggetti che hanno l'obbligo solidale di
assolverla e cioè tutti coloro che possano avere o hanno una
determinata
relazione col presupposto d'imposta.
Quasi sempre
l'imposta
prescinde dal valore dell'atto che colpisce, ma imponibile
è l'atto in sé.
L’imposta
può essere:
-
proporzionale:
è commisurata al valore dell'atto (es.: cambiale 12 per mille);
-
fissa: colpisce in
misura fissa gli atti qualunque sia il loro valore. A partire dal
1°‑1‑1996
l'imposta fissa è pari a lire 20.000, oggi pari a euro 10,33, su
qualsiasi atto
su cui è dovuta nonché sui contratti relativi ad
operazioni e servizi bancari.
Con D.Lgs. 9/2000 è stata anche stabilita l'imposta di bollo
nella misura
forfettaria di euro 165,27 sugli atti relativi a diritti sugli
immobili
sottoposti a registrazione con procedure telematiche.
Il pagamento
può
avvenire in modo:
-
ordinario:
facendo uso di carta bollata (può essere disponibile quella
ordinaria, per
cambiali o per atti giudiziari);
-
straordinario:
mediante l'uso di marche da bollo, visto per bollo e il bollo a punzone;
-
virtuale: se il
pagamento avviene direttamente all'ufficio del registro e ad altri
uffici
autorizzati, oppure con versamento in c/c postale.
Sono soggette
a tale
aliquota:
-
le cessioni
effettuate da parte di imprese
costruttrici, di costruzioni rurali destinate ad uso abitativo del
proprietario
del terreno o di altri addetti alle coltivazioni dello stesso;
-
cessione
effettuate da parte di imprese
costruttrici di case di abitazioni non di lusso, a condizione che
l'acquirente
dichiari che si tratti di prima casa;
-
assegnazione,
anche in godimento, di case
di abitazione non di lusso, fatte ai soci da parte di cooperative
edilizie e
loro consorzi;
-
contratti di
appalto per la costruzione di
immobili destinati a «prima casa».
Sono soggette
a tale
aliquota:
-
le cessioni di
fabbricati su cui siano
stati effettuati interventi di recupero da parte delle imprese che
hanno
realizzato detti interventi;
-
le cessioni
effettuate da parte di imprese
costruttrici di case di abitazione non di lusso, se l'acquirente non le
acquista come prima casa;
-
le locazioni
di fabbricati ad uso civile
effettuate da parte delle imprese che hanno costruito tali immobili;
-
quasi tutte le
prestazioni di servizi
aventi ad oggetto la realizzazione di interventi di recupero.
Sono soggette
a tale
aliquota, definita «ordinaria», tutte le altre operazioni
diverse da quelle
comprese nelle lett. A) e B).
8. I
PRINCIPALI
ADEMPIMENTI CIVILI E FISCALI DELEAGENTE IMMOBILIARE
L’agente
immobiliare,
entro 30 giorni dall'inizio dell'attività, ha l'obbligo di
effettuare i
seguenti adempimenti:
-
l'iscrizione
al Registro delle Imprese
presso
-
la denuncia
all'INPS nella gestione
previdenziale dei commercianti;
-
la
comunicazione presso l'Ufficio
territoriale delle entrate dell'inizio dell'attività, ai
fini IVA;
-
la
comunicazione all'Ufficio Tributi del
Comune della superficie del locale, ai fini della determinazione della
Tassa
sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani;
-
la denuncia
all'Ufficio Tributi del Comune
di eventuali manifesti, insegne o targhe, ai fini della determinazione
dell'imposta di pubblicità;
-
l'iscrizione
al Ruolo degli Agenti di
Affari in Mediazione o a titolo individuale o come amministratore
di società
aventi per oggetto l'intermediazione immobiliare.
B) Altri
adempimenti:
deposito dei
moduli e formulari presso
iscrizione
all'INPS e all'INAIL di
eventuali dipendenti;
applicazione
della 626/1994 in materia di
«Sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro»;
comunicazione
e notifica al «Garante per
la protezione dei dati personali» in base alla L. 675/1996.
Come ogni
imprenditore
anche l'Agente immobiliare deve emettere un documento fiscale per
giustificare,
ai fini delle imposte sui redditi e dell'IVA, le provvigioni percepite.
La
fattura, da emettere al momento della riscossione delle provvigioni,
mai dopo,
oltre ai dati identificativi dell'agente (Ditta, Sede, Codice Fiscale,
Partita
IVA) e del suo destinatario (nome, cognome e indirizzo;
-
l'indicazione
e il calcolo dell'IVA nella
misura del 20%;
-
la ritenuta
d'acconto sulle provvigioni ai
fini Irpef, che è pari al 23% sul 50% della base imponibile se
l'agente opera
da solo; oppure l'aliquota è pari al 23% sul 20% della base
imponibile se
l'agente si avvale di collaboratori.
Il contributo
previdenziale del 10% o del 14% per i redditi di lavoro autonomo
afferente
alla «Gestione separata» dell'INPS non interessa l'agente
immobiliare, a meno
che non si tratti di:
1)
compensi di
amministratore di società di
intermediazione immobiliare;
2)
collaborazioni
a giornali e riviste;
3)
compensi
gettoni di presenza nelle
Commissioni Provinciali;
4)
docenze a
corsi preparatori;
5)
gettoni
presenza per gli esami di
mediatori;
6)
consulenza
immobiliare (pratiche mutui,
finanziamenti ecc.).
Nei casi
suindicati,
dunque, l'agente può addebitare in ciascuna fattura emessa un 4%
di contributo
previdenziale per tale gestione contributiva.
DISCIPLINA
URBANISTICA
ED EDILIZIA
1. IL DIRITTO
URBANISTICO E LE SUE NORME
Il diritto
urbanistico
è quella branca del diritto amministrativo che regola la
facoltà di edificare,
ossia di costruire nuovi edifici soprattutto nei centri abitati.
L'esigenza di
regolare lo sfruttamento del territorio nacque in età moderna
per organizzare
in maniera razionale l'ampliamento delle città industriali e i
fenomeni di
urbanizzazione di vaste zone di campagna ad esse limitrofe. Furono
così
emanate le prime norme destinate a disciplinare le condizioni
igieniche ed
estetiche degli edifici urbani (sia di carattere residenziale che
industriale
e commerciale), nonché le norme di sicurezza statica delle
costruzioni. Pur
risalendo già al Medioevo, il diritto urbanistico ha acquistato
fondamentale
importanza solo nel secolo XX, agli inizi del quale prese il via quel
fenomeno
di emigrazione della popolazione dalle campagne alle città,
chiamato
urbanesimo. Nell'ambito del diritto urbanistico rientra anche la
materia
edilizia: urbanistica ed edilizia, anche se riguardano entrambe il
governo del
territorio, vanno però tenute distinte, pur essendo la
seconda compresa nella
prima.
L’urbanistica
consiste
nell'attività di programmazione e di pianificazione delle
modifiche del
territorio (i piani urbanistici stabiliscono se è possibile
costruire o meno su
un determinato territorio). L’edilizia stabilisce, invece, le
modalità
attraverso cui può realizzarsi la trasformazione
territoriale ammessa dal
piano (necessità di concessione o meno, caratteristiche
dell'edificio, qualità
tecniche etc.). Per attività edilizia in particolare si intende
la costruzione
di manufatti stabili destinati a soddisfare bisogni abitativi o
produttivi. La
distinzione tra urbanistica ed edilizia è oggi ancora più
evidente: mentre fino
ad ora, infatti, esse erano sovrapposte, con l'introduzione del nuovo
Testo
unico in materia edilizia (D.PR. 6 giugno 2001, n. 380), la materia
edilizia
trova per la prima volta organica ed autonoma disciplina. In
particolare, il
Testo unico riunisce e riordina tutte le norme in materia edilizia (sia
quelle
relative alle forme di assenso degli interventi edilizi che la
normativa
tecnica) nel tentativo di ricondurre ad unità organica il
complesso materiale
normativo sparso nei numerosi provvedimenti emanati dal 1942 ad
oggi.
L:urbanistica si propone, dunque, di assicurare, pur promovendo lo
sviluppo
edilizio delle città, lo sfruttamento razionale di tutto il
territorio nazionale,
non solo quello urbano, al fine di contenere gli effetti più
deleteri di esso
(sovraffollamento, inquinamento, alterazioni dell'assetto idrogeologico
della
zona, inadeguatezza dei servizi etc.). In Italia la prima disciplina
urbanistica di carattere generale è stata posta dalla legge 17
agosto 1942, n.
1150 (legge urbanistica), che per quasi 60 anni è stata il testo
base della
materia. Questa legge però presentava alcune lacune e venne
letteralmente
travolta dalla ricostruzione economica e industriale del
dopoguerra, che si
svolse in maniera disorganica e incontrollata, finalizzata
esclusivamente al
profitto e alla speculazione fondiaria; le città crebbero
così nel disordine,
con un progressivo abbandono dei centri storici e uno sconsiderato
ampliamento
di periferie informi e degradate. Fu così necessario
emanare una successiva
legge (legge ponte) del 6 agosto 1967, n. 765, che nacque
però come normativa
parziale e provvisoria nella prospettiva di un'imminente riforma
urbanistica,
che ancora oggi non è stata attuata. Altra legge fondamentale
è quella del 28
gennaio 1977, n. 10 conosciuta anche come legge sui suoli, che ha
sancito l'onerosità
della concessione edilizia. Altra importante disposizione è la
legge 28
febbraio 1985, n. 47 destinata a contrastare il dilagante fenomeno
dell'abusivismo edilizio, che ha previsto anche un'ampia sanatoria
delle
costruzioni abusive (primo condono edilizio). In Italia, infatti, sono
sempre
state numerose le violazioni urbanistiche, tanto che in alcuni periodi
è
diventato impossibile perseguire tutti i colpevoli di abuso
edilizio; lo Stato
ha così preferito prevedere procedure di sanatoria
generalizzate (condoni), in
seguito alle quali tutte le costruzioni abusive, realizzate prima di
una certa
data, dovevano considerarsi lecite qualora il proprietario pagasse
un'oblazione, cioè una somma di danaro fissata dalla legge. In
Italia vi sono
stati due condoni: uno nel 1985 e l'altro nel 1994. Quelli citati sono
solo
alcuni dei testi normativi che regolano il diritto urbanistico: la
disciplina
è, infatti, molto frammentata e ha subito numerose modifiche non
solo da parte
di provvedimenti normativi successivi, ma anche di numerose
sentenze della
Corte Costituzionale.
Tra i
provvedimenti
normativi sono da ricordare:
la legge 5
agosto 1978,
n. 457 (piano decennale per l'edilizia) che ha definito le tipologie di
interventi urbanistici;
la legge 2.5
marzo 1982,
n. 94, che disciplina alcuni tipi di piani urbanistici;
la legge 4
dicembre
1993, n. 493 che regolamenta la procedura di rilascio della concessione edilizia;
l’art.
39 della legge
23 dicembre 1994, n. 724, che ha previsto il secondo condono edilizio;
la legge 23
dicembre
1996, n. 662 che ha modificato il procedimento di denuncia di inizio
attività e
la legge 15 maggio 1997, n. 127 (Bassanini bis) che ha attribuito ai
dirigenti
degli enti locali i poteri in materia urbanistica ed edilizia, che
prima erano
di competenza del Sindaco; ‑ il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112
(modificato dal
D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 443) che disciplina in modo chiaro i compiti
e le
funzioni che, dallo Stato, sono passati alle Regioni ed agli enti
locali;
il D.Lgs. 29
ottobre
1999, n. 490 (Testo unico sui beni culturali e ambientali);
il D.PR. 6
giugno 2001,
n. 380, ossia il Testo unico in materia edilizia.
2. IL TESTO
UNICO IN
MATERIA EDILIZIA
Come abbiamo
già detto,
il D.P.R. 6 giugno 2001, n.
Secondo l'art.
138, il
Testo unico sarebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 2002.
Prima di
questa data, però, è stata approvata la legge 21
dicembre 2001, n. 443 che
disciplina la denuncia di inizio attività in maniera
sostanzialmente difforme
dal Testo unico. Ciò ha imposto una sospensione della sua
entrata in vigore
(che, dopo vari rinvii, è ora fissata al 30 giugno 2003): nello
stesso tempo il
Governo è stato delegato a modificare il Testo unico per
adattarlo alle norme
della legge n. 443/2001. Tale provvedimento di modifica è stato
emanato con
D.Lgs. 27‑122002, n.301. Nonostante il Testo unico in materia
edilizia
riordini la vecchia disciplina per permetterne una più semplice
leggibilità e
applicabilità, contiene però numerose novità che
qui riassumiamo brevemente, e
di cui parleremo nei prossimi paragrafi:
la
novità più rilevante
è la riduzione degli atti che permettono di costruire a due
soltanto. Mentre
prima il privato che volesse realizzare un intervento edilizio poteva
trovarsi
a dover richiedere la concessione edilizia o l'autorizzazione
gratuita, o in
alcuni casi per le opere di minor impatto urbanistico, a dover
presentare la
denuncia di inizio attività, il Testo unico prevede solo il
permesso di
costruire (nuova denominazione della concessione edilizia) e la
denuncia di
inizio attività, con conseguente soppressione
dell'autorizzazione gratuita;
nell'ottica di
semplificazione
dei procedimenti imposta dalla riforma Bassanini, è stata
snellita la
procedura per il rilascio del permesso di costruire ed è stato
istituito lo
sportello unico dell'edilizia.
Lo sportello
unico
dell'edilizia è una delle novità più importanti
del T.U. in materia edilizia.
Esso è un ufficio che ha il compito di seguire tutte le pratiche
concernenti le
autorizzazioni per la realizzazione di interventi in materia edilizia.
Esso
garantisce trasparenza e celerità delle procedure in quanto
permette al
cittadino di relazionarsi con un unico interlocutore, invece di passare
da un
ufficio all'altro per le varie autorizzazioni. II Testo unico abroga
anche
molte delle vecchie norme, in particolare:
gran parte
degli
articoli della legge urbanistica del 1942;
molti articoli
della
legge Bucalossi (legge 28 gennaio 1977, n. 10);
quasi tutta la
legge n.
47/1985.
Ovviamente
tali norme
potranno dirsi abrogate solo dal momento in cui il predetto Testo unico
entrerà
finalmente in vigore.
3.
PROPRIETÀ PRIVATA E
DIRITTO DI COSTRUIRE
Per
proprietà privata
si intende il diritto di godere e di disporre in modo pieno ed
esclusivo di un
bene: in particolare, il diritto di godere e di disporre in modo pieno
di un
bene significa che il proprietario ha il diritto di fare tutto quello
che crede
della sua cosa (può distruggerla, può venderla o donarla,
può usarla e se si
tratta di un fondo, potrebbe anche decidere di costruirvi sopra un
fabbricato).
La
facoltà di godimento
e di disposizione dei propri beni non è però
illimitata: l'art. 832 del codice
civile stabilisce, infatti, che essa deve essere esercitata entro
i limiti e
con 1 osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento
giuridico. Tra i
limiti più rilevanti vi è soprattutto quello che concerne
la facoltà di edificare.
II proprietario non è, infatti, libero di costruire sul suo
fondo, ma deve
chiedere l'autorizzazione del Comune per la realizzazione di quasi
tutti gli
interventi edilizi.
Cart. 31 della
legge
urbanistica del 1942 introdusse per la prima volta l'obbligo per il
proprietario,
che intendesse eseguire nuove costruzioni, ampliare o demolire quelle
esistenti, di ottenere dal Comune una licenza edilizia. Con tale
autorizzazione, l'autorità amministrativa riconosceva il diritto
del
proprietario di costruire (jus aedificandi), rimuovendo il limite
imposto dalla
legge. Il proprietario cioè aveva sì il diritto di
costruire, ma fin quando non
avesse ottenuto la licenza, questo gli era provvisoriamente impedito.
La legge n. 10
del
Questa
interpretazione
non è stata però accolta dalla Corte Costituzionale, la
quale ha affermato che
il diritto di edificare continua ad essere compreso nelle
facoltà del
proprietario, con la conseguenza che l'uso del termine
«concessione» non è del
tutto corretto, visto che non si individua un nuovo diritto che la
concessione
edilizia verrebbe a creare a favore del privato.
L’orientamento della Corte
Costituzionale sembrerebbe essere stato confermato dal Testo unico in
materia
edilizia che ha sostituito la concessione edilizia, con il permesso di
costruire: lo Stato non «concede», dunque, più
nulla.
Il privato non
subisce
solo le limitazioni dei vincoli urbanistici imposti dai piani. Molte
leggi,
infatti, dispongono ulteriori limitazioni al diritto di
proprietà che vengono
indicati come vincoli speciali.
Sono vincoli
speciali
quelli imposti dalle leggi a tutela del paesaggio o dei beni
storico‑artistici
o a garanzia delle cosiddette zone di rispetto.
Il vincolo
speciale può
limitare o addirittura annullare il diritto di edificare di un privato:
ad
esempio per poter realizzare degli interventi edilizi su un bene con
vincolo
storico‑artistico, non basta ottenere la concessione comunale ma
è necessario
il rilascio del nullaosta della Sovrintendenza.
4.
I piani
urbanistici
costituiscono il principale strumento di controllo e di indirizzo
urbanistico:
essi hanno lo scopo di determinare l'assetto e l'incremento
edilizio dei
centri abitati e l'ordinato sviluppo urbanistico del territorio.
La legge
urbanistica
del 1942 ‑ che anche se in parte abrogata dal Testo unico in materia
edilizia
rappresenta ancora il testo fondamentale in tema di pianificazione ‑
prevede
due livelli dì pianificazione: il primo livello
(pianificazione di direttive)
ha ad oggetto ampie porzioni del territorio nazionale ed ha lo scopo di
fornire
direttive generali, cui devono ispirarsi ì piani urbanistici del
secondo
livello; questi strumenti urbanistici sono adottati da Regioni,
Province o da
enti locali con competenza territoriale più vasta, e hanno
valore a tempo
indeterminato.
Il secondo
livello di
pianificazione (pianificazione di attuazione) è, invece, di
competenza comunale
e riguarda i singoli aggregati urbani: esso ha lo scopo di dare
attuazione ai
piani sovraordinati.
In sintesi, la
legge
urbanistica prevede un sistema gerarchico di strumenti
pianificatori: in primo
luogo, i piani urbanistici programmatici (il piano regolatore generale
e il
programma di fabbricazione) per la disciplina dell'intero
territorio; in
secondo luogo, i piani attuativi (piani particolareggiati e altri)
per la
progettazione specifica delle singole aree urbane; in terzo luogo, il
regolamento edilizio per la disciplina puntuale delle distanze,
delle altezze,
dell'ornato e delle altre prescrizioni costruttive dei singoli edifici.
Facendo
ricorso ad uno
schema largamente esemplificativo, può dirsi che la legislazione
vigente
prevede i seguenti tipi principali di piano:
a) piani
territoriali
di coordinamento regionali e provinciali, che indirizzano la
programmazione e
la pianificazione urbanistica degli enti locali, al fine di coordinare
gli interventi
urbanistici ed edilizi in un ambito territoriale più vasto
di quello comunale;
b) piani
regolatori
generali comunali, che traducono le direttive generali in prescrizioni
più
precise con riferimento alla totalità del territorio di un
Comune.
Il piano
regolatore
generale comunale (PR.G.) è lo strumento urbanistico principale:
esso fissa le
direttive generali di sistemazione del territorio di un Comune.
La formazione
del piano
regolatore è obbligatoria per tutti i Comuni compresi in alcuni
elenchi del
Ministero dei Lavori pubblici e delle Regioni; tutti gli altri Comuni
hanno in
ogni caso la facoltà di formare il proprio piano regolatore
generale: se non lo
fanno, devono provvedere all'adozione di un programma di fabbricazione.
Il piano
regolatore generale
deve contenere previsioni di localizzazione e di zonizzazione.
Per quanto
riguarda le
localizzazioni, il piano deve contenere la localizzazione della rete
delle
principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili; la
individuazione delle aree destinate a formare spazi di uso pubblico (ad
esempio, un parco pubblico), nonché delle aree da riservare ad
edifici pubblici
(uffici, ospedali, scuole etc.) ovvero ad opere e impianti di interesse
collettivo o sociale.
Relativamente
alle
zonizzazioni, il piano regolatore generale deve contenere la divisione
del
territorio comunale in zone omogenee (centri storici, zone in cui
è necessario
completare l'edificazione, zone destinate ad attività
industriali o agricole
etc.); l'indicazione dei vincoli da osservare nelle zone di pregio
storico,
ambientale e paesistico; l'individuazione delle zone degradate nelle
quali si
rendono opportuni interventi di conservazione e risanamento (la cui
esecuzione
avverrà attraverso piani di recupero; la definizione delle norme
per
l'attuazione del piano.
Il piano
regolatore
comunale ha vigore a tempo indeterminato, fino a quando non venga
sostituito
da un altro piano successivamente approvato. Non è ammissibile
pertanto una
delibera del Consiglio comunale di abrogazione del piano.
Le
disposizioni del
piano regolatore generale sono immediatamente operative per i privati
(soprattutto quando contengono prescrizioni precise e dettagliate), che
hanno
dunque l'obbligo di osservare nelle costruzioni le linee e le
prescrizioni di
zona che sono indicate nel piano (art.
I piani di
attuazione
(come i piani particolareggiati) devono poi attenersi fedelmente alle
disposizioni del piano regolatore generale. Per cui anche gli organi
comunali,
nell'elaborazione degli strumenti urbanistici di attuazione, sono
vincolati al
rispetto delle prescrizioni del piano regolatore.
Come abbiamo
visto, il
piano regolatore ha durata a tempo indeterminato; esso però
può essere
modificato attraverso successive varianti, quando sono modificate le
condizioni
che avevano giustificato determinate disposizioni dello strumento
urbanistico.
La variante
è il mezzo
attraverso il quale può procedersi alla revisione di un piano
urbanistico
adottato, quando il piano stesso è divenuto, per il sopravvenire
di nuove
ragioni, totalmente o parzialmente inattuabile o obsoleto. Le varianti
sono
largamente usate per modificare soprattutto il piano regolatore
generale che,
avendo vigore a tempo indeterminato, deve poter essere adattato alle
nuove
esigenze.
Fino al
19851'ammissibilità di varianti al piano era subordinata ad una
preventiva
autorizzazione regionale; l'art. 25 della legge n. 47/1985 ha,
invece,
espressamente stabilito che le varianti agli strumenti urbanistici
non sono
soggette alla preventiva autorizzazione della Regione. Le varianti
devono,
però, essere approvate con lo stesso procedimento seguito per la
formazione
del piano da modificare.
La variante
può essere
parziale se riguarda una parte del piano (nuove destinazioni di zona,
singoli
aspetti normativi etc.) oppure totale se riguarda l'intero piano: in
questo
caso si tratta in realtà di un nuovo piano regolatore.
La legge
prevede anche
ipotesi di varianti automatiche, riconoscendo ad alcuni piani
urbanistici di
attuazione la capacità di apportare deroghe alle norme del piano
regolatore
generale. Un esempio di variante automatica si ha quando vengono
approvati i
progetti di opere pubbliche che ricadono su aree che inizialmente non
erano
destinate dal piano regolatore a servizi pubblici.
Altre varianti
automatiche sono quelle per la scelta di aree conseguenti
all'approvazione dei
piani di zona per l'edilizia economica e popolare o per la
realizzazione del
programma urbano dei parcheggi;
c) programmi
di
fabbricazione, che possono definirsi come elementari piani
regolatori dei
Comuni più piccoli. Anche questi, come i piani regolatori
generali, sono
finalizzati alla regolamentazione operativa dell'assetto
urbanistico del
territorio comunale;
d) programmi
pluriennali di attuazione, che sono predisposti alla
temporalizzazione degli
interventi, cioè alla indicazione delle priorità da
osservare nell'attuazione
degli strumenti urbanistici vigenti, indicando, nell'ambito del
territorio
comunale, le zone in cui lo sviluppo edilizio dovrà
indirizzarsi;
e) piani
particolareggiati di esecuzione e piani di lottizzazione, che
rappresentano
strumenti di attuazione dei piani regolatori generali.
Il piano di
lottizzazione è, come il piano particolareggiato, uno strumento
di attuazione
del piano generale. Per lottizzazione si intende il frazionamento di un
terreno
(in genere non edificato) in varie porzioni (lotti) per la
realizzazione di
uno o più fabbricati a scopo residenziale, turistico o
industriale, destinati
ad essere successivamente venduti. In genere la suddivisione del
territorio in
lotti fabbricabili è demandata ai piani particolareggiati di
esecuzione, che
individuano anche le opere di urbanizzazione da realizzare,
nonché le
attrezzature collettive, gli impianti sportivi etc. Qualora i Comuni
non
abbiano proceduto alla formazione del piano particolareggiato, i
privati che
intendono apportare delle modifiche all'assetto del territorio
comunale,
possono presentare appositi piani di lottizzazione, contenenti
prescrizioni di
dettaglio sostitutive di quelle omesse dal Comune al fine di
armonizzare la
loro iniziativa con le scelte pianificatorie degli strumenti
urbanistici
generali.
All'approvazione
del
piano da parte del Comune segue la stipula di una convenzione di
lottizzazione
(una sorta di contratto tra Comune e privato) con cui il privato assume
l'obbligo di realizzare, a proprie spese, le opere di urbanizzazione
primaria e
una parte delle opere di urbanizzazione secondaria da eseguire nel
perimetro
del terreno da lottizzare.
I piani
urbanistici
limitano fortemente il diritto del proprietario di un bene immobile:
essi,
infatti, dividono il territorio in aree con destinazioni diverse (ad
uso
agricolo, ad edilizia residenziale, ad edilizia industriale, a verde
pubblico
etc.), stabilendo su quali parti del territorio è possibile
edificare. Possono
anche vietare qualsiasi tipo di intervento urbanistico: in questo caso,
il
proprietario viene completamente spogliato del diritto di costruire
sulla sua
proprietà. Senza contare che il valore di un fondo in cui non
è possibile costruire
né intervenire in alcun modo, è notevolmente inferiore a
quello di un fondo
destinato, invece, ad un uso che ne consente uno sfruttamento edilizio.
Ciò
può comportare
forti disparità di trattamento tra proprietari.
Numerosi
limiti alla
libera attività edilizia sono previsti in determinate
località vicine ad opere
o luoghi soggetti ad uso pubblico, al fine di tutelare preminenti
interessi
pubblici (sicurezza, igiene, migliore utilizzazione dei beni demaniali
etc.).
Si tratta per lo più di obblighi di distanza per le costruzioni
in zone
prossime a tali opere o luoghi, comunemente definiti zone di
rispetto.
Le zone di
rispetto non
sono, dunque, imposte per regolamentare il corretto sviluppo
dell'edificazíone, ma di esse deve tenersi comunque conto anche
in sede di
pianificazione e le stesse devono essere riportate nei piani
urbanistici
generali.
Per evitare
pericoli
per l'incolumità delle persone è vietato ad esempio
costruire in vicinanza
degli aeroporti, ciò al fine di impedire che gli edifici possano
essere
coinvolti in incidenti e nello stesso tempo evitare che le
costruzioni,
soprattutto quelle più alte, possano costituire un pericolo
durante le fasi di
decollo e atterraggio.
Sono previste
le
seguenti zone di rispetto:
a) zone di
rispetto dei
cimiteri.
Lart. 338 del
TU. 27‑7‑1934,
n. 1265 (TU. delle leggi sanitarie) prescrive che i cimiteri
debbono essere
collocati alla distanza di almeno
b) zone di
rispetto
delle ferrovie.
Ai sensi del
D.P.R. 11‑7‑1980,
n. 753 è vietato costruire, lungo i tracciati delle linee
ferroviarie, ad una
distanza minore di
c) zone di
rispetto del
demanio marittimo (art. 55 codice navigazione);
d) zone di
rispetto
degli aeroporti.
Gli artt.
714‑717bis
del codice della navigazione prevedono limitazioni della
proprietà privata per
la tutela della navigazione aerea. In particolare, nelle direzioni di
atterraggio degli aeroporti non possono essere eseguite tra l'altro,
costruzioni a distanza inferiore a
e) zone di
rispetto
delle aree doganali;
f) zone di
rispetto
delle acque pubbliche.
Inoltre, il
nuovo
codice della strada (D.Lgs. 30‑4‑1992, n. 285) ha ridisciplinato le
distanze
dalle strade da osservarsi fuori dei centri abitati, imponendo,
altresì, fasce
di rispetto ed aree di visibilità nei centri abitali.
Altra
importante
limitazione all'attività urbanistica ed edilizia è stata
imposta dalla legge 1
marzo 1975, n. 47, modificata ed integrata dall'ari. Ibis del D.L.
30‑8‑1993,
n. 332, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 428. Tale legge,
infatti ‑
per combattere il triste fenomeno degli incendi dolosi di boschi,
finalizzati
alla speculazione edilizia ‑ disponeva che nelle zone di bosco
interessate da
incendi fosse vietato l'insediamento di costruzioni di qualsiasi tipo.
Alle
zone medesime, inoltre, nella formazione degli strumenti
urbanistici, non
poteva darsi destinazione diversa da quella in alto prima dell'incendio.
La materia
è
attualmente disciplinata dalla legge 21‑11‑2000, n.
Sui predetti
suoli sono
vietati:
per 10 anni,
la
realizzazione di edifici e di strutture finalizzate ad insediamenti
civili e
attività produttive;
per 5 anni, le
attività
di rimboschimento e di ingegneria ambientale sostenute con risorse
finanziarie
pubbliche;
per 10 anni,
il pascolo
e la caccia limitatamente ai suoli percorsi dal fuoco.
Con il termine
edilizia, spesso usato in unione o in alternativa al termine
urbanistica, si
indica la branca del diritto urbanistico che si occupa
specificatamente degli
aspetti esecutivi dell'attività edilizia. Per attività
edilizia si intende,
inoltre, la costruzione di manufatti stabili destinati a soddisfare
bisogni
abitativi (case, palazzi, strade etc.) o produttivi (fabbriche, uffici,
negozi,
centri commerciali, centri direzionali etc.).Come abbiamo visto, il
diritto di
edificare o ius aedificandi spetta al proprietario del suolo su
cui viene
costruito il manufatto e costituisce, quindi, estrinsecazione del
diritto di
proprietà. Tuttavia, l'attività edilizia è
sottoposta al controllo della
Pubblica Amministrazione, che vigila sull'assetto del territorio e
sullo
sviluppo urbanistico.
Gli strumenti
attraverso i quali
Abbiamo
esaminato,
nelle pagine precedenti, gli strumenti urbanistici che disciplinano
l'assetto
del territorio: in base ad essi, il privato rimane, però,
alquanto
libero dì
costruire come meglio crede, per lo meno nelle zone destinate allo
sviluppo
edilizio. Le norme che disciplinano le modalità di
costruzione e le
caratteristiche fondamentali che devono avere gli edifici sono,
invece,
contenute in alcune leggi speciali ma prevalentemente nei regolamenti
edilizi.
Il regolamento
edilizio
è lo strumento urbanistico che tutti i Comuni sono obbligati ad
adottare: esso
contiene norme pratiche relative all'edificazione, cioè
all'attività di
costruzione, al fine di garantire l'incolumità pubblica,
l'igiene, l'estetica
e l'ordinato sviluppo dei centri abitati (la funzione e i contenuti di
esso
sono definiti dall'art. 33 della legge urbanistica fondamentale).
Se i piani
urbanistici
stabiliscono se, cosa e quando edificare, il regolamento
stabilisce come
edificare. In termini concreti, la differenza si può così
sintetizzare:
il piano
urbanistico
stabilisce dove costruire;
il regolamento
edilizio
stabilisce come costruire.
Ai sensi
dell'art.
l'altezza
minima e
massima dei fabbricati;
gli eventuali
distacchi
dai fabbricati vicini e dal filo stradale;
l'ampiezza e
la
formazione dei cortili e degli spazi interni;
le sporgenze
sulle vie
e piazze pubbliche;
l'aspetto dei
fabbricati e il decoro dei servizi e degli impianti (come tabelle
stradali,
mostre e affissi pubblicitari, impianti igienici pubblici etc.);
l'igiene degli
edifici;
le
prescrizioni
costruttive da osservare in determinati quartieri o lungo determinate
piazze o
vie;
l'apposizione
e la
conservazione dei numeri civici;
le cautele da
osservare
a garanzia della pubblica incolumità per l'esecuzione delle
opere edilizie, per
l'occupazione del suolo pubblico, per i lavori nel sottosuolo etc.;
la formazione,
le
attribuzioni e il funzionamento della Commissione edilizia comunale;
la
presentazione delle
domande di concessione di costruzione o trasformazione di fabbricati
etc.
Il Testo unico
in
materia edilizia abroga l'art. 33 della legge urbanistica e
all'articolo 4
definisce in maniera più sintetica i contenuti del
regolamento edilizio, che
attualmente disciplina le modalità costruttive, con particolare
riguardo al
rispetto delle normative tecnico‑estetiche, igienico‑sanitarie, di
sicurezza e
vivibilità degli immobili e delle pertinenze di essi.
Nei Comuni
privi di un
piano regolatore generale, nel regolamento edilizio deve essere
incluso anche
il programma di fabbricazione, che è, come abbiamo visto, uno
strumento
urbanistico (simile al piano regolatore) diretto ad assicurare
quel minimo di
disciplina urbanistica indispensabile per un ordinato sviluppo
edilizio degli
abitati.
6.
Numerose sono
le leggi
speciali che dettano norme in materia edilizia per meglio regolamentare
l'attività edificatoria del privato. Passìamo ad
analizzare le più importanti.
a) Norme
antisismiche
Per le
costruzioni da
realizzare nei Comuni siti in zone sismiche, la legge del 2 febbraio
1974, n.
64 dispone alcune norme tecniche, cui i progettisti devono attenersi
per
garantire la sicurezza e l'incolumità pubblica, concernenti
l'altezza degli
edifici, le distanze tra essi, gli elementi strutturali, i sistemi
costruttivi
etc.
Chiunque
intenda
iniziare lavori edilizi in zone sismiche deve presentare una preventiva
denuncia al Comune e all'ufficio tecnico della Regione; unitamente
alla
domanda bisogna presentare il progetto in duplice copia firmato da un
ingegnere, architetto o geometra iscritto all'albo; è necessaria
inoltre
(tranne che nelle zone a bassa sismicità) un autorizzazione
preventiva all'inizio
dei lavori, rilasciata dall'ufficio tecnico della Regione (Genio
Civile).
Sono da
evidenziare in
materia antisismica anche il D.M. 16 gennaio 1996 contenente
«Norme tecniche
per le costruzioni in zone sismiche», e il D.M. 28 settembre
1998, n. 499
recante norme in materia di agevolazioni per i territori di Umbria e
Marche
colpiti da eventi sismici e per le zone ad elevato rischio sismico.
Il Testo unico
in
materia edilizia, nella seconda parte, contiene numerose disposizioni
relative
alle costruzioni in zone sismiche (artt. 83‑106), sostanzialmente
conformi alle
disposizioni della legge n. 6411974 che, si badi, non è stata
abrogata dal
predetto Testo unico.
b) Norme sulle
opere in
cemento armato
La legge 5
novembre
1971, n. 1086 disciplina le opere da realizzare in conglomerato
cementizio e
strutture metalliche, per la cui esecuzione è necessaria
una denuncia
preventiva e un collaudo statico successivo. II Testo unico in materia
edilizia
si occupa anche delle opere in conglomerato cementizio armato,
normale e
precompresso e a struttura metallica (artt. 6481) riproducendo il
disposto
della vecchia normativa. Sono opere in conglomerato cementizio armato
normale,
quelle composte da un complesso di strutture in conglomerato
cementizio e
armature che assolvono a una funzione statica. Sono opere in
conglomerato
cementizio armato precompresso, quelle composte di strutture in
conglomerato
cementizio e armature nelle quali si imprime artificialmente una stato
di
sollecitazione addizionale di natura ed entità tali da
assicurare
permanentemente l'effetto statico voluto. Sono opere a struttura
metallica
quelle nelle quali la statica è assicurata in tutto o in parte
da elementi
strutturali in acciaio o in altri metalli. Queste definizioni sono date
dall'art.
53 del Testo unico. La realizzazione delle opere in cemento armato deve
avvenire in modo tale da assicurare la perfetta stabilità e
sicurezza delle
strutture e da evitare qualsiasi pericolo per la pubblica
incolumità. Il
progetto della costruzione deve essere redatto da un tecnico abilitato,
iscritto nel relativo Albo. Le opere in cemento armato devono poi
essere denunciate,
prima del loro inizio, allo sportello unico dell'edilizia e devono
essere
sottoposte a collaudo statico. Il collaudo deve essere eseguito da un
ingegnere
o da un architetto esperto, iscritto all'Albo da almeno 10 anni, che
non sia
intervenuto in alcun modo nella progettazione e nella realizzazione
delle
opere.
c) Norme
sull'igiene
nell'edilizia
Il Testo unico
delle
leggi sanitarie del 27 luglio 1934, n. 1265 e i numerosi regolamenti
comunali
di igiene stabiliscono le condizioni minime di igiene nei fabbricati,
affinché
in tutte le abitazioni non manchino acqua e luce, vi sia un efficiente
sistema
di smaltimento delle acque luride senza alcun inquinamento del
suolo; l'acqua
potabile nei pozzi, nei serbatoi e nelle condutture non sia inquinata.
Il
contenuto dei regolamenti comunali di igiene è poi integrato dal
Decreto
Ministeriale 5 luglio 1975 che detta i requisiti minimi di altezza
interna dei
locali abitabili, le superfici minime abitabili, le norme sul
riscaldamento,
sulla illuminazione naturale, sulla ventilazione e sui bagni nelle
abitazioni
nonché le norme sull'isolamento acustico degli ambienti. La
legge 27 maggio
1975, n. 166 prevede poi ulteriori disposizioni sui servizi
igienici (che
possono in alcuni casi, essere privi di aerazione ed
illuminazione) e sulle
scale che possono anche essere prive di finestre. Altre norme sono
previste per
l'igiene degli ambienti di lavoro, come il D.Lgs. 19 settembre 1994, n.
626
che, in attuazione di direttive CE, disciplina il miglioramento della
sicurezza
e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro.
d) Norme sulle
barriere
architettoniche
Molteplici
sono i
provvedimenti destinati ad assicurare l'utilizzo di tutti gli spazi e
di tutti
gli edifici da parte dei portatori di handicap nonché ad
incentivare
l'eliminazione di qualsivoglia barriera architettonica (attraverso
l'abbattimento
di scale e scalini, la creazione di varchi sufficientemente larghi,
l'installazione
di ascensori etc.). Le leggi 30 marzo 1971, n. 118 e 5 febbraio 1992,
n. 104 ed
il D.P.R. 24 luglio 1996, n. 503 dettano norme per facilitare l'accesso
a
mutilati ed invalidi in tutti i luoghi pubblici (come gli uffici
comunali, le
Prefetture, gli ospedali etc.) e aperti al pubblico (teatri, cinema,
stadi
etc.) nonché nelle scuole. Per l'eliminazione delle barriere
architettoniche
negli edifici privati è intervenuta la legge 9 gennaio
1989, n. 13.
e) Norme per
la sicurezza
degli impianti
La materia
della
sicurezza degli impianti ha trovato una organica regolamentazione
con
gli impianti
di
produzione, di trasporto, di distribuzione e di utilizzazione
dell'energia
elettrica all'interno degli edifici;
gli impianti
radiotelevisivi ed elettronici in genere, le antenne e gli impianti di
protezione da scariche atmosferiche (parafulmini);
gli impianti
di
riscaldamento e di climatizzazione;
gli impianti
idrosanitari nonché quelli di trasporto, di trattamento, di uso,
di accumulo e
di consumo di acqua all'interno degli edifici;
gli impianti
per il
trasporto e l'utilizzazione di gas allo stato liquido o aeriforme
all'interno
degli edifici;
gli impianti
di
sollevamento di persone o di cose per mezzo di ascensori, di
montacarichi, di
scale mobili e simili;
gli impianti
di
protezione antincendio.
Sono abilitate
alla
installazione, trasformazione, ampliamento e manutenzione degli
impianti le
imprese iscritte negli appositi registri o albi e in possesso di
specifici
requisiti tecnico‑professionali. Per l'installazione, la trasformazione
e
l'ampliamento degli impianti è obbligatoria la redazione di
un progetto da
parte di professionisti, iscritti negli albi professionali nell'ambito
delle
rispettive competenze. Al termine dei lavori l'impresa
installatrice è tenuta
a rilasciare una dichiarazione di conformità delle opere
realizzate alle norme
di legge. Il Comune rilascia il certificato di abitabilità dopo
aver acquisito
la dichiarazione di conformità o il certificato di collaudo
degli impianti
installati, ove previsto. Il Testo unico in materia edilizia si occupa
anche
della sicurezza degli impianti (artt. 107‑121) riproducendo e
riordinando le
norme della legge n. 46/ 1990. Un'importante novità è
contenuta nell'art. 111,
che introduce una procedura semplificata per il collaudo degli
impianti:
qualora, infatti, il committente dichiari, prima dell'inizio dei
lavori, che
gli impianti da installare saranno collaudati da tecnici terzi che non
abbiano
partecipato in alcun modo alla progettazione, alla direzione e alla
realizzazione dell'opera, potrà essere esonerato
dall'obbligo di presentare il
progetto. In questo caso, però, la certificazione redatta
dal tecnico
collaudatore dovrà essere trasmessa allo sportello unico per
l'edilizia.
Per garantire
a tutti i
cittadini (anche ai ceti meno ricchi) il diritto alla casa, lo Stato
è
intervenuto con numerosi provvedimenti legislativi al fine di
incrementare
l'edilizia pubblica, cioè l'attività di costruzione di
alloggi popolari con finanziamenti
in tutto o in parte statali. Tali provvedimenti in alcuni casi si sono
limitati
a favorire l'attività creditizia, ossia la concessione di
mutui agevolati a
favore delle categorie più disagiate di cittadini, in altri casi
sono stati
diretti ad incentivare la costruzione di case di tipo popolare,
attraverso
esenzioni fiscali e finanziamenti delle opere di urbanizzazione.
Il
provvedimento più
importante è ancora la legge 18 aprile 1962, n. 167 (modificata
e integrata
dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865), che ha istituito i piani di zona
per
l'edilizia economica e popolare, da inquadrare nel piano regolatore
generale o
nel programma di fabbricazione, alfine di evitare che la programmazione
dell'edilizia economica e popolare assuma il carattere di una
pianificazione
settoriale, dunque non in linea con la pianificazione dell'intero
organismo
urbano.
Tali piani
furono
istituiti allo scopo di evitare che l'edilizia residenziale pubblica
continuasse a svilupparsi in modo disordinato e frammentario ed in zone
di
estrema periferia, prive di attrezzature e servizi complementari,
urbani e
sociali.
Il piano di
zona
(obbligatorio per tutti i Comuni tenuti a formare i programmi
pluriennali di
attuazione) deve, dunque, individuare le aree dove costruire case
economiche e
popolari, scegliendole di regola, nelle zone destinate ad edilizia
residenziale nei piani regolatori e preferibilmente in quelle di
espansione
dell'aggregato urbano. Qualora ciò non sia possibile, i piani di
zona possono
introdurre modifiche ai piani regolatori, che costituiscono vere e
proprie
varianti agli stessi. Il piano di zona ha efficacia per 18 anni. Tale
termine,
comunque, può essere prorogato dalla Regione, su richiesta del
Comune, in
presenza di valide e motivate ragioni. L’approvazione del piano
comporta la
dichiarazione di pubblica utilità di opere, impianti ed edifici
in esso
previsti e tutte le aree comprese nel piano vanno acquisite per
espropriazione.
Una porzione
di tali
aree andrà a far parte del demanio comunale ed il Comune
potrà soltanto cedere,
a coloro che intendano promuovere iniziative costruttive, il diritto di
superficie (per una durata non inferiore a 60 anni e non superiore a 99
anni).
La porzione residua può essere venduta a cooperative o singoli
acquirenti che siano
in possesso dei requisiti previsti dalle disposizioni vigenti per
l'assegnazione
degli alloggi economici e popolari. Il legislatore (con la legge 5
agosto 1978,
n. 457) è intervenuto anche per disciplinare gli interventi di
recupero del
patrimonio edilizio degradato, prevedendo per essi un nuovo
strumento
urbanistico, i piani di recupero. Come abbiamo già visto, le
zone di recupero
sono individuate nei piani regolatori generali, mentre il piano di
recupero
(approvato dal Comune) deve individuare i vari tipi di intervento
previsti sui
singoli immobili che presentano condizioni di degrado o dove sono
carenti le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria; deve individuare,
inoltre, le
risorse economiche disponibili per l'attuazione del piano stesso,
nonché le
opere che devono essere realizzate direttamente dal Comune o dai
privati.
t:individuazione
delle
zone di recupero può comprendere: immobili singoli, complessi
edilizi,
isolati, aree ed edifici da destinare ad attrezzature, per i quali
appaiono opportuni
interventi di conservazione, risanamento, ricostruzione o anche solo di
migliore utilizzazione.
I Comuni
possono
provvedervi:
in sede di
formazione
del piano regolatore generale o del programma di fabbricazione;
oppure,
qualora tali
strumenti siano già stati adottati, con apposita delibera del
Consiglio
comunale.
8. I PARCHEGGI
L'emergenza
parcheggi,
cioè la carenza di posti auto coperti o scoperti destinati
alla sosta dei
veicoli, è uno dei più grossi problemi che le
amministrazioni comunali, soprattutto
delle grandi città, sono chiamate attualmente ad affrontare.
Anche in
questo
settore, il legislatore è più volte intervenuto dettando
norme diverse per due
tipi di parcheggio, quello pubblico e quello privato.
a) Parcheggi
pubblici
Secondo quanto
dispone
il D.M. 2 aprile 1968, i Comuni nella formazione dei loro piani
urbanistici
devono riservare per ogni cittadino almeno 2,5 mq di superficie da
adibire a
parcheggio pubblico (ma tale disposizione non è quasi mai stata
rispettata).
b) Parcheggi
privati
La legge
fondamentale
in materia è la legge 24 marzo 1989, n. 122 (detta anche legge
Tognoli, dal
nome del suo promotore): essa dispone che in tutti gli edifici nuovi
devono
essere riservate a parcheggio delle aree, in misura non inferiore a 1
mq per
ogni 10 mc di costruzione (praticamente
9. DALLA
CONCESSIONE
EDILIZIA AL PERMESSO DI COSTRUIRE
L'attività
edilizia non
è libera per il privato; questo, infatti, per poter
eseguire un qualunque tipo
di intervento edilizio, deve ottenere l'assenso, esplicito o
implicito,
dell'autorità comunale. La legge 28 gennaio 1977, n.
Il
procedimento per
ottenere la concessione è alquanto articolato. Esso consta delle
seguenti fasi:
presentazione
della
domanda di concessione da parte del privato, corredata da un regolare
progetto
e dai relativi disegni e planimetrie. Può presentare la domanda
il proprietario
del bene sul quale deve compiersi la trasformazione urbanistica o
edilizia, ma
anche chi è titolare di un diritto di usufrutto o di
superficie ed in generale
chiunque ha, secondo le norme del diritto civile, il diritto di
costruire sopra
un bene altrui;
al momento
della presentazione
della domanda, il Comune comunica all'interessato il nome del
responsabile del
procedimento;
l'esame delle
domande
deve svolgersi secondo l'ordine di presentazione;
entro 60
giorni dalla
presentazione della domanda (sono 120 giorni nel caso di Comune con
più di
100.000 abitanti), il responsabile del procedimento deve redigere una
relazione
da cui risulti la valutazione della conformità del progetto alle
prescrizioni
urbanistiche ed edilizie. Il responsabile del procedimento deve anche
richiedere il parere della Commissione edilizia comunale, che
però non è mai
vincolante;
trascorsi i 60
(o 120)
giorni, il responsabile del procedimento, entro 10 giorni, deve
redigere
un'altra relazione, in cui formula la sua opinione circa l'emanazione
della
concessione;
nei successivi
15
giorni il dirigente dell'ufficio tecnico del Comune deve rilasciare la
concessione edilizia, qualora il progetto presentato non sia in
contrasto con
le prescrizioni degli strumenti urbanistici ed edilizi o con le
altre
prescrizioni di legge. In caso contrario deve rifiutare il rilascio
della
concessione;
se entro 15
giorni
l'autorità comunale non provvede al rilascio (o al diniego)
della concessione,
l'interessato può invitarla ad emanare la concessione nei
successivi 15 giorni.
Se anche dopo questo sollecito, il dirigente comunale non provvede,
può essere
chiesta alla Giunta Regionale la nomina di un commissario ad acta che
provvederà all'adozione di un provvedimento con gli stessi
effetti della
concessione edilizia.
Allo scopo di
evitare
che una costruzione autorizzata in un determinato momento venga
realizzata
quando la situazione ambientale ed urbanistica è mutata,
nell'atto di
concessione devono essere fissati il termine di inizio dei lavori
(non
superiore ad un anno) e quello di ultimazione degli stessi (non
superiore ai
tre anni). Se non vengono rispettati questi termini, la concessione
decade.
Come abbiamo
già visto,
il rilascio della concessione è subordinato al pagamento da
parte del
richiedente, di una somma di danaro (contributo o onere concessorio),
articolata in due quote:
una
commisurata alle
spese che il Comune deve affrontare per le opere di urbanizzazione
primaria e
secondaria (per realizzare cioè strade, fognature, rete
elettrica, edifici
sanitari, scolastici, impianti sportivi etc.);
l'altra
è
proporzionalmente commisurata al costo di costruzione dell'edificio e
determinata
dalla Regione in funzione delle caratteristiche di costruzione,
destinazione e
ubicazione.
La quota di
contributo
per gli oneri di urbanizzazione deve essere corrisposta al Comune
all'atto del
rilascio della concessione (può anche essere rateizzata); la
quota di
contributo commisurata al costo di costruzione deve essere versata
nel corso
dell'opera e le relative modalità di pagamento vengono indicate
dal Comune
nell'atto di concessione.
Con il Testo
unico in
materia edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), la cui entrata in
vigore è
fissata al 30 giugno 2003 (salvo proroghe), la concessione edilizia
è stata
sostituita dal permesso di costruire. In realtà si tratta solo
di una modifica
terminologica, perché in sostanza l'istituto è rimasto lo
stesso. In parte,
invece, è cambiata la procedura.
Tra le
novità
introdotte dal Testo urico in materia edilizia vi è quella
dell'introduzione
dello sportello unico per l'edilizia destinato a semplificare la
procedura di
rilascio. In questo modo gli interessati non dovranno più
rivolgersi a uffici
diversi e presentare più domande distinte in relazione ad un
medesimo
procedimento.
La domanda per
ottenere
il rilascio del permesso di costruire va, infatti, presentata allo
sportello
unico per l'edilizia, corredata dagli elaborati progettuali
nonché da
un'autocertificazione circa la conformità del progetto alle
norme igienico
sanitarie.
Lo sportello
unico,
entro 10 giorni (20, nei Comuni con più di 100.000 abitanti)
dalla
presentazione della domanda, comunica all'interessato il nominativo del
responsabile del procedimento, che entro 60 giorni (120 nei Comuni con
più di
100.000 abitanti) deve curare la pratica e acquisire i necessari pareri
degli
uffici comunali, nonché dell'ASL e dei Vigili del Fuoco.
Entro 15
giorni dalla
formulazione della proposta del responsabile del procedimento, il
dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale deve adottare il
provvedimento
finale (rilascio o diniego del permesso). Trascorso inutilmente questo
termine,
la domanda si intende rifiutata e quindi il permesso di costruire
è negato.
Possono essere
realizzati solo se il Comune rilascia il permesso di costruire
(art. 10 Testo
unico) i seguenti interventi:
le nuove
costruzioni,
cioè la costruzione di nuovi edifici fuori terra o
interrati, ovvero
l'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma
esistente;
gli interventi
di
ristrutturazione urbanistica;
gli interventi
di
ristrutturazione edilizia che comportano aumento di unità
immobiliari,
modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ovvero
che limitatamente agli immobili dei centri storici, comportino
mutamenti della
destinazione d'uso.
L'articolo 3
del Testo
unico definisce le varie tipologie di intervento e per la prima volta
dà la
definizione di nuova costruzione, che in passato aveva creato non pochi
problemi a privati e Comuni per la sua individuazione.
Riportiamo il
testo
dell'articolo 3:
«Art. 3
(L) ‑
Definizioni degli interventi edilizi.
1. Ai fini del
presente
testo unico si intendono per:
interventi di
manutenzione ordinaria, gli interventi edilizi che riguardano le opere
di
riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli
edifici e quelle
necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti
tecnologici
esistenti;
interventi di
manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per
rinnovare e
sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per
realizzare ed
integrare i servizi igienicosanitari e tecnologici, sempre che non
alterino i
volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non
comportino
modifiche delle destinazioni di uso;
interventi di
restauro
e di risanamento conservativo, gli interventi edilizi rivolti a
conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante
un insieme
sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni
d'uso con essi
compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il
ripristino e il
rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli
elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione
degli elementi estranei all'organismo edilizio;
interventi di
ristrutturazione edilizia, gli interventi rivolti a trasformare gli
organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad
un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi
ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
sono
ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione
con la
stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica;
interventi di
nuova costruzione,
quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti
nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da
considerarsi
tali:
e. 1) la
costruzione di
manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l'ampliamento di
quelli
esistenti all'esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli
interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6);
e.2) gli
interventi di
urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal
comune;
e.3) la
realizzazione
di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che
comporti la
trasformazione in via permanente di suolo inedificato;
e.4)
l'installazione di
torri e tralicci per impianti radio‑ricetrasmittenti e di ripetitori
per i
servizi di telecomunicazione;
e.5)
l'installazione di
manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi
genere,
quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati
come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e
simili, e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee;
e.6) gli
interventi
pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in
relazione
alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree,
qualifichino
come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la
realizzazione di
un volume superiore al 20% del volume dell'edificio principale;
e.7) la
realizzazione
di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per
attività
produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui
consegua la
trasformazione permanente del suolo inedificato;
interventi di
ristrutturazione urbanistica, quelli rivolti a sostituire l'esistente
tessuto
urbanistico‑edilizio con altro diverso, mediante un insieme
sistematico di
interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti,
degli
isolati e della rete stradale.
2. Le
definizioni di
cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti
urbanistici
generali e dei regolamenti edilizi. Resta fermala definizione di
restauro
prevista dall'articolo 34 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n.
490
(Testo unico sui beni culturali e ambientali)».
Per alcuni
tipi di
intervento, non è necessaria la concessione edilizia, ma
è sufficiente ottenere
dal Comune un'autorizzazione gratuita, per la quale è prevista
anche una
procedura più semplice di rilascio che non prevede il
pagamento di alcun
contributo concessorio.
Possono essere
realizzati in base ad autorizzazione gratuita:
gli interventi
di
manutenzione straordinaria, cioè quegli interventi che non sono
diretti alla
conservazione e al mantenimento dell'immobile, ma incidono
direttamente su
parti (anche strutturali) dell'edificio, come la realizzazione di
scale, il
rifacimento di solai etc.;
gli interventi
di
restauro e di risanamento conservativo diretti al recupero abitativo di
edifici
preesistenti;
le opere
costituenti
pertinenze o impianti tecnologici al servizio di edifici già
esistenti;
le occupazioni
di suolo
mediante deposito di materiale o esposizione di merci a cielo libero;
le opere
di demolizione; i reintegri e gli scavi;
gli interventi
finalizzati al superamento e all'eliminazione di barriere
architettoniche negli
edifici privati, consistenti in rampe o ascensori ovvero in manufatti
che
alterino la sagoma dell'edificio;
gli interventi
rivolti
alla realizzazione di parcheggi privati, da effettuare (anche in deroga
agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti) nei locali siti
al
piano terreno ovvero nel sottosuolo dei fabbricati.
L:autorizzazione
gratuita è stata soppressa dal Testo unico in materia
edilizia, per il quale
tutti gli interventi sono subordinati a seconda dei casi, al permesso
di
costruire o alla denuncia di inizio attività.
Per accelerare
la
procedura di autorizzazione degli interventi edilizi di minor
impatto, la
legge n. 662/1996 ha previsto la possibilità di realizzare
alcune opere
presentando una semplice denuncia di inizio attività. Tale
denuncia
(accompagnata dagli opportuni elaborati tecnici e progetti) deve essere
presentata
dal proprietario dell'immobile, al Comune almeno 20 giorni prima
dell'inizio
dei lavori, insieme ad una relazione di un progettista che accerti la
conformità delle opere da realizzare, agli strumenti urbanistici
e ai regolamenti
edilizi, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle
igienicosanitarie.
Il progettista
abilitato deve emettere, inoltre, alla fine dei lavori, un
certificato di
collaudo che attesti la conformità dell'opera al progetto
presentato.
La d.i.a. ‑
che è
gratuita, non comporta cioè per il privato il pagamento di alcun
contributo
concessorio ‑ è finalizzata a consentire il controllo
dell'Amministrazione
comunale soprattutto in ordine alla correttezza della
qualificazione dell'intervento
che si vuole realizzare e quindi in ordine all'effettivo rispetto
della
normativa urbanistica ed edilizia e delle vigenti prescrizioni
tecnico‑edilizie.
Il Comune, infatti, deve verificare, nei 20 giorni concessi prima
dell'inizio
dei lavori, il rispetto delle leggi e degli strumenti urbanistici.
Qualora il
progetto non rispettasse le leggi o gli strumenti urbanistici, il
Comune può
vietare l'inizio dei lavori.
Gli interventi
che sono
eseguibili presentando la semplice denuncia di inizio
attività sono stati
recentemente estesi dalla legge 21 dicembre 2001, n.443 (cd. legge
obiettivo).
Si tratta di interventi che spesso sono già assoggettati a
concessione edilizia
o ad autorizzazione gratuita; in questo caso il proprietario può
scegliere se seguire
le procedure ordinarie e più complesse o procedere con la d.i.a.
È ovvio che
qualora si tratti di interventi per i quali la legge assoggetta a
concessione
edilizia e, quindi, per i quali è previsto il pagamento degli
oneri concessori,
la d.i.a. perde il suo carattere di gratuità: il privato si
troverà a pagare
gli oneri concessori anche nel caso in cui scelga il regime
semplificato della
d.i.a.
La legge n.
443/2001
che ha introdotto la cd. superdia ha avuto un impatto dirompente dal
momento
che oltre a confermare il regime semplificato per quegli interventi che
già
prima erano soggetti a d.i.a. (interventi edilizi minori, come opere di
manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, opere
di
eliminazione delle barriere architettoniche consistenti in rampe o
ascensori
esterni, recinzioni, muri di cinta e cancellate, opere interne di
singole unità
immobiliari che non comportino modifiche della sagome e dei
prospetti,
realizzazione di volumi tecnici etc.), lo ha esteso anche ad altri
interventi
di forte impatto edilizio:
ristrutturazioni
edilizie, ivi comprese la demolizione e la ricostruzione dell'edificio
identico;
tutti gli
interventi
sottoposti a concessione edilizia (questa è veramente una
rivoluzione!), alla
sola condizione che gli stessi siano disciplinati specificatamente nei
piani
attuativi approvati dal Comune (piani regolatori, programmi di
fabbricazione,
piani di lottizzazione, regolamenti edilizi), che devono contenere
precise
disposizioni planovolumetriche, tipologiche, formali e costruttive. In
sintesi,
in questi casi il controllo del Comune sulle attività edilizie
ed in
particolare sulle nuove costruzioni non avviene al momento della
presentazione
della domanda di concessione edilizia, ma prima, al momento della
stesura ed
approvazione degli strumenti urbanistici di attuazione;
i sopralzi, le
addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in diretta
esecuzione di
altri strumenti urbanistici e di attuazione. Attualmente, dunque, sono
soggetti
a denuncia di inizio attività:
gli interventi
edilizi
minori quali:
a) le opere di
manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo;
b) le opere di
eliminazione delle barriere architettoniche in edifici esistenti
consistenti
in rampe o ascensori esterni, ovvero in manufatti che non alterino la
sagoma
dell'edificio;
c) recinzioni,
muri di
cinta e cancellate;
d) la
realizzazione di
aree destinate ad attività sportive senza creazione di
volumetria;
e) le opere
interne di
singole unità immobiliari che non comportino modifiche
della sagoma e dei
prospetti e non rechino pregiudizio alla statica dell'immobile;
f) la
revisione o
installazione di impianti tecnologici al servizio di edifici o di
attrezzature
esistenti e la realizzazione di volumi tecnici che si rendano
indispensabili,
sulla base di nuove disposizioni;
g) le varianti
a
concessioni edilizie già rilasciate che non incidano sui
parametri urbanistici
e sulle volumetrie, che non cambiano la destinazione d'uso e la
categoria
edilizia e non alterino la sagoma e non violino le eventuali
prescrizioni
contenute nella concessione edilizia;
h) la
realizzazione di
parcheggi di pertinenza nel sottosuolo del lotto su cui insiste il
fabbricato;
le
ristrutturazioni
edilizie, comprensive della demolizione. e ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma;
gli interventi
sottoposti a concessione, se sono specificatamente disciplinati da
piani
attuativi che contengano precise disposizioni plano-volumetriche,
tipologiche,
formali e costruttive;
i sopralzi, le
addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in esecuzione
di idonei
strumenti urbanistici attuativi.
Inizialmente,
il
procedimento della denuncia di inizio attività non era
ammesso per gli
immobili vincolati (per i quali era richiesta sempre la
concessione edilizia)
o comunque compresi in zona vincolata a fini di tutela
paesaggistica,
ambientale, storico‑archeologica, storico‑artistica e
storico‑architettonica.
Oggi, invece,
il T .U.
sui beni culturali e ambientali (D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490)
prevede la
procedura della denuncia di inizio attività anche pergli
immobili vincolati;
dopo aver ottenuto il parere favorevole della Sovrintendenza
sull'intervento da
realizzare è possibile presentare, per gli interventi di
restauro su beni
sottoposti a vincolo storico‑culturale, la denuncia di inizio
attività.
Il regime che
abbiamo
fin qui esposto sulla denuncia dì inizio attività, cosi
come regolato in
seguito alla legge n. 44312001, è in contrasto con il Testo
unico
dell'edilizia, tanto che si è reso necessario modificarlo prima
ancora della
sua entrata in vigore.
Nella sua
formulazione
originaria, il Testo unico n.
In base al
D.Lgs. 27‑12‑2002,
n. 301 che ha modificato gli articoli 22 e 23 del Testo unico in
materia
edilizia possono essere realìzzati mediante denuncia di inizio
attìvità, in
alternativa at permesso di costruire:
gli interventi
di
ristrutturazione;
gli interventi
di nuova
costruzione o di ristrutturazione urbanistica qualora siano
disciplinati da
piani attuativi che contengono precise disposizioni planovolumetriche,
tipologiche, formali e costruttive;
gli interventi
di nuova
costruzione qualora siano ìn diretta esecuzione di strumenti
urbanistici
generali recanti precise disposizioni plano‑volumetriche.
Il T.U. n.
380/2001
aumenta inoltre i termini della d.i.a.: il proprietario dell'immobile
deve
presentare la denuncia di inizio attività almeno 30 giorni
(sotto il precedente
regime, i giorni erano 20) dell'effettivo inizio dei lavori,
accompagnata dagli
opportuni elaborati progettuali e da una dettagliata relazione a firma
di un
progettista abilitato che asseveri la conformità delle opere da
realizzare agli
strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, nonché
il rispetto
delle norme di sicurezza e di quelle igienico sanitarie. Il progettista
abilitato deve rilasciare, inoltre, un certificato di collaudo finale,
che
attesti la conformità dell'opera al progetto presentato.
10. IL
CERTIFICATO DI
ABITABILITA’
Una volta
ultimati i
lavori, le opere realizzate possono essere utilizzate solo in seguito
al
rilascio di un'autorizzazione da parte del Comune (L. n. 127/ 1998),
chiamata
licenza (o certificato) di abitabilità, se si tratta di edifici
destinati ad
uso abitativo, o licenza di agibilità, se si tratta di edifici
ad uso non
abitativo (negozi, industrie, uffici etc.). Con tale autorizzazione il
Comune
si accerta che nelle nuove costruzioni sia garantita la salvaguardia
della
salute dei cittadini in ogni ambiente di vita e di lavoro.
Il
proprietario di un
immobile per poterlo utilizzare, deve chiedere all'autorità
comunale il
certificato di abitabilità. Alla domanda devono essere
allegati:
la richiesta
del
certificato di collaudo per le costruzioni in conglomerato cementizio
armato ed
a struttura metallica;
la
dichiarazione per
l'iscrizione al catasto;
una
dichiarazione del
direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria
responsabilità, la
conformità delle opere rispetto al progetto approvato,
l'avvenuta
prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti.
Il Comune
può disporre
un'ispezione da parte degli uffici comunali per verificare l'esistenza
dei
requisiti richiesti per la dichiarazione di abitabilità. Il
Comune, però, deve
rilasciare il certificato, o rifiutarlo, entro 30 giorni dalla data di
presentazione della domanda.
Trascorsi 45
giorni
dalla presentazione della domanda, l'abitabilità si
intende, comunque,
attestata anche nel silenzio dell'amministrazione comunale.
Il Testo unico
in
materia edilizia ha abrogato tutte le disposizioni precedentemente
citate e ha
disciplinato il rilascio del certificato di agibilità, di cui ha
provveduto a
semplificare il procedimento.
È stata
in primo luogo
apportata una modifica di tipo terminologico: mentre prima, come
abbiamo detto,
si faceva distinzione, non senza qualche confusione, tra licenza di
abitabilità
per gli immobili ad uso abitativo, e licenza di agibilità per
gli immobili non
residenziali, il T.U. ha eliminato il duplice riferimento. Per cui con
l'entrata in vigore del T.U. esiste solo il certificato di
agibilità.
A norma
dell'art. 25
del T.U. n. 380/2001 il soggetto titolare del permesso di costruire o
il
soggetto che ha presentato la d.i.a., entro 15 giorni dall'ultimazione
dei
lavori di finitura dell'immobile, deve presentare allo sportello
unico
comunale:
la richiesta
di
rilascio del certificato di agibilità;
la richiesta
di
accatastamento dell'edificio;
il certificato
di
collaudo e tutte le altre attestazioni della conformità
dell'opera e degli
impianti al progetto approvato e alle norme di legge.
Lo sportello
unico deve
comunicare al richiedente entro 10 giorni dalla ricezione dell'istanza,
il
nominativo del responsabile del procedimento, che può disporre
anche
un'ispezione. Egli pero deve rilasciare il certificato o rifiutarlo,
entro 30
giorni dalla data di presentazione della domanda.
Per abusivismo
edilizio
si intende quel fenomeno, purtroppo in Italia quanto mai diffuso e
generalizzato, concernente la costruzione di edifici e la
realizzazione di
opere in contrasto con le leggi e i piani urbanistici emanati dai
Comuni.
Nonostante l'ordinamento giuridico preveda sanzioni molto severe per
chi
costruisce in violazione delle norme urbanistiche, si tratta di un
fenomeno
difficile da arginare, dal momento che nella coscienza sociale è
ancora
considerato un diritto intangibile del proprietario intervenire con
opere edilizie
sul proprio immobile, soprattutto quando si tratta di costruire la casa
per sé
e per la propria famiglia. In senso stretto è abusivo l'immobile
costruito in
difformità o in mancanza di concessione edilizia (ora permesso
di costruire).
In senso più ampio può essere definito abusivo ogni
immobile costruito in
violazione di norme di legge come ad esempio le opere edificate in
violazione
dei vincoli paesistici, storici, stradali e ferroviari; vi
rientrano anche le
costruzioni su suolo demaniale.
La legge 28
luglio
1985, n. 47 reprime severamente gli abusi edilizi ed urbanistici,
prevedendo
tre tipi principali di sanzioni: amministrative, civili e
penali.
a) Sanzioni
amministrative
Se viene
accertata
un'irregolarità edilizia, il Comune deve in primo luogo ordinare
la sospensione
dei lavori, al fine di impedire che dalla prosecuzione dei lavori
abusivi
derivi un danno di maggiori dimensioni.
A seconda del
tipo di
violazione edilizia commessa, la legge prevede poi diversi tipi di
sanzione
amministrativa:
se si tratta
di opere
realizzate in assenza di concessione (ossia per il compimento di
quell'opera
la legge richiede la concessione edilizia che però non è
stata chiesta), in
totale difformità o con variazioni essenziali (ossia la
concessione edilizia è
stata chiesta ma poi è stata realizzata un'opera
sostanzialmente diversa da
quella descritta nei progetti presentati al Comune), il dirigente
dell'ufficio
comunale deve ingiungere la demolizione dell'opera abusiva, al fine di
ripristinare lo stato dei luoghi, ovvero riportare la situazione a
quella che
era prima dell'abuso. Per le opere realizzate in assenza di
concessione, in
totale difformità o con variazioni essenziali, si applicano
anche le sanzioni
penali;
se si tratta
di opere
eseguite senza autorizzazione gratuita o in difformità, il
responsabile
dell'abuso verrà condannato al pagamento di una sanzione
pecuniaria pari al
doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile conseguente
alla
realizzazione delle opere stesse e comunque in misura non inferiore a
258 euro;
nei casi in
cui
l'esecuzione di interventi edilizi e sul territorio poteva essere
preceduta
dalla denuncia di inizio attività, dovrà applicarsi una
sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile
conseguente alla
realizzazione delle opere eseguite e comunque mai inferiore a 516 euro.
b) Sanzioni
civili
Accanto alle
sanzioni
amministrative volte a colpire in modo diretto l'attività
abusiva di
trasformazione del territorio, la legge n. 47/1985 ha previsto anche
altre
misure destinate ad arginare il fenomeno dell'abusivismo,
prevalentemente
rivolte a limitare e ad impedire la circolazione di edifici e parti di
essi
illegittimamente costruiti: in sostanza chi è proprietario di un
immobile
abusivo non può venderlo o trasferirlo a terzi. Sono, infatti,
dichiarati nulli
gli atti di disposizione (vendita, permuta, donazione etc.) di edifici
o loro
parti (realizzati dopo il 1985) se in essi non sono indicati gli
estremi della
concessione edilizia (o del condono): ovviamente se si tratta di
immobili abusivi,
realizzati cioè senza concessione, tali estremi non potranno
essere indicati
e, dunque, gli atti saranno nulli (si ricorda che il notaio deve
rifiutare la
stipula di atti nulli).
c) Sanzioni
penali
Sono
ovviamente queste
le sanzioni più gravi in cui può incorrere il
responsabile di un abuso
edilizio: la realizzazione di opere abusive è, infatti,
considerata reato,
punito con la reclusione fino a 2 anni e con l'ammenda fino a 51645
euro (lire
100 milioni). Esse sono disposte, in aggiunta alle sanzioni
amministrative,
solo contro chi realizza opere senza o in difformità di
concessione edilizia,
non anche contro chi esegue opere in mancanza di autorizzazione
gratuita o
denuncia di inizio attività. II Testo unico in materia edilizia
ha abrogato gli
articoli della legge n. 47/ 1985 sulle sanzioni contro gli abusi
edilizi, mali
ha sostituiti con norme del tutto identiche, per cui la disciplina fin
qui
esposta è rimasta invariata.
Di fronte al
dilagare
del fenomeno dell'abusivismo edilizio, le autorità si sono
trovate nell'impossibilità
di reprimere tutti gli abusi edilizi commessi ed il legislatore
è dovuto più
volte intervenire per sanare (ossia rendere legittime) molte opere
realizzate
in contrasto con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie e in assenza
o in
difformità di concessione.
La legge n.
47/1985
dispose così la possibilità di condonare, dietro
pagamento al Comune di
un'oblazione, cioè di una somma di danaro, le costruzioni
ultimate entro il 1°
ottobre 1983 ed eseguite senza concessione edilizia o autorizzazione,
ovvero in
difformità dalle stesse. Fu questo il primo condono edilizio.
L’eccessivo
numero di
domande di condono presentate paralizzò il sistema burocratico
tanto che il
legislatore dovette disporre un secondo condono con l'art. 39 della
legge 23
dicembre 1994, n. 724, per le opere ultimate entro il 31 dicembre 1993.
Per entrambi i
condoni
furono previsti dei termini (ormai scaduti) entro i quali i privati
avrebbero
dovuto presentare domanda per ottenere la sanatoria: tutte le opere
abusive per
le quali la domanda di condono non fu presentata non sono, dunque,
più
condonabli.
L’art.
13 della legge
n. 47/1985 (corrispondente all'articolo 36 del Testo unico) prevede poi
una
sanatoria generale per le opere che seppur realizzate in assenza o in
difformità dalla concessione richiesta per la loro
esecuzione, sono
sostanzialmente conformi alla legge e agli strumenti urbanistici (si
parla a
proposito di abusi meramente formali), dietro pagamento di una somma di
danaro
(oblazione).
I finanziamenti
1. IL MUTUO
Il mutuo
è «il
contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all'altra
(mutuatario) una
determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e
I’altra si obbliga
a restituire altrettante cose della stessa specie e
qualità» (1813 c.c.).
Effetto
essenziale del
mutuo è, quindi, il trasferimento della proprietà della
cosa al mutuatario e la
liberazione di quest'ultimo ha luogo se, alla scadenza stabilita, egli
trasferisce al mutuante la stessa quantità di cose, dello stesso
genere di
quelle oggetto del mutuo.
Si tratta, in
sostanza,
di un prestito di consumazione, definito dagli economisti
come «lo
scambio tra moneta presente e la promessa di moneta futura».
2. DISCIPLINA
Come abbiamo
già visto,
incombono al mutuatario:
3. IL MUTUO
BANCARIO
A)
Generalità
in base alla
definizione di mutuo fornita dal codice civile ed alla relativa
disciplina,
numerose sono le forme di prestiti a medio e lungo termine, concesse
dagli
istituti di credito, che potrebbero rientrare in tale tipologia
contrattuale.
In
realtà il mutuo
bancario presenta dei connotati precisi che lo distinguono da ogni
altra forma
di prestito.
II mutuo
bancario è un
prestito monetario, accordato dalla banca con scadenza differita
nel tempo, in
base al quale il beneficiario, ricevuta la somma in prestito (di solito
in
un'unica soluzione), si obbliga alla restituzione graduale
dell'intero importo
e degli interessi maturati, attraverso rimborsi periodici (con
cadenza
mensile, trimestrale, semestrale o annuale). Esso rientra nelle
operazioni di
credito fondiario che hanno per oggetto la concessione da parte delle
banche di
finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca
sull'immobile (art.
38, D.Lgs. 385/1993). Dunque, la costituzione di un'ipoteca
sull'immobile, è
un atto necessario affinché si possa parlare di mutuo,
altrimenti saremmo in
presenza di un semplice prestito di denaro.
In ogni caso
la
valutazione dell'istituto di credito su qualsiasi domanda di mutuo, ai
fini
della concessione dello stesso, tiene conto principalmente della
capacità
reddituale del soggetto richiedente, accertata dai modelli di
dichiarazione
dei redditi presentati (modello Unico, modello 730).
Inoltre il
richiedente
il mutuo, deve presentare, fra gli altri, i seguenti documenti:
-
la relazione
preliminare sull'immobile a
cura del notaio;
-
l'atto di
provenienza dell'immobile;
-
il contratto
preliminare;
-
la relazione
definitiva sull'immobile a cura
del notaio.
La banca
all'atto della
stipula del contratto si accorda con il mutuatario sulle
modalità da seguire
per la restituzione di quanto da questi dovuto. Le parti concordano
dunque un
piano di ammortamento (solitamente proposto dalla banca e accettato dal
cliente), nel quale sono stabiliti, tra l'altro, la
periodicità e l'ammontare
delle rate.
La scelta del
piano di
rimborso è effettuata, in genere, sulla base di due
procedimenti, il primo più
adatto ai mutui a tasso variabile, il secondo adottato
maggiormente per i
mutui a tasso fisso:
-
rimborso a
rate posticipate decrescenti:
la rata si compone di una quota capitale costante e di una quota
interessi
decrescente, calcolata sul debito residuo;
-
rimborso a
rate posticipate costanti:
la rata è comprensiva di una quota capitale che aumenta nel
corso della durata
del prestito e di una quota interessi decrescente.
Le componenti
del costo
di un mutuo sono molteplici (spese notarili, commissioni bancarie,
imposte
etc.) ma tra esse un'incidenza determinante ha senza dubbio il tasso
d'interesse che può essere fisso o variabile in
conformità di specifici
parametri di indicizzazione (tasso interbancario di riferimento,
Euribor, prime
rate ABI, rendimento dei titoli di Stato).
Il tasso
d'interesse,
praticato nelle operazioni di mutuo (così come in tutte le
operazioni bancarie
che prevedono un interesse), deve essere fissato nel rispetto di quanto
previsto dalla L. 7‑3‑1996, n. 108 sull'usura e dai provvedimenti
concernenti
la rilevazione del tasso effettivo medio ai sensi della medesima
legge.
Tale aspetto
è
particolarmente delicato per i contratti di mutuo in quanto, date le
peculiarità del contratto in esame, non pochi sono i casi in cui
nei mutui
accesi in passato sono pattuiti tassi considerati usurari in base alla
disciplina vigente.
Tra le
soluzioni
maggiormente adottate dalle banche per regolarizzare i contratti in
corso, vi
sono la rinegoziazione dei mutui in questione o anche l'estinzione
anticipata e
la contestuale stipulazione di un nuovo contratto che preveda
condizioni di
tasso commisurate ai livelli dei tassi attuali.
Restando in
tema di
tassi vale la pena ricordare che anche il mutuo rientra fra le
operazioni
bancarie disciplinate dalla delibera CICR del 9‑2‑2000, recante
disposizioni
in materia di anatocismo bancario, pertanto pare opportuno
soffermarsi
brevemente sui punti salienti della citata disciplina.
In
particolare, la
delibera dedica un intero articolo ai finanziamenti con piano di
rimborso
rateale, tra i quali il mutuo è senza dubbio il contratto
maggiormente
rappresentativo, in cui è stabilito che in tali forme di
operazioni l'importo
dovuto per ciascuna rata può, in caso di inadempimento,
produrre interessi a
decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento,
purché ciò
sia stabilito contrattualmente.
Su questi
interessi non
è però consentito l'anatocismo (art. 3, 1° comma,
delibera CICR 9‑2‑2000). La
capitalizzazione periodica, secondo quanto previsto dal CICR, non
è, inoltre,
consentita sugli interessi maturati, in caso di risoluzione del
contratto per
mancato pagamento.
In tale
situazione la
delibera prevede, infatti, che l'importo complessivamente dovuto
può, se
contrattualmente stabilito, produrre interessi dalla data di
risoluzione del
contratto, ma questi a loro volta non possono produrre altri interessi.
Diverso
è invece il
caso in cui il pagamento delle rate avviene mediante regolamento in
conto
corrente, poiché in tale circostanza si applicano le
disposizioni che la
stessa delibera CICR prevede per le operazioni di conto corrente.
Ricordiamo
che, ove
previsto dal contratto, è possibile anche estinguere
anticipatamente il mutuo,
generalmente con l'applicazione di una penale la cui misura può
variare dall'1%
al 4% sul debito residuo. Inoltre nel caso perisca o si deteriori
il bene su
cui è stata costituita l'ipoteca, la banca può
chiedere la risoluzione del
contratto di mutuo.
Una volta
estinto il
mutuo, la banca rilascia l'assenso alla cancellazione dell'ipoteca,
anche se la
cancellazione vera e propria non è un atto dovuto.
Il pagamento
degli
interessi costituisce un'obbligazione accessoria rispetto
alla prestazione
principale, commisurata ad un'aliquota di questa e che si aggiunge ad
essa per
effetto del decorso del tempo.
I tassi di
interesse
sono calcolati sulla base dell'Euribor (Euro Interbank Offered
Rate) che
costituisce il tasso lettera maggiormente utilizzato sul mercato
dei depositi
bancari in euro che viene calcolato con riferimento ad un gruppo di 64
banche
di cui 56 europee, 6 statunitensi ed una giapponese. II tasso
così determinato
viene maggiorato di un'aliquota che costituisce il ricavo della
banca in una
misura che, in genere, varia tra 0,45 e 1%.
I contraenti
possono
stipulare un mutuo:
-
a tasso fisso,
se l'interesse viene pattuito in un ammontare che rimane invariabile
per
l'intera durata del contratto. Il tasso è tanto più alto
quanto maggiore è la
durata del mutuo. Con la scelta del tasso fisso il mutuatario
preferisce
tutelarsi dall'eventualità di rialzi del costo del denaro ed
accetta il rischio
che una diminuzione dei tassi di interesse faccia diventare le
condizioni
contrattuali pattuite eccessivamente onerose. In tale ultima ipotesi
non potrà
richiedersi il rimborso dei tassi relativi alle rate già scadute
ma, in alcuni
casi, come è accaduto per i mutui contratti in Ecu, le banche
hanno accordato
la rinegoziazione del contratto;
-
a tasso
variabile,
se gli interessi sono pari all'Euribor, rilevato ogni semestre su
«Il sole 24
ore». In questo caso entrambi i contraenti assumono il rischio
delle variazioni
del tasso in dipendenza dell'andamento dei mercati finanziari. Le
notevoli
variazioni del costo del denaro verificatesi dal 1992 sino ad oggi,
hanno
indotto le banche alla creazione di prodotti maggiormente rispondenti
alle
esigenze della clientela, quali ad esempio, i mutui:
-
a tasso misto,
ovvero il tasso è fisso per un periodo che varia dai due ai
cinque anni con
possibilità di contrattare un tasso fisso o variabile alla
scadenza convenuta.
In altri casi, sempre alla scadenza, viene concessa la sola
possibilità di
accettare il tasso del momento per un ulteriore periodo di durata
eguale al
precedente;
-
a tasso
variabile con un cap,
se il tasso è variabile ma predeterminato nel massimo. Lebanche
offrono tale
possibilità, di solito, per mutui di durata non superiore ai
dieci anni;
-
a rata costante,
se il tasso è variabile e si conviene che in caso di aumento del
tasso di
interesse non aumenta l'importo delle rate ma il numero delle stesse.
Nel caso di
mutui
indicizzati al tasso ufficiale di sconto, poiché
quest'ultimo è scomparso,
insieme al Rendistato, il D.Lgs. 213/98 (decreto euro) ha autorizzato
il
governatore della Banca d'Italia ad individuare il tasso della BCE che,
per le
sue caratteristiche, più si avvicina al tasso ufficiale di
sconto. In
particolare, l'art. 2 del citato decreto ha previsto che a partire dal
1 °
gennaio 1999 e per un periodo massimo di cinque anni
All'obbligazione
di
pagare il tasso di interesse va aggiunto l'obbligo di corrispondere
altre
spese, quali le spese notarili, relative all'atto con cui il mutuo
viene
erogato e all'iscrizione dell'ipoteca presso
Oltre agli
interessi di
cui abbiamo parlato finora, contenuti nelle rate da rimborsare, sono
dovuti
alla banca (in un'unica soluzione) anche gli interessi di
preammortamento, cioè
gli interessi calcolati sull'intera somma mutuata, dal giorno
dell'erogazione
fino al giorno di inizio del piano di ammortamento. Se ad esempio il
piano di
ammortamento prevedesse rate semestrali posticipate (30/06 e
31/12) e il mutuo
fosse erogato in data 15 marzo, gli interessi di preammortamento
sarebbero
calcolati dal 15/3 al 30/6, mentre la prima rata semestrale di mutuo
sarebbe
corrisposta il 31/12.
4. IL MUTUO DI
SCOPO
Il mutuatario,
normalmente, non è vincolato in ordine all'utilizzazione di
quanto ottenuto a
mutuo. In alcuni casi, però, può essere imposta allo
stesso un'utilizzazione
predisposta alla realizzazione di uno scopo determinato:
‑ dedotto
dalle
parti come finalità convenzionale necessaria (mutuo di scopo
volontario);
possono
citarsi ad
esempio:
a)
il prestito
per l'acquisto di merci che il
mutuante è incaricato di vendere quale commissionario,
lucrando la
provvigione;
b)
il mutuo del
locatore al locatario per
migliorare la cosa locata;
c)
il prestito
fatto al vicino per la
bonifica del proprio fondo, da cui anche il fondo del mutuante
trarrà
vantaggio;
‑ ovvero
correlato ad una speciale disciplina
legale in vista di particolari esigenze d'ordine economico e sociale
(mutuo di
scopo legale);
tra le
esigenze di tale
tipo possono annoverarsi quelle finalizzate:
a)
alla
formazione della proprietà
immobiliare;
b)
all'impianto o
all'esercizio di imprese;
c)
al
miglioramento di aziende o di beni
singoli.
In casi
siffatti
vengono per lo più previsti controlli ed ispezioni del mutuante,
rivolti ad
accertare l'effettivo impiego delle cose mutuate in
conformità delle
obbligazioni assunte, nonché speciali modalità di
erogazione del mutuo (ad
esempio, sulla base di stati di avanzamento dei lavori ai quali esso
deve
servire, o ad opere compiute). La violazione dell'obbligo di
destinazione può
costituire giusta causa di recesso del mutuante dal rapporto.
5. IL MUTUO
GARANTITO
La legge
prevede che al
mutuo possa accompagnarsi la prestazione di garanzie da parte del
debitore.
Si tratta di
una
clausola spesso presente nei contratti di mutuo bancario. La lunga
durata del
contratto combinata con l'elevata entità delle somme date in
prestito rendono
spesso difficile per la banca una valutazione sulla solvibilità
del mutuatario
nel medio‑lungo periodo. Ciò induce gli istituti di credito a
tutelarsi
attraverso la previsione nel contratto di garanzie reali,
finalizzate a
garantire, in caso d'insolvenza del mutuatario, la restituzione
dell'importo e
degli interessi.
Le più
comuni figure di
mutuo garantito sono:
a)
mutuo
pignoratizio: si ha quando
l'obbligazione di restituire del mutuatario è garantita da
pegno.
b)
mutuo
ipotecario: la garanzia, in tal
caso, è, invece, costituita da ipoteca su un immobile (ed il
mutuo è a lunga
scadenza);
c)
mutuo
cambiario: il mutuatario rilascia,
in tal caso, delle cambiali a garanzia del suo debito di
restituzione oppure
anche «pro solvendo», cioè in luogo dell'adempimento.
L’apertura
di credito
(o fido o andamento) è il contratto col quale la banca si
obbliga a tenere a
disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un dato
periodo di tempo
o a tempo indeterminato (art. 1842 c.c.). Si tratta della più
diffusa
operazione di credito a breve termine: essa ha la funzione di creare
una
disponibilità a favore dell'accreditato, mettendo a sua
disposizione una somma
che, pur rimanendo nelle casse della banca, egli può utilizzare
anche
parzialmente e ripetutamente, con l'obbligo di restituirla alla
scadenza del
contratto o negli altri casi di cessazione del rapporto.
L’apertura
di credito è
un contratto:
-
consensuale,
in quanto per la sua
perfezione non si richiede la consegna della somma accreditata;
-
oneroso,
poiché l'accreditato, come
corrispettivo della disponibilità che riceve, è tenuto al
pagamento di una
provvigione;
-
a prestazioni
corrispettive, poiché le
prestazioni delle parti sono reciproche;
-
di credito,
poiché la banca ha l'obbligo
di prorogare nel tempo la restituzione delle somme accreditate;
-
ad esecuzione
continuata, in quanto il
rapporto si protrae nel tempo;
-
a tempo
determinato o indeterminato;
-
a forma libera.
Le aperture di
credito
possono essere classificate in base a diversi elementi. Se si
tiene conto
delle modalità di utilizzo del credito è possibile
distinguere tra apertura di
credito:
-
per cassa,
qualora la banca si impegna al versamento di una somma di denaro che
può essere
utilizzata dal cliente in una o più riprese.
Le aperture di
credito
per cassa possono essere ulteriormente distinte in:
a)
semplici,
quando l'accreditato può
utilizzare il credito in una volta, o più volte, con
successivi prelievi
parziali. Non può, tuttavia, ripristinare la
disponibilità con versamenti
successivi che permettano il riutilizzo dell'apertura di credito;
b)
in conto
corrente quando l'accreditato può
utilizzare in più volte il credito, e con successivi
versamenti ripristinare
la disponibilità. In mancanza di un'apposita pattuizione delle
parti,
l'apertura di credito s'intende in conto corrente (art. 1843 c.c.);
-
per firma,
quando la banca mette a disposizione, attraverso la propria firma, una
garanzia
a favore del cliente che tecnicamente può assumere la forma
dell'accettazione,
dell'avallo o della fideiussione. In base alle garanzie che le
assistono si può
distinguere tra apertura di credito:
-
allo scoperto
(o in bianco): quando la restituzione della somma utilizzata
è assicurata
esclusivamente dal patrimonio dell'accreditato; in tal caso, la
concessione del
credito si fonda sulla valutazione, da parte della banca, della
solvibilità e
della correttezza dell'accreditato;
-
garantita:
quando la concessione di credito è subordinata al rilascio di
garanzie reali o
personali da parte dell'accreditato o di terzi graditi alla banca.
In base alla
durata si
distinguono aperture di credito:
-
a tempo
determinato
(nella pratica bancaria denominato «straordinario»),
quando è fissato uno
specifico termine di scadenza;
-
a tempo
indeterminato
(o ordinario), quando è prevista la facoltà di
recedere dal contratto in
qualsiasi momento con preavviso reciproco.
In base al
soggetto
utilizzatore del credito si distinguono aperture di credito:
L’apertura
di credito
può essere a tempo determinato o indeterminato: in entrambi i
casi, essa deve
avere ad oggetto una somma determinata o determinabile. L'art.
1843 c.c.
prevede che l'accreditato possa disporre delle somme «secondo le
forme d'uso».
I principali modi di utilizzazione che si rinvengono nella prassi
bancaria
sono: il prelevamento per cassa, l'assegno bancario o circolare,
l'ordine di
bancogiro (o giroconto), il rilascio di fideiussioni a favore del
cliente, lo
sconto di titoli di credito etc.
Al diritto
dell'accreditato di utilizzare il credito fanno riscontro una serie di
obbligazioni a suo carico.
In primo
luogo,
l'accreditato è tenuto al pagamento della provvigione di conto:
tale
provvigione è spesso prevista solo per il caso di mancata
utilizzazione del
credito, o per il caso in cui gli interessi non raggiungano una
determinata
cifra; talvolta, quando il credito è concesso per operazioni di
carattere
fortemente speculativo, la banca esige una commissione speciale. La
provvigione
non esclude il diritto della banca alle commissioni relative alle
operazioni
compiute in esecuzione del rapporto.
L’utilizzazione
del
credito determina anche l'obbligo dell'accreditato di restituire le
somme
utilizzate:
Per rafforzare
il suo
diritto alla restituzione delle somme utilizzate, la banca
può ricorrere a
diversi strumenti.
Nell'apertura
di
credito allo scoperto, la banca può farsi rilasciare delle
cambiali: esse non
costituiscono una garanzia della restituzione (la quale dipende sempre
dalla
solvibilità dell'accreditato), ma servono ad agevolare il
recupero o lo
smobilzzo del credito. La banca, infatti, può ottenere la
restituzione più
facilmente attraverso l'esercizio dell'azione cambiaria, ovvero
può recuperare
le somme accreditate girando o scontando i titoli. Nell'apertura di
credito
garantita, il diritto alla restituzione può essere
rafforzato da garanzie
reali o personali: poiché il diritto alla restituzione sorge
solo alla fine del
rapporto, si tratta di garanzia per un debito futuro. Tali garanzie non
si
estinguono prima della fine del rapporto, per il solo fatto che
l'accreditato
cessi di essere debitore della banca. Se nel corso del rapporto la
garanzia
diviene insufficiente, la banca può chiedere un supplemento
di garanzia o la
sostituzione del garante, e se l'accreditato non ottempera alla
richiesta, può
ridurre il credito proporzionalmente al diminuito valore della
garanzia o
recedere dal contratto (art. 1844 c.c.).
L’apertura
di credito
può essere garantita innanzitutto da ipoteca:
Alla scadenza
del
contratto, la garanzia dovrebbe estinguersi: qualora però la
banca conceda una
proroga del termine, l'ipoteca continua a garantire
l'utilizzazione del
credito; se invece le parti procedono ad una rinnovazione del
contratto, la
garanzia si estingue (in quanto si verifica una novazione del
rapporto
principale), salvo che le condizioni del nuovo rapporto siano le stesse
di
quello precedente. Quando invece l'apertura di credito è
garantita da pegno le
norme uniformi attribuiscono alla banca, in caso di mancata
restituzione delle
somme utilizzate, il diritto di far vendere le cose date in
garanzia, con
preavviso scritto di almeno un giorno, in forme anche diverse da quelle
previste dall'art. 2797 c.c.; se si tratta di titoli negoziabili in
Borsa, la vendita
va fatta al prezzo di mercato.
L'apertura di
credito
si estingue:
-
per scadenza
del termine, se il contratto
è a tempo determinato;
-
per morte o
sopravvenuta incapacità
dell'accreditato, in quanto si tratta di un contratto basato sulla
fiducia; ‑
per fallimento dell'accreditato o liquidazione coatta della banca; ‑
per
recesso unilaterale di una delle parti.
Se il
contratto è a
tempo indeterminato, il recesso dev'essere preceduto dal preavviso, nel
termine
stabilito dal contratto, dagli usi, o in mancanza entro quindici giorni
(art.
1845, 3° comma, c.c.). L’art. 1845 c.c. riconosce poi alla
banca, salvo patto
contrario, il diritto di recedere dal contratto per giusta causa.
7. IL CREDITO
AL
CONSUMO
Il credito al
consumo è
definito dall'art. 121 del T.U.B. come «la concessione
nell'esercizio di
un'attività commerciale o professionale di credito sotto forma
di dilazione di
pagamento o di prestito o di analoga facilitazione finanziaria a favore
di
persona fisica (consumatore) ». Il prestito deve essere di
importo compreso
tra i 154,94 euro ed i 30.987,41 euro (limiti che possono essere
modificati
dal CICR) e deve prevedere un rimborso rateale. Le caratteristiche
peculiari
del credito al consumo riguardano sia la natura dei beni finanziati, e
cioè
beni di consumo, sia di natura durevole che non (automobili, servizi
sanitari
etc.), sia la tipologia del soggetto che richiede il credito
cioè il
«consumatore» individuato come contraente debole. È
a queste esigenze di tutela
che sono improntate le principali disposizioni della relativa normativa:
chiarezza
nell'accordo contrattuale. La
legge infatti prevede che tutti i contratti siano in forma scritta
e che vi
sia la consegna di una copia al cliente.
L’art.
123 del T.U.B.
riconduce le operazioni di credito al consumo alle regole generali in
tema di
pubblicità, stabilite nel capo sulla trasparenza; inoltre, il
medesimo
articolo, come modificato dal decreto legislativo attuativo della
direttiva CE
98/7, stabilisce che in caso di annunci pubblicitari e offerte,
effettuati con
qualsiasi mezzo, il Taeg deve essere indicato mediante un esempio
tipico,
secondo le modalità di calcolo stabilite con decreto del
Ministro
dell'Economia e delle finanze. Il contratto deve riportare l'ammontare
e le
finalità del finanziamento, il numero, l'importo e la scadenza
delle rate e il
tasso annuo effettivo globale (TAEG) e prevedere anche le condizioni
che
possono condurre ad una modifica di tale tasso. Secondo la
definizione di cui
all'art. 122 T U.B., il TAEG è il costo totale del credito a
carico del
consumatore, espresso in percentuale annua del credito concesso.
II TAEG
comprende gli interessi e tutti gli oneri da sostenere per utilizzare
il
credito. Le banche devono necessariamente indicare il TAEG nei
contratti di
credito al consumo.
La modifica
del TAEG
sarà ritenuta valida soltanto in seguito a comunicazione
scritta da parte del
fornitore del credito al consumatore. Quest'ultimo, entro 15
giorni dal
ricevimento della comunicazione, può recedere dal contratto e
pagare l'intero
importo dovuto senza sopportare penalità. Il CICR stabilisce le
modalità di
calcolo del TAEG in armonia con le disposizioni comunitarie (art.
122 TU.B.).
Nel contratto devono essere indicati anche gli eventuali oneri e costi
accessori
derivanti dal finanziamento; sono nulle le clausole di rinvio agli usi;
-
possibilità
di adempimento anticipato.
Il consumatore può, in qualunque momento, decidere di rimborsare
anticipatamente la cifra ottenuta in prestito ed ha diritto, in
questo caso,
ad un'equa riduzione del corrispettivo;
-
divieto di
cessione del credito
senza il preventivo assenso del cliente e la responsabilità
sussidiaria del
finanziatore qualora il fornitore del bene risulti, per qualunque
motivo,
inadempiente.
L’ultimo
punto è
sottoposto a due condizioni restrittive: la responsabilità del
finanziatore è
limitata all'importo del credito concesso e sussiste soltanto nel caso
in cui
la società di finanziamento gestisca in esclusiva la concessione
di credito ai
clienti del fornitore.
8. CREDITO
FONDIARIO
L’art.
38 del T.U.B.,
che ha unificato la disciplina del credito fondiario e quella del
credito
edilizio sotto l'unica voce credito fondiario, ne fornisce questa
definizione:
«il credito fondiario ha per oggetto la concessione, da parte di
banche, di
finanziamenti a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo
grado su
immobili».
I
finanziamenti possono
essere erogati nella forma tecnica ritenuta dalla banca maggiormente
opportuna,
sempre che sia rispettato il principio temporale di durata
dell'operazione di
credito che, come previsto nella definizione stessa, deve essere di
medio e
lungo termine. La garanzia ipotecaria ha un carattere di
essenzialità per
questo credito e
l'art. 39
TU.B. prevede
alcune deroghe alla disciplina di diritto comune:
-
l'ipoteca a
garanzia non è soggetta a
revocatoria fallimentare (se iscritta 10 giorni prima della sentenza di
fallimento);
-
gli oneri
notarili e di iscrizione sono
ridotti;
-
i debitori,
ogni volta che abbiano estinto
la quinta parte del debito originario, hanno diritto ad una
riduzione
proporzionale della somma iscritta;
-
l'adeguamento
dell'ipoteca si verifica
automaticamente se la nota di iscrizione menziona la clausola di
indicizzazione del finanziamento, in deroga al principio di
specialità
previsto per l'ipoteca stessa (art.
La
deliberazione del 22
aprile 1995 del CICR ex art.
Nel caso in
cui
sussistano precedenti iscrizioni ipotecarie del finanziamento si
dovrà tenere
conto del capitale residuo del finanziamento originario da sommare
all'importo
di quello nuovo affinché l'erogazione totale non ecceda la
percentuale massima
(80%).
Ai sensi
dell'art. 40,
1 ° comma, T.U.B., così come modificato dall'art. 6 D.Lgs.
342/1999, i debitori
hanno la facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in
parte, il proprio
debito, corrispondendo alla banca un compenso complessivo
contrattualmente
stabilito.
Il legislatore
ha
altresì previsto che nei contratti stipulati dopo l'entrata in
vigore del nuovo
art. 40 siano preventivamente indicate, in base ai criteri
stabiliti dal CICR
ai fini della sola trasparenza, le modalità di determinazione
dell'importo
complessivo spettante alla banca in caso di estinzione anticipata del
finanziamento.
Con delibera
del 9‑2‑2000
il CICR fornisce le indicazioni richieste dall'ari. 40 TU.B. che
mettono il
cliente in grado di conoscere già all'atto della stipulazione
del contratto gli
oneri posti a suo carico per l'eventuale esercizio dell'estinzione
anticipata o
del rimborso parziale del credito fondiario. Il Comitato stabilisce,
infatti,
che i contratti di credito fondiario devono indicare il compenso
dovuto dai
mutuatari alle banche in caso di esercizio delle facoltà appena
ricordate,
specificando la formula di calcolo. Gli indici utilizzati nella formula
devono
essere facilmente individuabili da fonti di agevole consultazione.
Nessun altro
onere può essere addebitato al cliente.
9.
FINANZIAMENTI ALLE
IMPRESE
Per
finanziamento alle
imprese si fa riferimento ad operazioni bancarie che hanno come
obiettivo
quello di mettere a disposizione delle aziende i mezzi finanziari di
cui
necessita per lo svolgimento della sua attività.
Nella
precedente
legislazione esistevano numerose forme di credito speciale alle
imprese: il
credito mobiliare, il credito alle medie e piccole imprese etc. Oggi,
invece,
il T.U.B. riunisce tutte le operazioni di finanziamento alle imprese di
medio e
lungo termine e sostituisce tutti i privilegi relativi ad ogni credito
speciale
nell'unico «privilegio speciale» (art. 46 T.U.B.).
Quest'ultimo
dovrà
risultare da atto scritto, a pena di nullità, e dovrà
indicare:
-
la banca
creditrice;
-
il debitore;
-
le condizioni
del finanziamento;
-
la somma di
denaro per il quale viene
assunto;
-
i beni e i
crediti sui quali il privilegio
viene costituito.
Ai fini della
opponibilità ai terzi è necessaria la trascrizione nel
registro (ex art. 1524
c.c.) tenuto dalla Cancelleria del Tribunale del luogo dove ha sede
l'impresa
finanziata o dove ha sede o risiede il soggetto che ha concesso il
privilegio.
Poiché
si tratta di
beni mobili è fatto salvo l'acquisto in buona fede da parte del
terzo. Va
precisato, però, che tale buona fede non si presume, dato il
regime di
pubblicità cui il privilegio è sottoposto. Il credito,
per essere assistito dal
privilegio speciale e quindi ricadere nella fattispecie di
finanziamento di
medio e lungo termine alle imprese, dovrà rispondere ai
seguenti requisiti:
-
l'ente
finanziatore può essere solo una
banca;
-
il finanziato
deve essere un imprenditore
(sia esso agricolo o commerciale, piccolo o grande);
-
il
finanziamento deve essere a medio o
lungo termine (nella prassi attualmente si intende oltre i 18 mesi).
L’art.
46 prevede che
il privilegio non può avere per oggetto beni iscritti nei
pubblici registri;
questo limite si spiega tenendo presente che per i beni iscritti
in pubblici
registri si prevedono già le garanzie reali ordinarie (ipoteca,
pegno etc.).
L’articolo
elenca poi i
beni su cui può poggiare il privilegio:
-
impianti ed
opere esistenti e future;
-
materie prime,
scorie, prodotti finiti,
bestiame;
-
beni acquisiti
con il finanziamento
concesso;
-
crediti anche
futuri, derivanti dalla
vendita di beni di cui sopra.
Per quanto
riguarda il
grado, dove per grado è da intendersi la precedenza rispetto
agli altri
privilegi, il privilegio speciale è posposto esclusivamente al
privilegio per
le spese di giustizia (art. 2777 c.c.) ed ai privilegi indicati
all'art.
2751bis c.c. (onorari, retribuzioni, etc.).
10. IL
LEASING:
DEFINIZIONE E TIPOLOGIA
II leasing
è
un'operazione finanziaria con cui una parte concede ad un'altra, dietro
corrispettivo di un canone periodico, il godimento di un bene per un
certo
periodo di tempo, alla scadenza del quale la parte che ha ricevuto il
godimento
può scegliere tra la prosecuzione del godimento, la restituzione
del bene, 1
acquisto della proprietà (mediante versamento di un prezzo
stabilito).
Si distinguono
generalmente due diverse forme di leasing:
-
il leasing
operativo,
che ha la finalità di evitare all'utilizzatore il rischio della
proprietà del
bene e di garantirgli alcuni servizi collaterali;
-
il leasing
finanziario,
che ha la funzione di finanziare l'utilizzatore, che può
servirsi del bene per
tutta la durata della sua vita tecnico‑economica senza acquistarne la
proprietà
e senza dover quindi ricorrere alle consuete forme di finanziamento.
Nell'ambito
del leasing
finanziario si distinguono altresì il leale‑back ed il leasing
immobiliare.
II leasing
operativo è
la prima forma storicamente assunta dall'istituto. Ad esso l'impresa
utilizzatrice fa ricorso per ottenere la temporanea
disponibilità di beni
strumentali standardizzati per un periodo di tempo inferiore alla loro
vita
economica (il che ne consente la riutilizzazione al termine del
contratto) senza
sopportare i rischi connessi all'obsolescenza di essi. I:impresa
concedente, di
regola, è anche produttrice del bene concesso e (in
ogni caso) si
impegna a
fornire un servizio di assistenza e manutenzione per conservare in
perfetta
efficienza il bene medesimo.
Altre
caratteristiche
del leasing operativo sono le seguenti:
-
la parte che
dà il bene in godimento lo ha
già a disposizione nel momento in cui stipula il contratto (non
importa a che
titolo);
-
la durata del
contratto è solitamente
breve: spesso inferiore ad un anno e solo in rari casi superiore a tre;
-
l'impresa
utilizzatrice può esercitare la
facoltà di recesso prima del termine, dando adeguato
preavviso;
-
il canone
pattuito costituisce il
corrispettivo del godimento del bene, sia pure con il computo del
deterioramento, ma non comprende, sotto nessun aspetto, una porzione di
prezzo
o di valore capitale del bene stesso;
-
al termine del
contratto, i beni dati in
godimento devono essere restituiti (sono previste, pertanto, varie
clausole,
rivolte a garantire il corretto uso e la diligente conservazione dei
beni
medesimi, alle quali l'impresa utilizzatrice deve rigidamente
attenersi).
Può
essere prevista,
però, per l'impresa utilizzatrice, la facoltà di optare a
favore di una delle
tre seguenti alternative:
-
rinnovare il
contratto;
-
sostituire il
bene con altro più
confacente alle proprie esigenze;
-
riscattare il
bene con il pagamento di una
somma prefissata.
Il leasing
finanziario
può definirsi come un'operazione mediante la quale una
società finanziaria
acquista, per conto di un'impresa industriale o commerciale, un
bene a questa
necessario per lo svolgimento del processo produttivo ed alla stessa lo
cede in
godimento per un periodo in genere corrispondente alla sua intera vita
economica.
II rapporto in
esame
presenta due caratteri:
-
la
società di leasing non è produttrice
del bene, masi obbliga ad acquistarlo dal produttore; essa,
pertanto, non ha
beni a disposizione, ma capitali da impiegare;
-
l'impresa
utilizzatrice non ha interesse
ad ottenere la disponibilità temporanea di un bene, ma
cerca il finanziamento
necessario per l'acquisto di un bene strumentale, che prevede
d'inserire per un
lungo periodo nella propria struttura produttiva.
L:operazione
di leasing
si svolge, pertanto, nel modo seguente:
-
l'imprenditore
che ha bisogno di un cerio
bene (per lo più altamente specializzato) si rivolge ad una
società di leasing,
che possiede il capitale, e le chiede di acquistare il bene medesimo;
-
questa, se
accetta, si impegna ad
effettuare tale acquisto ed a fare entrare l'altra parte nella
detenzione del
bene;
-
come
corrispettivo di tali due prestazioni
l'altra parte si impegna a versare periodicamente alla prima delle
somme
calcolate in misura che, alla scadenza prevista, la società di
leasing riceva
dall'imprenditore il rimborso completo del prezzo pagato, gli interessi
sulla
somma versata a tale titolo, nonché, di solito, un indennizzo
forfetario per il
rischio finanziario.
La durata del
contratto
per i beni mobili strumentali oscilla da
Il contratto
si
presenta particolarmente vantaggioso per la installazione di macchinari
di notevole
valore, poiché permette una rateizzazione piuttosto lunga degli
oneri relativi
(parallela ai ratei di ammortamento) e consente di superare la
difficoltà
burocratica del ricorso ai tradizionali canali del credito. Sul piano
fiscale
infine, l'utilità dell'istituto si riconnette al fatto che i
canoni sono
completamente scaricabili nell'esercizio annuale da parte
dell'imprenditore
utilizzatore e che questi, se soggetto ad IVA, può operare la
rivalsa per la
quota di imposta pagata, a condizione che la durata del contratto
non sia
inferiore alla metà del periodo di ammortamento del bene mobile
stabilito in
relazione ai coefficienti previsti dall'apposito decreto ministeriale.
Per il
leasing immobiliare la deducibilità dei canoni da parte degli
utilizzatori non
è condizionata invece alla durata minima del contratto.
Il
procedimento di
stipulazione del contratto in esame ha inizio generalmente con una
domanda di
leasing, redatta dall'imprenditore richiedente su appositi formulari
predisposti
dalla società finanziatrice, con indicazione specifica di
tutte le
caratteristiche sia del bene da acquistare sia dell'impresa che ne
richiede
l'acquisto, e con particolare riferimento alle condizioni economiche di
quest'ultima ed alle garanzie che essa è in grado di fornire.
All'accettazione
da parte della società di leasing segue la sottoscrizione
congiunta di un
documento che contiene pattuizioni contrattuali estremamente
particolareggiate
circa l'attuazione del rapporto. I documenti anzidetti sono formulati
come se
venisse stipulata una cessione di godimento a titolo di locazione
del bene che
ha formato oggetto della domanda di leasing, ma il loro contenuto
deroga
ampiamente alla normativa posta dalla legge per il rapporto di
locazione.
Ed infatti:
-
la consegna
del bene deve essere compiuta
non dalla società finanziatrice, ma dal terzo fornitore, ad
iniziativa e con
la collaborazione diretta dell'imprenditore richiedente;
-
la garanzia
per eventuali vizi del bene è
data dal terzo fornitore e non dalla società finanziatrice;
-
tutte le
riparazioni, sia ordinarie che
straordinarie, sono a carico dell'imprenditore‑utilizzatore;
-
a carico
dell'utilizzatore viene posto,
altresì, il rischio del deterioramento e del perimento del bene
(anche per caso
fortuito): egli, infatti, è tenuto a pagare l'intero
corrispettivo anche se il
bene non esiste più.
Inoltre:
-
la durata del
contratto è commisurata alla
vita economica utile del bene;
-
in caso di
inadempimento
dell'utilizzatore, il contratto si risolve di diritto: i canoni versati
restano
acquisiti al finanziatore e vengono previsti anche penali, fissate
nella somma
dei canoni non ancora scaduti o in una somma comunque assai vicina
all'intero;
-
alla scadenza
del contratto l'utilizzatore
può scegliere fra l'acquisto del bene (per un importo
predeterminato); la
proroga della locazione, per un canone notevolmente ridotto; ovvero la
restituzione del bene.
Il
procedimento,
quindi, si conclude con la stipulazione di un terzo atto tra la
società di
leasing ed il terzo fornitore del bene. Il contenuto di tale atto
corrisponde
a quello di una compravendita per contanti.
11. IL
LEASE‑BACK
È
questa un'operazione
finanziaria con la quale un bene (frequentemente un immobile, ma anche
un
qualsiasi bene strumentale) viene alienato dal proprietario ad
un'impresa di
leasing, che si impegna a concedere lo stesso bene in godimento al
venditore ed
a riconoscergli un diritto di riscatto, trascorso un determinato
periodo di
tempo; per la successiva restituzione in locazione dello stesso bene,
vengono
fissati dei canoni periodici che hanno le caratteristiche dei canoni di
un
contratto di leasing finanziario.
Il lease‑back
quindi si
differenzia dal leasing in quanto rispetto a quest'ultimo è
caratterizzato da
una fase antecedente, durante la quale il futuro locatario vende
il bene
strumentale di sua proprietà all'impresa di leasing.
Con il ricorso
al lease‑back,
pertanto, si attua sostanzialmente la mobilizzazione di un
investimento,
mantenendo l'uso del bene oggetto della transazione e la
facoltà di
riacquistarne la proprietà: è possibile, cioè,
raccogliere quelle disponibilità
liquide che, in un determinato momento, sia necessario immettere nella
gestione
economica di un'impresa senza privarsi dell'uso di un bene. È
evidente che il
lease‑back ha tutte le caratteristiche di un'operazione di credito
assistita
da una garanzia reale.
12. IL LEASING
IMMOBILIARE
Con tale
operazione
finanziaria una parte concede all'altra, per un tempo determinato e
verso un
corrispettivo da pagarsi a scadenze periodiche, il godimento di un
bene
immobile, acquistato o fatto costruire dall'impresa di leasing su
scelta ed
indicazione della parte utilizzatrice, con facoltà per
quest'ultima di
acquistare la proprietà dell'immobile stesso alla scadenza del
contratto (o
anche prima, se convenuto tra le parti) contro versamento di un prezzo
stabilito, o determinabile in base a parametri contrattualmente
fissati. Con la
stipulazione del contratto di leasing immobiliare tutti i rischi
connessi alla
costruzione ed all'esistenza dell'immobile ricadono sulla parte
utilizzatrice.
Ad essa spetta la responsabilità di seguire i lavori di
costruzione fino alla
consegna; nonché ogni altra incombenza relativa all'immobile
(manutenzione
ordinaria e straordinaria; stipulazione delle polizze assicurative;
pagamento
di imposte e tasse etc.).
L'impresa di
leasing,
insomma, interviene unicamente come apportatrice di capitali, per
finanziare
l'operazione diretta dalla parte utilizzatrice. Il contratto può
configurarsi
secondo una gamma di schemi ispirati alla disciplina legale della
locazione o a
quella della vendita con riserva di proprietà.
Nel primo caso
il
canone è di entità ridotta (e viene calcolato computando
la quota minima di
ammortamento commisurata alla perdita di valore dell'immobile), mentre
elevato
è il diritto di riscatto, che risulterà prossimo al
valore di mercato del bene.
Nel secondo caso, il canone è di entità maggiore, in
quanto ricomprende una
quota capitale calcolata in modo da ammortizzare l'intero valore
dell'immobile
nel corso del periodo contrattuale.
Fra tali
estremi sono
poi possibili svariate soluzioni con contemperamenti diversi di
disciplina.
Il termine di
scadenza
più frequentemente adottato è quello ventennale
(naturalmente con possibilità
di rinnovo); alcuni contratti, però, prevedono anche una durata
di trenta anni.
In base ad una
circolare della Banca d'Italia, il volume delle operazioni di leasing
di beni
immobili eseguite dalle società parabancarie non deve essere
superiore
all'ammontare del proprio patrimonio (Delibera 9‑10‑1987).
13. IL
FACTORING
L’espressione
factoring
è usata con un duplice significato:
-
essa definisce
anzitutto un particolare
tipo di contratto con cui un imprenditore (cedente o fornitore) si
impegna a
cedere ad un altro imprenditore (factor) tutti i crediti presenti e/o
futuri
che derivino dall'esercizio della sua impresa. La cessione avviene
talvolta
«pro solvendo», cioè con garanzia del buon fine del
credito ceduto, ma più
spesso «pro soluto» (senza rivalsa, quindi, in caso di
mancato pagamento), al
valore nominale del credito, dal quale viene detratta una
«commissione»
proporzionata all'attività ed al rischio del factor. L'accredito
al cedente può
avvenire alla scadenza dei singoli crediti, in anticipo rispetto
alla stessa,
oppure ad una certa data successiva alla scadenza;
-
l'espressione
viene, però, riferita anche
a tutti i negozi giuridici, posti in essere in esecuzione della
suddetta vera e
propria convenzione di factoring, come negozi particolari di
cessione di
credito.
Il contratto
può
assumere diverse funzioni:
di gestione
dei crediti: quando il factor
si occupa di riscuotere i crediti e di perseguire gli eventuali
debitori
inadempienti;
di
finanziamento: quando il facior
anticipa l'importo dei crediti acquistati;
di
assicurazione: quando il factor
acquista i crediti pro‑soluto (valutando e facendosi compensare il
rischio
dell'eventuale inadempimento).
L’imprenditore
cedente,
pertanto ‑ mediante il ricorso al factoring – può ottenere
molteplici vantaggi:
-
semplificazione
della gestione commerciale
ed alleggerimento dei servizi contabili;
-
possibilità
di ottenere informazioni
commerciali, utilizzando la vasta organizzazione del factor;
-
miglioramento
della situazione
finanziaria, mediante la mobilizzazione del portafoglio clienti: con
copertura
del rischio di solvibilità (relativo all'ammontare del
credito) e del rischio
di tesoreria (relativo alla scadenza);
-
utilizzazione
dei moderni sistemi
meccanografici, di cui si avvalgono le società di factoring per
il volume di
operazioni che svolgono, con possibilità di ottenere anche
informazioni
statistiche;
-
generali
economie di gestione, per la
riduzione di tutte le spese collegate con il contenzioso d'incasso.
Il factoring
può essere
classificato:
secondo il
finanziamento, in:
a)
maturity‑factoring,
in cui il cedente non
riceve finanziamenti dal factor; egli semplificala sua attività
di gestione, si
assicura tutti gli altri servizi ed ottiene l'accreditamento
dell'importo di
ogni fattura ‑ alla scadenza ‑ anche in caso di mancato pagamento;
b)
credit‑casti
factoring, in cui il factor
acquistai crediti, garantendone il buon fine ed incaricandosi
della loro
gestione; il factor concede, altresì, al cedente la
possibilità di chiedere
anticipazioni (totali o parziali) sull'ammontare del credito ceduto;
secondo le
modalità di
esecuzione, in:
a)
notification
factoring, in cui il cedente
si impegna a menzionare su tutte le fatture emesse che il pagamento
dovrà
essere effettuato esclusivamente al factor;
b)
non‑notification
factoring: in cui non è
previsto l'impegno anzidetto. In tal caso il cedente si obbliga a
versare
immediatamente al factor i crediti riscossi: quest'ultimo,
infatti, non può
incaricarsi della riscossione poiché i debitori non sono stati
messi al
corrente della cessione;
secondo l'area
geografica, in:
a)
domestic
factoring, che si verifica quando
sia il cedente che il factor svolgono la loro attività
nello stesso Paese;
b)
international
factoring, avente per
oggetto crediti derivanti da rapporti di carattere internazionale.
In questo caso
i
soggetti coinvolti nel rapporto sono quattro: l'importatore, il suo
factor
nazionale, l'esportatore e il suo factor. In pratica sussistono,
pertanto, due
distinti contratti di factoring:
-
uno tra
l'esportatore e l'export‑factor;
-
l'altro fra i
due factors, per permettere
all'imporl‑factor di esercitare la gestione del credito nei confronti
dell'importatore.
RAPPORTI TRA
CEDENTE E
CESSIONARIO
L'esame della
prassi
contrattuale consente di delineare il quadro della disciplina
generalmente
concordata per il perseguimento degli scopi realizzabili
attraverso il
contratto di factoring:
L'imprenditore
cedente
può obbligarsi ad operare in regime di esclusiva totale ed
in tal caso si
impegna a non porre in essere con i terzi altri rapporti di factoring
(sia
continuativi che occasionali).
Incombono al
cedente,
tra gli altri, gli obblighi di:
-
trasferire i
documenti probatori del
credito;
-
trasferire le
garanzie reali e personali,
nonché gli accessori dello stesso;
-
sottoporre ad
approvazione preventiva del
factor le operazioni dalle quali deriveranno i crediti che si intendono
cedere.
Il factor
dovrà,
invece:
-
esaminare
preventivamente i crediti a lui
sottoposti;
-
fornire al
cedente eventuali servizi
collaterali di collaborazione, (quali ad esempio ‑ l'espletamento di
indagini
di mercato o di solvibilità di possibili clienti).
Nella pratica
si
riscontrano clausole contrattuali che:
-
riconoscono al
factor la potestà di
ridurre o revocare le approvazioni di credito;
-
concedono al
factor la facoltà di
controllo sulle aziende e sulle scritture contabili dell'imprenditore
cedente;
-
sanciscono il
diritto, per entrambe le
parti, di recedere in qualsiasi momento dal contratto, pur restando
valide le
cessioni già perfezionate.
Il factor
intesta al
cedente un conto corrente nel quale vengono annotati:
-
a credito: gli
importi delle fatture
relative a ciascuna cessione;
-
a debito: gli
eventuali prelevamenti
effettuati dal cedente medesimo e le remunerazioni spettanti al factor.
Al factor ‑
quale
corrispettivo per i servizi resi ‑ spetta:
-
un compenso,
calcolato in percentuale
(dall'1 al 3%) sull'importo complessivo del credito ceduto;
-
gli interessi
annuali sulle somme
anticipate: in misura per lo più corrispondente al normale tasso
dello scoperto
bancario o a quello applicato nelle operazioni di sconto.
Possono essere
ceduti
crediti esistenti, ma anche crediti futuri (prima, cioè, che
siano stipulati i
contratti dai quali sorgeranno). La cessione può essere pure
effettuata in
massa e, in tale ipotesi essa viene considerata con oggetto determinato
anche
con riferimento a crediti futuri: in quest'ultimo caso, però, la
cessione non
può estendersi a crediti che sorgeranno da contratti da
stipulare in un
periodo di tempo superiore a due anni.
Il cedente
garantisce
la solvenza del debitore ceduto soltanto nei limiti del
corrispettivo
pattuito, ma il cessionario può rinunziare ‑ in tutto o in parte
‑ a tale
garanzia.
I soggetti,
diversi
dalle banche, che esercitano l'attività di cessione dei crediti
di impresa
devono essere, su domanda, iscritti in un apposito albo istituito
presso
Sempre per
ottenere
l'iscrizione deve essere presentato un programma di attività con
l'indicazione
dei settori di intervento e del tipo di operazioni e servizi offerti.
I contratti
stipulati
dalle società di factoring (essendo queste ricomprese tra i
soggetti che
esercitano professionalmente attività di prestito e di
finanziamento) sono
assoggettati alla disciplina sulla trasparenza delle operazioni
bancarie e
finanziarie
prevista nel titolo VI del D.Lgs. 1‑9‑1993, n.
-
le
società medesime devono esporre nei
locali aperti al pubblico gli avvisi e le informazioni riguardanti le
condizioni di contratto;
-
il contratto
di factoring deve essere
stipulato in forma scritta, intendendosi adempiuto tale onere anche
attraverso
lo scambio di corrispondenza commerciale;
-
il contratto
deve specificare i criteri di
determinazione delle commissioni di factoring e di ogni altra
remunerazione in
favore del factor, nonché gli interessi che l'imprenditore
cedente deve
corrispondere;
-
deve essere
espressamente prevista la
facoltà di recesso per l'imprenditore cedente, entro 15 giorni
dal ricevimento
della comunicazione scritta con la quale egli venga informato delle
variazioni
in senso sfavorevole dei tassi di interesse e delle altre condizioni
contrattuali.
14.
Nel nostro
ordinamento,
la realizzazione degli interessi perseguiti con il contratto di
factoring è
stata affidata all'istituto della cessione del credito e
La disciplina
della L.
52/1991 si applica alle cessioni di crediti pecuniari verso
corrispettivo
allorquando ricorrano le seguenti condizioni:
-
il cedente
deve essere un imprenditore;
-
i crediti
ceduti devono sorgere da
contratti stipulati dal cedente nell'esercizio dell'impresa.
Il
trasferimento del
credito è valido ed efficace nei confronti del debitore ceduto a
prescindere da
qualsiasi comunicazione allo stesso ed il factor, alla scadenza,
può pretendere
il pagamento dal debitore purché dimostri di essere titolare del
credito.
Il factor,
però, deve
guardarsi dal rischio che il debitore, in mancanza di comunicazione,
paghi il creditore
originario con effetto liberatorio (art. 1264 c.c.): la legge 52/1991,
infatti,
fa salva l'efficacia liberatoria dei pagamenti eseguiti dal
debitore a terzi,
secondo le norme dettate dal codice civile.
Il
cessionario,
inoltre, ha la facoltà di rendere la cessione opponibile ai
terzi nei modi
previsti dal codice civile.
Il debitore,
può sempre
opporre al cessionario le eccezioni che derivano da pregressi rapporti
diretti
con lo stesso (es. compensazioni), nonché da eccezioni
processuali (es. prescrizione
del credito); può eccepire, invece, l'incedibilità
convenzionale del credito
solo provando che il cessionario ne era a conoscenza al tempo
della cessione.
Sono
opponibili,
altresì, al cessionario tutte le eccezioni che potevano
essere opposte al
cedente, secondo le norme del codice civile.
15. IL
FORFAITING
Il forfaiting
è un
contratto atipico usato nel settore dell'esportazione: esso consiste
nella
cessione, senza rivalsa in caso di mancato pagamento, da parte di un
esportatore ad un forfaiter di titoli di credito ricevuti da un
importatore in
pagamento delle merci da lui acquistate, contro 1 anticipazione del
relativo importo.
L'operazione
consente
all'importatore di procurarsi prodotti pur non essendo in grado di
pagarli
immediatamente o di procurarsi un adeguato finanziamento
all'estero, ed
all'esportatore di vendere i propri prodotti riscuotendone subito
il prezzo,
pur non essendo in grado di procurare all'importatore credito a medio
termine:
il forfaiter assume su di sè il rischio dell'inadempimento,
senza potersi
rivalere nei confronti dell'esportatore, ma solitamente richiede che i
titoli
siano garantiti da una banca del Paese dell'importatore.
Caratteristiche
del
titolo sono:
-
l'essere
espresso in valute «forti»
(dollaro, euro); ‑ l'avere una scadenza tra i sei mesi e i cinque anni;
-
l'essere
avallato da una banca primaria
del paese del debitore accettante.
L'esportatore
italiano
appone su ciascun titolo la dicitura «senza regresso»
(without recourse) prima
della girata, quindi appone la firma di girata, trasferendo tutti
i rischi
all'acquirente del credito (il forfaiter) che paga all'esportatore
per pronta
cassa il valore nominale degli effetti ceduti, detratto lo sconto (che
viene
calcolato a un tasso variante in funzione della scadenza delle
cambiali, della
moneta in cui queste sono espresse e del paese debitore).
Costruzioni
1. CATEGORIE
DEGLI
EDIFICI
Ai fini
dell'attività
dell'agente immobiliare le varie classificazioni a cui fare riferimento
sono
quelle che individuano immobili in modo organico e pratico onde
ottenere una
suddivisione di detti immobili utile alla catalogazione ed
all'elaborazione
con programmi informatici delle offerte immobiliari. La conoscenza
della
destinazione d'uso di un bene è importante, perché
essa
può farne variare
il valore economico; quindi individuando ogni categoria per
tipologia d'uso,
gli immobili si possono suddividere in:
2.
La casa
d'abitazione
non è altro che una trasformazione dell'ambiente naturale
operata dall'uomo
per procurarsi lo spazio entro cui svolgere una parte delle sue
funzioni vitali.
La sua classificazione per tipi può scaturire da un criterio
morfologico che
tenga conto del grado di individualità degli edifici in
questione. Partendo da
tale premessa possiamo prima di tutto distinguere le case d'abitazione
in due
ampie categorie: case unifamiliari, case plurifamiliari.
Ambedue queste
categorie possono essere ulteriormente suddivise: le prime in case
unifamiliari singole e case unifamiliari associate; le seconde in case
plurifamiliari isolate, case plurifamiliari contigue, case collettive.
Si tratta di
edifici
liberi da ogni lato destinati ad ospitare una sola famiglia. Quando non
si
tratti di residenze legate ad attività agricole, questo tipo di
abitazione è
tendenzialmente destinato ad una utenza di condizioni economiche
elevate. Tali
dimore possono avere carattere permanente o temporaneo se utilizzate,
ad
esempio, per weekend. Spesso possono essere dotate di giardino
esclusivo.
Sono edifici
abitativi
composti di più alloggi destinati a diversi nuclei
familiari, e per ognuno di
essi è previsto un accesso indipendente dall'esterno,
direttamente dalla strada
o attraverso un giardino privato. Gli edifici sono privi di qualunque
comunicazione tra i vari alloggi fatta eccezione per le strade di
accesso.
Vari possono
essere i
tipi di associazione:
a)
le case
unifamiliari associate con alloggi
abbinati hanno in comune solo uno dei muri perimetrali, mentre gli
altri tre
sono completamente liberi. I due alloggi abbinati sono usualmente
disposti in
maniera simmetrica rispetto al muro in comune. Ciò consente
la sistemazione
contrapposta di bagni e cucine con alloggiamento delle tubazioni e
delle canne
fumarie nella zona comune, e sistemazione degli ambienti di soggiorno e
alle
camere da letto per quanto possibile rivolta verso l'esterno;
b)
le case
unifamiliari associate con alloggi
raggruppati sono costituite di quattro appartamenti accostati tra
loro aventi
due muri perimetrali in comune e due liberi;
c)
le case
unifamiliari associate con alloggi
a schiera sono disposte in modo che ciascun alloggio abbia due muri
perimetrali
in comune, rispettivamente con l'edificio che precede e con quello che
segue.
Naturalmente fanno eccezione i due blocchi di testata i quali hanno tre
fronti
liberi. Generalmente si tratta di edifici a più piani con scala
interna, aventi
un'area di pertinenza su un lato libero o su ambedue. A seconda della
natura
del terreno la schiera può essere realizzata in modo diverso:
schiera longitudinale,
trasversale, obliqua, sfalsata ecc.;
d)
le case
unifamiliari associate con alloggi
sovrapposti, generalmente sono costituite da un appartamento posto al
piano
terreno e comunicante direttamente con l'esterno, e da un
appartamento posto
al primo piano, a cui si accede direttamente dall'esterno tramite una
scala
privata. La pianta dei due alloggi può coincidere oppure no: in
tal caso i due
ingressi sono situati dallo stesso lato oppure sui due fronti opposti.
Quest'ultima soluzione contribuisce a dare maggiore risalto al
carattere
individuale degli alloggi.
Sono edifici
composti
da vari alloggi, comunque aggregati, a cui si accede tramite ingressi,
scale,
ascensori, ballatoi in comune. Avendo in comune una serie di servizi
quali il
portierato, le strade di accesso, gli impianti tecnologici,
l'ingresso, le
scale, l'ascensore ecc. questi edifici hanno la necessità di
costituire un
condominio.
Varie possono
essere le
tipologie:
1) Case
plurifamiliari
isolate
Si tratta di
fabbricati
aventi i quattro lati liberi. In essi i singoli alloggi sono
disimpegnati da
una zona di ingresso che, spesso, accoglie anche il corpo
scala‑ascensore.
Questi edifici
vengono
detti a torre quando il numero dei piani risulta elevato.
2) Case
plurifamiliari
contigue
In questi
edifici i
diversi elementi sono collegati tra loro mediante muri perimetrali in
comune.
Quest'ultimo
tipo
edilizio può suddividersi a sua volta in due sottogruppi:
a)
le case
plurifamiliari contigue in linea.
Esse possono svilupparsi in linea retta, variamente articolata o,
addirittura,
curva. Un carattere determinante di questo tipo edilizio è che
un unico corpo
scala può servire da un minimo di due a un massimo di quattro
appartamenti per
piano;
b)
le case
plurifamiliari contigue a blocco.
Sono blocchi poligonali, chiusi o aperti, racchiudenti al loro interno
uno
spazio libero: il cortile. A seconda che si tratti di blocchi chiusi o
blocchi
aperti avremo, rispettivamente, cortili chiusi o cortili aperti.
3) Case
collettive
Si intendono,
con
questa denominazione, quelle case plurifamiliari composte da
numerosissime
cellule abitative, per lo più di piccole dimensioni, e da
un'ampia dotazione di
servizi comuni: ristorante, lavanderia, negozi, asilo ecc.
3. CENNI SUI
TIPI
EDILIZI
È
opportuno procedere
ad una illustrazione, seppur schematica, delle tipologie
residenziali
tradizionali più diffuse in Italia. Esse sono: la casa a
corte, la casa torre,
la casa a schiera e, infine, la casa in linea. Con lo sviluppo e la
completa
maturazione di questi «tipi» residenziali copriamo,
storicamente, un arco di
tempo che, partendo dall'antica Roma, arriva fino alla produzione
edilizia dei
giorni nostri.
La casa a
corte è la
tipologia più antica. Essa deriva, infatti, dalla domus
elementare di età
romana. La casa a corte è chiamata così perché
all'interno di essa insiste una
corte di grandi dimensioni che può essere completamente
chiusa sui
quattro lati
o aperta su un solo lato. Mentre in un primo tempo gli affacci erano
orientati
per lo più verso l'interno, più tardi si iniziarono a
realizzare aperture
anche verso l'esterno. Oggi, in ambiente metropolitano, si ha lo
sviluppo di
edifici plurifamiliari a corte, dove possono essere presenti anche
appartamenti
a due piani (duplex).
La casa a
torre, presente
in molti tessuti urbani cresciuti fortemente in età medievale,
è considerata
come il processo di sviluppo, in altezza, della cellula abitativa di
base. Oggi
la casa a torre è costituita da un edificio di notevole altezza
che si sviluppa
intorno ad un nucleo centrale formato dalle scale e dall'ascensore.
La casa a
schiera è
forse l'elemento edilizio più caratterizzante le espansioni
delle città per
tutto il Medioevo. La casa a schiera si sviluppa su di un lotto
rettangolare
molto allungato con fronte di ampiezza di circa 5‑6 metri; essa
è destinata
all'abitazione di un unico nucleo familiare; si sviluppa su più
piani,
generalmente non più di tre fuori terra; ha un ingresso
indipendente ed una
piccola pertinenza di area destinata a verde solo sul fronte o anche
sul retro.
È costruita in continuità con altre case, avendo la
comunanza dei muri laterali
e tutte costituiscono un unico fabbricato. L'affaccio è limitato
ai due soli
lati corti, mentre nel primo e nel secondo piano si colloca la vera e
propria
abitazione. Attualmente, la tipologia a schiera sta conoscendo un
momento di
particolare fortuna. Di essa si tendono a sfruttare quelle
possibilità di
privacy e di contatto col terreno che altre tipologie non offrono;
anche se
per contro si ha la distribuzione interna su due o tre livelli,
l'ingombrante
presenza della scala interna ed un costo di costruzione alquanto
maggiore
rispetto ad altre tipologie.
In età
tardo‑medievale
iniziò a svilupparsi, dalla tipologia a schiera, la casa in
linea. La casa a
schiera perde la sua singolarità per accorparsi ogni due od ogni
quattro
alloggi per piano; l'alloggio si sviluppa orizzontalmente su di un
unico
livello e si ripete, dal piano terra all'ultimo piano
abbandonando, così, il
concetto di unitarietà abitativa in verticale dalla terra al
tetto. In
conseguenza di ciò, la casa in linea è destinata
all'abitazione di più nuclei
familiari, ogni rampa di scale non serve una sola abitazione, ma
tramite i
pianerottoli serve due o quattro appartamenti per piano. Questi
organismi
abitativi, oggi, sono diventati giganteschi complessi residenziali
caratteristici della produzione edilizia contemporanea.
Se nella casa
in linea
vi è la presenza di un ballatoio condominiale per ogni piano la
costruzione
prende il nome di casa a ballatoio.
4. GLI SPAZI
DELLA CASA
Gli spazi
interni di
ogni tipo di abitazione possono dividersi in due categorie: spazi
serventi e
spazi serviti. Gli spazi serventi sono gli ingressi, i corridoi ed
i
disimpegni. Gli spazi serviti sono il soggiorno, il pranzo, le camere
da letto,
le cucine, i bagni e i ripostigli. La possibilità di usare altri
spazi come i
loggiati e le terrazze, le cantine e le autorimesse aumenta la
funzionalità
dell'abitazione Esamineremo ora particolarmente, uno per uno, i
principali
spazi serventi e serviti dell'abitazione.
Nelle case di
abitazione, abitualmente, si ha un solo ingresso; un secondo ingresso
all'abitazione è utile, se comunica direttamente con una
camera‑soggiorno
usata come stanza degli ospiti o per il soggiorno saltuario di un
parente o
per il personale di servizio.Nelle abitazioni lo spazio destinato
all'ingresso
ha funzioni di ricevimento degli estranei. È utile che questo
spazio comunichi
con un grande armadio a muro, destinato a contenere gli indumenti che i
componenti della famiglia e gli avventori indossano uscendo di casa. La
zona
notte, costituita delle camere da letto e dei bagni, deve essere
separata
dall'ingresso, sempre. La distribuzione dei vari ambienti della casa
è
tradizionalmente affidata ai corridoi sui quali si affacciano le
porte
d'ingresso alle varie stanze. Attualmente la tendenza è
quella di utilizzare
il soggiorno per smistare gli accessi alle varie stanze; questa
soluzione
permette di sfruttare meglio lo spazio a disposizione, ma trova forti
resistenze nel costume di vita della famiglia media italiana, che non
desidera
avere il soggiorno di passaggio.
È lo
spazio interno
principale dell'abitazione che spesso ingloba anche l'ingresso,
nel quale si
articolano le relazioni del nucleo familiare. Questo spazio ospita una
zona
destinata al pranzo ed una zona destinata al soggiorno. Le funzioni che
si
possono svolgere nella zona soggiorno sono molteplici per cui si
può dividere
in: angolo divani e poltrone per la conversazione, l'ascolto di musica
e
visione TV; angolo studio dove si può scrivere e leggere, angolo
giochi. Nelle
abitazioni moderne, soprattutto nei centri urbani, l'economia di
spazio è un
elemento dominante per cui si ha un prolungamento dello spazio cucina
ottenendo
il tinello.
Oggi, in ogni
categoria
sociale, la cucina è sempre concepita come una macchina
funzionale, dove è
dominante la praticità della funzione; l'utilizzo delle moderne
attrezzature
elettrodomestiche riduce ancora la già esigua superficie.
Si consigliano
superfici mai inferiori a mq 8‑9, salvo che vi sia la compresenza
del tinello
come si è detto nel punto precedente.
In un alloggio
è necessaria
la divisione netta fra la zona notte e la zona giorno, in modo da
garantire la
necessaria intimità a questa parte dell'abitazione. La
funzione esplicata
dalle camere da letto è quasi una costante universale: la
funzione del
dormire. In una situazione ideale, ogni figlio dovrebbe avere la
propria
stanza, in cui si dovrebbe prevedere lo spazio per lo studio, con un
tavolinetto ed una libreria; si tratta, quindi, di spazi misti, che
inglobano
le funzioni notturne con quelle di soggiorno.
Lo sviluppo
degli
apparecchi igienico‑sanitari ha portato alla riduzione degli spazi
occorrenti
per i locali da bagno; comunque è consigliabile non scendere
sotto i
5. DEFINIZIONE
DEL
LUOGO DOVE INSISTE L'EDIFICIO
L'edificio,
all'interno
del contesto urbano, fa parte di una zona della città che
può essere:
a)
quartiere o
circoscrizione.
Molte città, sia tradizionalmente sia per motivi
burocratici ed amministrativi
relativi al decentramento (città con un numero di abitanti
superiore a
100.000), sono divise in quartieri che hanno un nome storico o
sono definiti
da un numero. Molto spesso, soprattutto nell'urbanizzazione avvenuta
negli anni
Settanta, sono stati costruiti molti edifici in zone periferiche che
hanno
assunto il nome di quartieri satelliti (perché posti intorno
alla città, ma non
dentro di essa). All'interno dei quartieri esistono gli isolati che
sono
caratterizzati da una serie di costruzioni in continuità e sono
delimitati da
strade.
b)
centro storico,
è quella parte della città che conserva la memoria
storica dell'origine del
nucleo abitativo. In questa zona si possono riscontrare tipologie
abitative
antiche e strade con caratteristiche relative all'epoca di costruzione.
Nel
Centro storico si trovano, molto spesso, costruzioni caratteristiche e
monumenti. Infine, secondo l'espansione, la città si divide in:
zona centrale
(che può corrispondere o meno al centro storico), periferia,
zona di nuova urbanizzazione;
c)
zona
industriale e commerciale.
Ai margini della città intere zone sono destinate,
urbanisticamente, alle
attività inerenti il commercio e l'industria, questo alfine
di agevolare gli
scambi, il traffico pesante e la costruzione di manufatti idonei
allo scopo ed
economicamente validi; sono le cosiddette zone ASI ‑ Aree di Sviluppo
Industriale. In queste zone è possibile costruire solo
edifici a destinazione
industriale, commerciale all'ingrosso e artigianale. Non sono
invece
consentiti edifici di edilizia abitativa residenziale. Le costruzioni
residenziali civili ammesse devono essere a diretto servizio
dell'attività
industriale, commerciale o artigianale e devono essere destinate
ad uffici o
residenza del custode.
6. ELEMENTI DI
FABBRICA
Un'apparecchiatura
costruttiva consiste in un insieme di parti, detti elementi di
fabbrica, tra
loro correlate ed integrate, aventi ciascuna caratteristiche ed
attributi
specifici di utilizzazione e collocazione con una o più delle
seguenti
funzioni:
-
delimitare e
classificare lo spazio;
-
assicurare
condizioni di comfort;
-
garantire la
stabilità dell'organismo.
Gli elementi
di
fabbrica si possono suddividere in tipo strutturale e non strutturale.
I
principali elementi di fabbrica di tipo strutturale, in linea di
massima si
possono sintetizzare in:
-
scheletro
portante;
-
chiusure
orizzontali portanti;
-
chiusure
verticali portanti;
-
fondazioni.
I principali
elementi
di fabbrica di tipo non strutturale, in linea di massima si
possono
sintetizzare in:
-
tramezzi
(partizioni interne);
-
pavimenti,
rivestimenti, intonaci,
coperture, controsoffitti, pluviali;
-
infissi
interni ed esterni; ‑ elementi di
comunicazione verticale.
Elemento di
fabbrica
che ha l'ufficio di portare tutte le altre parti costituenti
l'apparecchiatura
costruttiva, avente funzione essenzialmente statica. Esso è
generalmente
formato nella parte in elevazione dai seguenti elementi costruttivi
semplici:
pilastri, travi, telai ed eventuali controventi.
Con questo
termine si
intende l'elemento di fabbrica, di qualsiasi forma, che sostituisce
inviluppo o
suddivisione orizzontale dello spazio di un organismo
architettonico. La sua
strutturazione può essere schematizzata nelle seguenti
parti fondamentali:
-
parte
resistente: sostenuta dallo
scheletro portante o da pareti portanti quali ad esempio: solaio in
cemento
armato e laterizio, solette in c.a., solai in legno, solai in ferro e
laterizio, volte di vario tipo. Se i solai sono realizzati in posizione
inclinata si ha il tetto;
-
parte di
completamento all'estradosso può
comprendere semplicemente la pavimentazione o il manto di copertura;
-
parte di
completamento all'intradosso può
essere costituita solamente dallo strato di finitura quale intonaco,
rivestimento ecc. oppure da un controsoffitto.
Con questo
termine si
intende l'elemento di fabbrica, di qualsiasi forma, che sostituisce
inviluppo
verticale dello spazio di un organismo architettonico. Esse
possono essere
portanti o portate:
-
pareti
portanti: suddivise in muratura
tradizionale in opera e pannelli parete;
-
pareti
portate: suddivise in tamponature,
tramezzi e serramenti esterni. II serramento esterno viene considerato
integrante delle chiusure verticali: sia come elemento costruttivo
semplice, se
incorporato nella chiusura portante o portata, sia come elemento
costruttivo
complesso, nel caso di infisso monoblocco non inserito in senso
trasversale nei
muri portanti o di tamponatura, in quanto si identifica nel pannello
facciata.
Con questo
termine si
intendono quegli elementi di fabbrica che, nell'ambito di un
organismo,
pongono in comunicazione piani disposti a quote diverse.
Comprendono:
a) il corpo
scala
costituito da:
-
involucro che
può essere collegato o
indipendente dalla struttura portante oppure può essere
completamente assente;
-
scala fissa:
compreso gradinata e rampa a
piano inclinato, gradini e ringhiera;
-
scala
meccanica: elemento costruttivo
complesso, realizzata in officina;
b) il corpo
ascensore:
costituito da
cabina e
motore per il sollevamento sono alloggiati nell'apposito vano ascensore
compreso di serramento.
Elementi di
fabbrica
per la suddivisione verticale dello spazio all'interno dell'organismo.
Nel caso
di ossatura muraria tradizionale o prefabbricata le partizioni interne
possono
avere funzione statica. Nel caso più generale devono
assolvere essenzialmente
alle esigenze del comfort.
Elemento di
fabbrica
destinato principalmente, in qualità di contenitore di
canalizzazioni o
raggruppamento di apparecchi di utilizzazione, a soddisfare le
esigenze del
comfort.
7. IMPIANTI
NEGLI
EDIFICI
I principali
impianti
negli edifici sono:
-
impianto
elettrico, citofonico, TV e
telefonico da realizzare secondo la legge 46/1990 (Norme per la
sicurezza degli
impianti);
-
impianto
idrico sanitario;
-
impianto di
riscaldamento da realizzare
secondo la legge 10/1991 ed il suo regolamento di attuazione (D.P.R.
412/1993).
Importante per
l'igiene
è la rete fognaria per lo smaltimento delle acque nere
provenienti dai bagni e
dalle cucine e delle acque bianche meteoriche; essa è realizzata
con tubazioni
verticali passanti nei muri che confluiscono in una condotta
orizzontale,
interrata, situata nel piano terra, le cui tubazioni si immettono nella
fognatura comunale o, se queste non esistono, in apposito depuratore.
Lungo il
tratto orizzontale di fognatura si inseriscono pozzetti d'angolo,
sifonati, di
ispezione ecc. I tubi possono essere realizzati di vari materiali,
quali
cemento pressovibrato o gres; oggi di gran lunga i più usati
sono i tubi
realizzati in PVC (policloruro di vinile) rigidi.
8.
RAPPRESENTAZIONE
GRAFICO‑PROGETTUALE
La
progettazione
edilizia viene suddivisa nelle seguenti fasi:
-
acquisizione
di dati e informazioni;
-
progetto di
massima;
-
progetto
esecutivo;
-
disegni di
insieme e dei particolari
costruttivi.
Tuttavia il
settore
edilizio, per la sua influenza sullo sviluppo territoriale ed
urbanistico, è
sottoposto ad una serie di norme e strumenti legislativi che pongono
dei
vincoli alle caratteristiche, all'ubicazione e alle dimensioni
dell'opera. La
progettazione architettonica richiede la rappresentazione dell'opera in
tutte
le sue parti. Occorre quindi descrivere sia l'aspetto interno, tramite
piante
e sezioni, che l'aspetto esterno della costruzione tramite prospetti,
pianta
della copertura, planimetria.
Se si deve
disegnare su
di un foglio di carta una pianta di un fabbricato evidentemente non
è possibile
dare al disegno la grandezza reale della superficie da
rappresentare. Il
problema si risolve disegnando una forma più piccola ma simile a
quella reale
del fabbricato. Questa operazione viene sintetizzata col termine
di
rappresentazione in scala. Per esempio: scala 1:100 significa che
La quotatura
viene
sempre eseguita su piante e sezioni, mentre i prospetti vengono quotati
solo
con le indicazioni essenziali. Si quotano gli elaborati tenendo
presente il
procedimento di esecuzione dei lavori. Nelle piante degli edifici si
dispongono
nell'ordine, partendo dall'esterno. All'esterno si pongono dimensioni
totali,
spessore dei muri portanti, distanze che intercorrono tra di loro
e distanze
tra gli assi di simmetria delle aperture. All'interno le quote per la
posizione
dei tramezzi e degli accessori. Ogni disegno deve portare tutte le
quote atte a
individuare ogni elemento dell'oggetto rappresentato in modo evidente e
preciso. Le quote principali devono risultare in evidenza. Le linee di
misura
contenenti la quota terminano con frecce tracciate con inclinazione a
30°.
Quando lo spazio non è sufficiente le quote si dispongono con le
frecce
esternamente alla zona misurata. Le quote di livello vanno riferite
alla quota
relativa di livello 0.00 che è quella del pianerottolo del piano
terreno al
finito. Le misure si riferiscono al rustico dell'edificio. Le
unità di misura
che si usano sono:
-
i millimetri
per le opere in acciaio;
-
i centimetri
per lo spessore dei muri,
canalizzazioni, tubi in genere, pedate delle scale, ascensori ecc.;
-
i metri per
tutte le altre parti.
In una stessa
tavola
non si cambia l'unità di misura.
Negli
elaborati tecnici
di progetto (piante e sezioni) è necessario rappresentare
gli elementi
costruttivi, le parti dell'impianto elettrico, idrico sanitario e
dell'arredamento. A tal proposito si usa una simbologia normata il
più
possibile universale.
Gli elaborati
tecnici
che compongono un progetto architettonico di un edificio si
possono dividere
in planimetrie e piante prospetti e sezioni. Le planimetrie si
inseriscono nel progetto sotto forma di stralcio per
l'inquadramento
territoriale dell'edificio da costruire. Si utilizzano carte
topografiche
dell'I.G.M. (Istituto Geografico Militare) in scala 1:25.000 che
coprono tutto
il territorio nazionale, oppure le carte regionali o ortofotocarta in
scala
1:10.000 realizzate sulla base delle carte dell'I.G.M.. Da queste carte
si
possono estrarre moltissimi dati, quali:
-
la rete
ferroviaria con tutti i suoi
elementi;
-
le strade di
tutti i tipi con i suoi
elementi;
-
fossi,
sorgenti, canali ed acquedotti;
-
centri abitati
e costruzione di ogni
genere;
-
boschi e
colture varie.
Questi tipi di
carte
contengono anche le curve di livello che descrivono l'andamento
altimetrico del
terreno. Alla scala più grande poi sono rappresentati i PRG
(Piano Regolatore
Generale) in scala 1:2.000/1:1.000 e i fogli catastali
rappresentati in genere
alla scala 1:2.000/1:1.000/1:500. Piante, prospetti e sezioni vengono
redatti
in grande scala, ad esempio:
-
la planimetria
generale dell'edificio in
cui si evidenzia il lotto ed il suo intorno viene rappresentata alla
scala
1:500/1:200;
-
le piante, i
prospetti e le sezioni di un
progetto architettonico di massima vengono rappresentati in scala
1:100. Il
progetto a tale scala di rappresentazione viene utilizzato per la
richiesta
della concessione edilizia presso il Comune di appartenenza del lotto.
Da esso
deve risultare la rispondenza alle norme tecniche di attuazione del PRG
e alle
norme del Regolamento edilizio;
-
le piante, i
prospetti e le sezioni di un
progetto architettonico esecutivo vengono rappresentate in scala 1:50.
Essendo
la scala di rappresentazione più grande, il progetto è
più dettagliato e quindi
sono rappresentati gli elementi costruttivi. Qualora per alcuni
particolari
costruttivi si rendesse necessaria una rappresentazione più
dettagliata si
usano le scale di rappresentazione 1:20/ 1:10/1:5.
Uffici
preposti alla
registrazione degli immobili
1. AGENZIA DEL
TERRITORIO
L’agenzia
del
territorio, nata all'interno della riforma del Ministero
dell'Economia e delle
Finanze, è operativa dal 1 ° gennaio 2001 ed è un
ente pubblico dotato di
personalità giuridica e ampia autonomia. È costituita da
Direzioni Centrali
che hanno sede a Roma, da Direzioni Compartimentali (fino
all'attivazione
delle Direzioni Regionali) e da Uffici Provinciali, che
garantiscono una
capillare presenza su tutto il territorio nazionale.
Tra i compiti
svolti
dall'Agenzia del Territorio, ricordiamo:
2. IL CATASTO
E
L'UFFICIO TECNICO ERARIALE
Il catasto
è
l'inventario dei beni immobili esistenti nel territorio nazionale e ha
finalità
fiscali e civili. Gli scopi fiscali del catasto consistono nel
determinare il
reddito imponibile dei terreni e dei fabbricati ai fini delle
imposte dirette
e indirette. Attualmente il reddito catastale o il valore
catastale
costituiscono la base imponibile per l'IRPEF, ICI, l'imposta sulle
successioni
e donazioni, l'imposta di registro e le imposte ipotecarie e catastali.
Gli
scopi civili del catasto consistono nell'individuare e tenere distinta
la
proprietà immobiliare. Il valore degli immobili, ai fini
fiscali, è dato dalla
rendita catastale che è definita dall'Ufficio Tecnico Erariale
(UTE). L'Ufficio
Tecnico Erariale ha sede presso l'Agenzia del territorio che è
istituita in
ogni capoluogo di Provincia.
L'Ufficio
tecnico
Erariale ha il compito di tenere aggiornati gli estimi catastali,
cioè i
redditi agrari e dominicali, su cui si basa l'imposizione fiscale, in
ragione
delle variazioni e dei miglioramenti o declassamenti dei terreni
agricoli, i
trasferimenti di proprietà per compravendita, successione,
usucapione. Questo
ufficio provvede alla formazione del Nuova Catasto, che si divide in
Nuovo
Catasto Terreni e Nuovo Catasto Edilizio Urbano. Attualmente quasi
tutti gli
uffici del catasto sono stati unificati facilitando l'accesso agli
utenti
avendo informatizzato il servizio, per cui è possibile avere
informazioni sia
sui terreni sia sui fabbricai ad uno qualsiasi dei sportelli; inoltre
è
possibile accedere alle informazioni anche di un altro ufficio di
provincia diversa
grazie all'informatizzazione del sistema.
3. IL CATASTO
DEI
TERRENI
La formazione
del
catasto terreni è consistita nel:
-
rilevare il
territorio con operazioni
topografiche;
-
calcolare le
tariffe d'estimo con
operazioni estimative.
Entrambe
queste operazioni
hanno quale oggetto del rilievo la particella, cioè «una
porzione continua di
terreno, situata nello stesso comune, appartenente allo stesso
possessore e
della medesima qualità e classe».
Le operazioni
di
rilievo del territorio hanno come scopo la rappresentazione
planimetrica delle
particelle su fogli di mappa. Ogni particella è
contrassegnata da un numero di
mappa ed il contorno di essa è rappresentato graficamente da una
linea
continua; di essa si calcola la superficie in ettari.
Le operazioni
estimative hanno come finalità: il classamento, cioè
attribuire ad ogni
particella la qualità e la classe che le compete; tariffe
d'estimo, cioè
calcolare le rendite catastali da applicare alle diverse qualità
e classi.
Le tariffe
d'estimo
esprimono il reddito dominicale o il reddito agrario per ogni
qualità e classe,
per ettaro di superficie, in moneta legale, con riferimento
all'epoca
censuaria. Il reddito dominicale (RD) è ili reddito medio
ordinario, traibile
dal terreno attraverso l'esercizio di attività agricola da parte
del
proprietario, il reddito agrario (RA) è invece il reddito medio
ordinario spettante
a chi gestisce l'attività agricola sul fondo (imprenditore
agricolo). Se le due
figure coincidono con una sola persona fisica, a questa spetteranno
entrambi i
redditi.
L'aggiornamento
degli
estimi dei terreni avviene con cadenza decennale.
Gli atti di
cui si
compone attualmente il catasto sono:
1)
la mappa
particellare;
2)
lo schedario
delle partite (solo come
documento storico);
3)
l'elenco dei
numeri di mappa;
4)
l'elenco dei
possessori.
4. IL CATASTO
DEI
FABBRICATI
Con la legge
1249/1939
viene indetta la formazione del Nuovo Catasto Edilizio Urbano
(N.C.E.U.), unico
per tutto il territorio nazionale, allo scopo di «accertare
le proprietà
immobiliari urbane e determinarne la rendita». Lo scopo era di
rilevare
geometricamente i fabbricati; determinare il reddito ordinario per
classi e
tariffe per gli immobili a destinazione ordinaria e la rendita
catastale per
stima diretta degli immobili a destinazione speciale e particolare. La
struttura del catasto dei fabbricati è imperniata sulle
unità immobiliari
(U.I.) che vengono suddivise in gruppi, i gruppi in categorie e le
categorie in
classi.
Il rilievo
geometrico, invece, ha come finalità la determinazione:
-
dell'ubicazione,
determinata dalla mappa
urbana rappresentante tutto il territorio Comunale, divisa in fogli
numerati in
cui sono rappresentate le particelle edilizie; i fogli sono riuniti in
un
quadro d'unione;
-
della
consistenza del fabbricato, determinata
dalla planimetria delle singole U.I., normalmente in scala 1:200.
Ogni U.I. è
contraddistinta da un numero principale, cioè il numero di mappa
della
particella edilizia, e da un numero subalterno proprio
dell'unità immobiliare.
Le operazioni
estimative
per la determinazione del reddito sono:
-
la
suddivisione in zone censuarie. Essa
rappresenta «porzione omogenea del territorio provinciale, che
può comprendere
un solo comune o porzione del medesimo o gruppi di comuni aventi
simili
caratteristiche ambientali e socioeconomiche». Le zone
censuarie sono
ulteriormente suddivise in microzone;
-
la
qualificazione che consiste nel
distinguere le varie tipologie di fabbricato in categorie. Le nuove
categorie
del catasto fabbricati sono suddivise in 5 gruppi nell'ambito di 2
tipologie di
fabbricati mentre le vecchie categorie sono suddivise in 5 gruppi
nell'ambito
di 3 tipologie ;
-
la
classificazione, che consiste nel
suddividere ogni categoria in tante classi quanti sono i gradi diversi
delle
rispettive capacità di reddito. Quindi la classe rappresenta
«il livello di
reddito ordinariamente ritraibile dall'unità immobiliare (U.I.)
nell'ambito del
mercato edilizio della microzona, in funzione della qualità
urbana ed
ambientale nonché delle caratteristiche edilizie dell'U.I.
e del fabbricato
che la comprende»;
-
il classamento
consiste «nell'attribuire a
ogni U.I. a destinazione ordinaria la categoria e la classe di
competenza e a
quella a destinazione speciale la sola categoria, con riferimento ai
quadri di
qualificazione e classificazione»;
-
La
consistenza: i parametri per la
misurazione della consistenza catastale dei fabbricati sono stati di
recente
modificati e, pertanto, i vecchi coesistono con i nuovi. I vecchi
parametri
riferiti alle vecchie categorie catastali sono: per le categorie
del gruppo A:
il vano utile; per le categorie del gruppo B: il metro cubo; per le
categorie
del gruppo C: il metro quadrato. Con l'ultima revisione delle zone
censuarie,
ai sensi del D.P.R. 23‑2‑1998, n. 138 si è stabilito che il
parametro per la
misurazione della consistenza delle categorie è il metro
quadrato di superficie
catastale.
-
la
determinazione delle tariffe. Le
tariffe esprimono la rendita catastale per ogni categoria e classe, per
unità
di consistenza e con riferimento ai prezzi medi correnti nel periodo
censuario
fissato per legge.
Nota la
tariffa e la
consistenza si può determinare il reddito imponibile catastale
di ogni U.I. La
rendita catastale, quindi, è data dal prodotto della consistenza
per la tariffa
d'estimo.
5.
ACCERTAMENTO
GIURIDICO E FISCALE DI BENE IMMOBILE
Per la
più completa
conoscenza del bene immobile che si sta trattando è
bene svolgere
gli
accertamenti giuridici e fiscali che seguono:
a)
accertare se
il titolo di proprietà del
bene immobile e stato regolarmente trascritto, effettuando una visura
presso
b)
acquisire
l'atto di provenienza del bene
immobile. In esso si può rilevare: il nome del notaio che ha
stipulato l'atto;
luogo e data della stipula; il numero del repertorio notarile;
numero di
repertorio e data della registrazione presso l'Ufficio del Registro;
c)
Accertare la
disponibilità del bene,
verificando che:
‑ non vi sia
in essere
contratto di locazione che rende non disponibile per un certo tempo il
bene;
‑ non sia
gravato da
diritto di godimento da parte di persone fisiche o giuridiche (visura
Conservatoria dei Registri Immobiliari);
‑ non sia
sottoposto ad
enfiteusi; ‑ non sia assoggettato a servitù temporanea o
permanente;
‑ non sia
assoggettato
a limitazioni d'uso previste dal regolamento di condominio;
d )acquisire
la
documentazione catastale per verificarne la rispondenza; la
documentazione che
ci interessa può essere richiesta conoscendo il nominativo
del possessore o il
numero del foglio di mappa e particella. In base al nostro interesse si
può
richiedere:
‑ copia di
mappa
generalmente in scala 1:1000/1:2000 in cui sono riportate le
particelle;
‑ copia delle
schede
grafiche consistenti in planimetria dell'UT scala 1:200 o elaborato
planimetrico scala 1:500
‑ visura o
certificato
catastale in cui sono riportati: intestazione della ditta
catastale con codice
fiscale, il numero del foglio di mappa, il numero della particella, il
subalterno se trattasi di catasto urbano, ubicazione dell'unità
immobiliare, il
piano e l'interno, la zona censuaria, categoria e classe, la
consistenza, la
rendita catastale.
Spesso non
c'è esatta
corrispondenza tra i dati catastali e le risultanze della Conservatoria
dei
Registri Immobiliari in quanto i dati catastali non risultano
aggiornati. In
questo caso si dovrà provvedere all'aggiornamento dei dati
catastali.
Per quanto
concerne la
valutazione degli immobili ai fini fiscali occorre sottolineare che la
rendita
catastale, calcolata in base al pregio dell'immobile e al numero dei
vani,
costituisce il parametro fondamentale di valutazione. Si tenga
presente,
inoltre, che sui nuovi certificati catastali non sono più
indicati i vani
catastali mala superficie totale dell'immobile il decurtato nelle
percentuali
dei muri e delle superfici non residenziali e di servizio.
La conoscenza
della
rendita catastale è essenziale per tale valutazione in quanto
è l'unico
parametro considerato valido fiscalmente dagli uffici finanziari.
Una
valutazione più
bassa di quella calcolata in base alla rendita catastale può
dare adito ad una
richiesta di rivalutazione dell'immobile da parte dell'ufficio del
registro.
Gli immobili
iscritti
in Catasto, non sono suscettibili di rettifica di valore (entro due
anni dal
pagamento dell'imposta) se il valore dichiarato:
Sono esclusi
dalla
valutazione catastale automatica i terreni edificabili, i fabbricati
non
censiti (nuove costruzioni o fabbricati rurali venduti
separatamente dal
fondo), immobili censiti senza attribuzione di rendita.
I fabbricati
rurali che
rispettano i criteri di ruralità di cui all'art. 9 del D.L.
557/1993 sono
compresi nel valore del terreno non edificabile, se ceduti con lo
stesso.
La valutazione
catastale si applica anche agli immobili costituenti parte dei
complessi
aziendali. Il criterio automatico, come sopra definito, si applica a
tutte le
traslazioni d'azienda (successione, vendita etc.), qualora il valore
dell'immobile aziendale sia evidenziato singolarmente nell'atto.
In ogni
capoluogo di
provincia sono custodite le mappe relative ad ogni territorio comunale.
Queste
mappe costituiscono il quadro d'insieme del territorio censito e
sono
suddivise i fogli. Ogni foglio comprende le particelle che sono
riferite alla
proprietà, alla superficie e alla qualità.
Le particelle
sono
raccolte in schedari. Ogni elenco delle particelle, appartenenti
ad un'unica
ditta (proprietà), è riassunto nel registro delle
partite. La matricola è
l'elenco, in ordine alfabetico dei possessori dei terreni, con
l'indicazione
dei rispettivi redditi imponibili.
Questa
suddivisione
esiste ancora ed è necessaria per gli uffici che non sono ancora
informatizzati.
Con
l'unificazione
degli uffici del Catasto e con la messa in rete di molti uffici in
campo
nazionale, la richiesta di visura si concretizza in un certificato per
il quale
viene dato sia il nome o i nomi dei proprietari sia il numero della
particella
e foglio del comune ove insiste l'immobile.
Questa
informatizzazione degli uffici ha difatti accelerato la pratica delle
visure e
dei certificati catastali in quanto non è più necessario
indicare il numero di
partita.
|
Immobili a
destinazione ordinaria
|
|||
Gruppo A-
Categorie (fabbricali per uso abitazione): |
||||
A/1 A/2 A/3 A/4 A/5 A/6 A/7 A/8 A/9 |
- Abitazione
di tipo signorile; - Abitazione
di tipo civile; - Abitazione
di tipo economico; - Abitazione
di tipo popolare; - Abitazione
di tipo ultrapopolare; - Abitazione
di tipo rurale; - Abitazione
in villini; - Abitazione
in villa; - Castelli,
palazzi di eminenti pregi artistici o storici |
|||
A/10
- Uffici e studi privati; |
||||
A/11 |
- Abitazioni
ed alloggi tipici dei luoghi (rifugi di montagna, trulli, baite ecc.). |
|||
Gruppo B -
Categorie (fabbricati collettivi): |
||||
B/1 B/2 B/3 B/4 B/5 B/6 B/7 B/8 |
- Collegi e
convitti, educandati, ricoveri, orfanotrofi, ospizi, conventi,
seminari, caserme; - Case di cura
ed ospedali (se, non hanno fini di lucro); - Prigioni e
riformatori; - Uffici
pubblici (municipi ecc.); - Scuole
laboratori scientifici; - Biblioteche,
pinacoteche, musei, ecc.; - Cappelle ed
oratori non destinati all'esercizio pubblico de culti; - Magazzini
sotterranei per deposito di derrate. |
|||
Gruppo C -
Categorie (fabbricali ad uso commerciale): |
||||
C/1 C/2 C/3 C/4 C/5 C/6 C/7 |
- Negozi; e
botteghe; - Magazzini e
locali di deposito; - Laboratori
per arti e mestieri; - Fabbricati e
locali per esercizi sportivi (se non hanno fini di lucro); - Stabilimenti
balneari e di acque curative; - Stalle,
scuderie, rimesse, autorimesse; - Tettoie
chiuse o aperte. |
|||
|
Immobili a
destinazione speciale
|
|
|||
Gruppo D -
Categorie (fabbricali per uso industriale e commerciale): |
|
||||
D/1 D/2 D/3 D/4 D/5 Dl6 D/7 D/8 D/9 |
- Opifici; - Alberghi e
pensioni; - Teatri,
cinematografi ecc.; - Case di cura
ed ospedali (se hanno fini di lucro); - Istituti di
credito, cambio ed assicurazione; - Fabbricati e
locali per esercizi sportivi (se hanno fini di lucro); - Fabbricati
costruiti o adattati per speciali esigenze di attività
industriali; - . Fabbricati
costruiti o adattati per speciali esigenze di attività
commerciale; - Edifici
galleggianti o sospesi assicurati o fondi fissi del suolo; fondi
privati soggetti a pedaggio. |
|
|||
|
Immobili a
destinazione particolare
|
|
|||
Gruppo E -
Categorie: |
|
||||
E/1 E/2 E/3 |
- Stazioni per
servizi di trasporto, terrestri, marittimi ed aerei; - Ponti
comunali e provinciali soggetti a pedaggio; - Costruzioni
e fabbricati per speciali esigenze pubbliche (edicole per giornali,
pese, chioschi ecc.); |
|
|||
E/4 |
- Recinti
chiusi per speciali esigenze pubbliche (per mercato, posteggio bestiame ecc.); |
|
|||
E/5 E/6 E/7 E/8 E/9 |
= Fabbricati
costituenti fortificazioni e loro dipendenze; - Fari,
semafori, torri per orologi comunali d'uso pubblico; - Fabbricati
destinati all'esercizio pubblico dei culti; - Fabbricati e
costruzioni nei cimiteri; - Edifici a
destinazione particolare non compresi nelle categorie precedenti del
gruppo E. |
|
|||
|
Tav. 1 -
Gruppi e categorie catastali. |
||||
Quadro
generale delle nuove categorie suddivise in 5 gruppi (D.P.R. n.
13811998) |
|||||
|
UNITÀ
IMMOBILIARI ORDINARIE (gruppi R, P, T) |
||||
|
Gruppo R Unita
immobiliari a destinazione abitativa di tipo privato |
||||
|
|||||
R/1 R/2 R/3 |
- Abitazioni
in fabbricati residenziali e promiscui. - Abitazioni
in villino e in villa. - Abitazioni
tipiche dei luoghi. |
||||
|
Gruppo P
Unita
immobiliari a destinazione pubblica |
||||
|
|||||
P/1 P/2 P/3 P/4 P/5 |
- Unità
immobiliari per residenze collettive e simili. - Unità
immobiliari per funzioni sanitarie. - Unità
immobiliari per funzioni rieducative. - Unità
immobiliari per funzioni amministrative, scolastiche e simili. - Unità
immobiliari per funzioni culturali e simili. |
||||
|
Gruppo T
Unita
immobiliari a destinazione terziaria |
|
|
T/1 T/2 T/3 T/4 T/5 T/6 T/7 |
-
Negozi e locali assimilabili. - Magazzini,
locali da deposito e laboratori artigianali. - Fabbricati e
locali per esercizi sportivi. - Pensioni. - Autorimesse,
autosilos e parcheggi a raso di tipo pubblico. - Stalle
scuderie e simili. - Uffici,
studi e laboratori professionali. |
|
UNITÀ
IMMOBILIARI SPECIALI (gruppi V, Z) |
|
Gruppo V
Unità
immobiliari speciali per funzioni pubbliche |
|
|
V/1 V/2 V/3 V/4 V/5 V/6 |
- Stazioni per
servizi di trasporto terrestri, marittimi, aerei ed impianti di
risalita. - Stabilimenti
balneari e di acque curative. - Fiere
permanenti, recinti chiusi per mercati, posteggio bestiame e simili. - Fabbricati
destinati all'esercizio pubblico dei culti, cappelle ed oratori. - Ospedali. - Fabbricati,
locali, aree attrezzate per esercizi sportivi e per divertimento, arene
e parchi zoo. - Unità
immobiliari a destinazione pubblica o di interesse collettivo non
censibili nelle categorie di gruppo P per la presenza di
caratteristiche non ordinarie ovvero non riconducibili, per
destinazione, alle altre categorie del gruppo V |
V/7 |
|
|
|
|
Gruppo Z Unità
immobiliari a destinazione terziaria, produttiva e diversa |
|
|
Z/1 Z/2 Z/3 Z/4 Z/5 Z/6 Z/7 Z/8 Z/9 Z/10 |
- Unità
immobiliari per funzioni produttive. - Unità
immobiliari per funzioni produttive connesse all'agricoltura. - Unità
immobiliari per funzioni terziario-commerciali. - Unità
immobiliari per funzioni terziario-direzionali. - Unità
immobiliari per funzioni ricettive. - Unità
immobiliari per funzioni culturali e per lo spettacolo. - Stazioni di
servizio e per la distribuzione dei carburanti agli autoveicoli. - Posti barca
compresi in porti turistici. - Edifici
galleggianti o sospesi assicurati a punti fissi del suolo. - Unità
immobiliari a destinazione residenziale o terziaria, non censibili
nelle categorie dei gruppi R e T, per la presenza di caratteristiche
non ordinarie, ovvero unità immobiliari non riconducibili, per
destinazione, alle altre categorie del gruppo Z. |
|
|
|
Tav. 2 -
Gruppi e categorie catastali D.PR. 168/1998. |
NORME TECNICHE
PER DELLA
SUPERFICIE CATASTALE DELLE UNITA IMMOBILIARI A DESTINAZIONE
ORDINARIA (GRUPPI R, P, T) CRITERI
GENERALI |
1. Nella
determinazione della superficie catastale delle unità
immobiliari a destinazione ordinaria, i muri interni e quelli
perimetrali esterni vengono computati per intero fino ad uno spessore
massimo di 2. La
superficie dei locali principali e degli accessori, ovvero loro
porzioni, aventi altezza utile inferiore a 3. La
superficie degli elementi di collegamento verticale, quali scale,
rampe, ascensori e simili, interni alle unità immobiliari sono
computati in misura pari alla loro proiezione orizzontale,
indipendentemente dal numero di piani collegati. 4. La
superficie catastale, determinala secondo i criteri esposti di seguito,
viene arrotondata al metro quadrato. |
CRITERI PER 1
GRUPPI «R» E «P»
|
1. Per le
unità immobiliari appartenenti alle categorie dei gruppi R e P,
la superficie catastale è data dalla somma: a) della
superficie dei vani principali e dei vani accessori a servizio diretto
di quelli principali, quali bagni, ripostigli, ingressi, corridoi e
simili; b) della
superficie dei vani accessori a servizio indiretto dei vani principali,
quali soffitte, cantine e simili, computata nella misura: - del 50 per
cento, qualora comunicanti con i vani di cui alla precedente lettera a); - del 25 per
cento qualora non comunicanti; c) della
superficie dei balconi, terrazze e simili, di pertinenza esclusiva
della singola unità immobiliare, computata nella misura: - del 30 per
cento, fino a metri quadrati 25, e del 10 per cento per la quota
eccedente, qualora dette pertinenze siano comunicanti con i vani di cui
alla precedente lettera a); - del 15 per
cento, fino a metri quadrati 25, e del 5 per cento per la quota
eccedente, qualora non comunicanti. Per le
unità immobiliari appartenenti alle categorie del gruppo P, la
superficie di queste pertinenze è computata nella misura del 10
per cento; d) della
superficie dell'area scoperta o a questa assimilabile, che costituisce
pertinenza esclusiva
della singola unità immobiliare, computata nella misura del 10
per cento, fino alla
superficie definita nella lettera a), e del 2 per cento per superfici
eccedenti detto limite. Per
parchi, giardini, corti e simili, che costituiscono pertinenze di
unità immobiliari di categoria R/2, la relativa superficie
è da computare, con il criterio sopra indicato, solo per la
quota eccedente il quintuplo della superficie catastale di cui alla
lettera a). Per le
unità immobiliari appartenenti alle categorie del gruppo P dette
pertinenze non sono computate. 2. La
superficie dei vani accessori a servizio diretto delle unità
immobiliari di categoria R/4 è computata nella misura del 50 per
cento. 3. Le
superfici delle pertinenze e dei vani accessori a servizio indiretto di
quelli principali, definite con le modalità dei precedenti
commi, entrano nel computo della superficie catastale fino ad un
massimo pari alla metà della superficie dei vani di cui alla
lettera a) del comma 1. |
CRITERI PER IL
GRUPPO «T»
|
1. Per le
unità immobiliari appartenenti alle categorie del gruppo T, la
superficie catastale è data dalla somma: a) della
superficie dei locali aventi funzione principale nella specifica
categoria e dei locali accessori a servizio diretto di quelli
principali; b) della
superficie dei locali accessori a servizio indiretto dei locali
principali computata nella misura: - del 50 per
cento, se comunicanti con i locali di cui alla precedente lettera a); - del 25 per
cento se non comunicanti; c) della
superficie dei balconi, terrazze e simili computata nella misura del 10
per cento; d) della
superficie dell'area scoperta o a questa assimilabile, che costituisce
pertinenza esclusiva della singola unità immobiliare computata
nella misura del 10 per cento, ovvero, per le unità immobiliari
di categoria T/1, nella misura del 20 per cento. 2. Per le
unità immobiliari appartenenti alla categoria T/1 , la
superficie dei locali accessori a servizio diretto di quelli principali
di cui alla lettera a) del precedente comma 1, è computata nella
misura del 50 per cento. |
Tav. 3
-Allegato C al D.RR. 138/1998. |
L'estimo dei
beni
immobili
1. INTRODUZIONE
L’estimo
è la
disciplina economica che studia le metodologie da applicare per
giungere
all'espressione di un giudizio di valore in merito a beni privati e
pubblici.
L'estimo,
quindi, si
occupa di dare un valore ai beni economici sia che abbiano un prezzo di
mercato
esplicito, sia che non l'abbiano.
Sono oggetto
di
valutazione:
L’estimo
si divide in
due categorie:
1)
generale (teorie
relative alla valutazione dei beni);
2)
speciale (soluzione
dei
problemi di stima).
L'estimo
generale che
tratta gli aspetti economici del bene e i criteri di stima.
L'estimo
speciale,
secondo la natura e la destinazione economica dei beni oggetto di
valutazione,
si divide in:
o
agrario o rurale
(fondi agrari);
o
civile (fabbricati
ad
uso abitativo, commerciale, artigianale);
o
industriale
e commerciale (aziende industriali e commerciali);
o
catastale
(stima ai fini fiscali di beni immobili).
Il prezzo o
valore di
mercato é dato dalla moneta (somma di danaro) corrisposta,
nel momento in cui
avviene lo scambio, per un determinato bene economico. Il prezzo
di mercato è
uno solo e si riferisce sempre ad un fatto avvenuto in un determinato
momento
storico. Il valore di stima è il giudizio formulato da un perito
per un dato
scopo e un determinato fine. II valore di stima può essere
diverso in base a
chi lo formula (valore soggettivo dell'estimatore) e varia in funzione
dello
scopo per cui viene eseguita la stima. Il valore di stima è,
quindi, un
giudizio che parte da determinate premesse e si conclude e perfeziona
con un
prezzo.
2. IL GIUDIZIO
DI STIMA
Il giudizio di
stima si
basa su tre elementi che sono:
La stima
è il
procedimento avente per oggetto la valutazione in denaro di beni
economici, tra
questi vi sono i fabbricati e le aree edificabili, in questo caso si
tratta di
stima immobiliare.
Essa è
sempre preceduta
da accurate indagini di mercato, attraverso le quali si cerca di
conoscere i
prezzi che normalmente vengono praticati nelle libere contrattazioni di
compravendita di edifici con caratteristiche simili a quello che noi
dobbiamo
valutare. In concreto si cercherà di conoscere (per i
fabbricati di
abitazione,
negozi, terreni ecc.), i fitti medi, i prezzi medi correnti a
metro cubo di
edificio e a metro quadrato di superficie coperta o superficie
utile.
Un giudizio di
stima
obbiettivo, deve essere caratterizzato da:
Il bene
oggetto di
valutazione normalmente va considerato secondo lo stato in cui
trovasi
all'epoca della stima, salvo le eventuali aggiunte o detrazioni che il
perito
ritiene opportuno. Il procedimento di stima può essere analitico
o sintetico e
prevede sempre la comparazione dei beni.
La stima
analitica si
esegue per valutare un bene secondo il reddito che produce; essa si
può
suddividere in:
-
stima per
capitalizzazione dei redditi in
base al bilancio economico dei redditi e delle spese;
-
a sito e
cemento tenendo conto delle spese
di demolizione, del valore dei materiali che si possono recuperare e
del valore
del suolo;
-
a costo di
costruzione in base ad un
computo metrico relativo alle singole opere occorrenti per la
realizzazione del
fabbricato ex novo.
La stima
sintetica si
determina moltiplicando l'entità del parametro tecnico del bene
da valutare per
il prezzo riferito all'unità parametrica scelta. La ricerca del
prezzo unitario
è opportuno che venga eseguita in base ad indagine
statistica, da condurre nella
zona in cui è situato l'immobile oggetto di stima.
Al valore
determinato
si potranno apportare eventuali aggiunte e detrazioni per
considerare le
particolari condizioni del bene.
La stima
sintetica
comparativa può essere a sua volta:
-
in base a
parametri tecnici, quali: costo
a metro cubo vuoto per pieno, costo a metro quadrato di superficie
utile o
superficie coperta;
-
in base ai
parametri economici, quali:
fitto e reddito presi come termine di confronto, in relazione ad altri
beni
simili già compravenduti; ‑ ad impressione o a vista si ha
quando si confronta,
mentalmente, il bene da stimare con altri già venduti presi come
termine di
confronto.
I fattori che
influenzano una stima possono essere fattori intrinseci o
estrinseci; i
fattori intrinseci sono:
-
la superficie;
-
l'estetica;
-
l'esistenza di
locali condominiali;
-
le rifiniture
e lo stato di conservazione;
-
la grandezza
dei vani in funzione all'uso;
-
la
destinazione interna;
-
i servizi;
-
la rispondenza
allo scopo per cui è stato
costruito.
I fattori
estrinseci
sono:
-
la
salubrità del luogo;
-
l'ubicazione
rispetto alle strade, ai
servizi e al centro abitato;
-
l'esistenza e
l'efficienza dei servizi che
servono la zona, quali: trasporti pubblici, energia elettrica, gas
metano,
acqua ecc.
-
il ceto
sociale prevalente che
caratterizza il quartiere.
3. ASPETTI
ECONOMICI
DEL BENE E PARAMETRI DI STIMA
La valutazione
del bene
da stimare può essere eseguita in base ad uno dei seguenti
aspetti economici:
-
il costo di
costruzione;
-
il valore di
trasformazione;
-
il valore di
mercato;
-
il valore di
capitalizzazione dei beni;
-
il valore
complementare.
Questi si
utilizzano a
seconda dello scopo pratico per cui viene richiesta la stima. Le
unità di
misura relative al bene da stimare in rapporto diretto è
costante col valore
del bene stesso si chiamano parametri. Se i parametri esprimono la
quantità
fisica del bene si chiamano parametri tecnici, mentre se esprimono
l'attitudine
del bene a creare utilità e ricchezza si chiamano parametri
economici.
I parametri
tecnici che
più frequentemente si usano sono:
-
superficie
(fondi, aree fabbricabili,
fabbricati, appartamenti);
-
numero dei
vani (per fabbricati civili);
-
volume (beni
consumabili, legno, vino,
olio, volume dei fabbricati);
-
il peso (beni
venduti a peso).
I parametri
economici
più frequentemente usati sono:
-
canone di
locazione (fondi e fabbricati);
-
reddito
imponibile (fabbricati e
dominicale per i terreni);
-
la produzione
lorda (fondi);
-
il reddito
netto dell'imprenditore
(fondi).
A questo punto
è bene
esaminare alcuni degli aspetti economici:
-
il costo
riguarda le somma delle
spese che un imprenditore ha sostenuto o deve sostenere per costruire
un
fabbricato; si ha costo di costruzione sostenuto o da sostenere
per costruire
un fabbricato, e costo di ricostruzione che rappresenta la somma delle
spese
che si sosterrebbe al momento della stima per costruire un
edificio già
esistente. Al costo si può pervenire: per via sintetica mediante
i parametri
tecnici; per via analitica mediante computo metrico estimativo in cui
saranno
comprese le seguenti voci: prezzo dell'area; costo dei materiali in
opera;
interessi passivi, prevedendo, inoltre, anche le spese di
progettazione, spese
di allaccio di servizi, oneri di urbanizzazione, imposte e tasse. Il
valore di
costo così determinato di un vecchio edificio viene in genere
deprezzato a
seconda dello stato di deperimento. Questo aspetto economico si
utilizza, per
esempio, per effettuare preventivi; per valutare i danni subiti;
per
determinare il valore dell'edificio quando non esiste un prezzo di
mercato;
-
il prezzo
è la quantità di danaro
che viene pagata in cambio di un certo bene. Attraverso la domanda e
l'offerta
si forma il prezzo corrente di una determinata categoria di beni che
viene
chiamata prezzo di mercato; quest'ultimo deriva, quindi, da
rapporti economici
già verificatisi;
-
il valore
di mercato si può
definire come un prezzo di previsione che formula l'estimatore; il
valore di
mercato esprime, infatti, il prezzo che l'estimatore reputa si
debba pagare in
cambio di un certo bene. Normalmente valore e prezzo tendono a
coincidere.
4.
PROCEDIMENTI DI
STIMA
Il valore di
mercato,
in regime di libera concorrenza, è dato dal rapporto della
domanda e
dell'offerta che si registra per il bene considerato. Il valore di
mercato è
sempre riferito ad un prezzo medio relativo a beni, con caratteristiche
uniformi, per i quali si sono formati prezzi diversi.
Il criterio di
stima da
adottare è quello di confrontare il bene da stimare con altri
aventi
caratteristiche simili che sono stati oggetto di compravendita avvenuta
nella
stessa zona. Per fare questa stima è necessario assumere un
valore detto
parametro che è un elemento tecnico od economico comune e la sua
variazione è
proporzionata al variare del valore dei beni. Il parametro di
riferimento può
essere: la superficie, il canone di locazione, il reddito
imponibile, il
numero dei vani ecc. Per procedere ad una valutazione di mercato del
bene, dopo
aver accertato i beni con caratteristiche simili, venduti recentemente
nella
zona interessata, rilevato i prezzi corrispondenti di mercato e
stabilito il
parametro di riferimento, attraverso una proporzione, si risale al
valore di
mercato. Considerando:
Vx = valore
del bene
px = parametro
del bene
ΣV=
sommatoria dei
prezzi di mercato dei beni simili
Σρ =
sommatoria dei
relativi parametri
Si ha
|
ΣV |
Vx:px =
ΣV: Σρ = da cui Vx = |
_________ .
px |
Σρ |
|
Questo
procedimento di
stima consiste nel determinare il valore capitale del bene e si
può
sintetizzare nelle seguenti fasi:
a)
esame dei
fattori intrinseci ed estrinseci
del fabbricato;
b)
determinazione
del reddito lordo annuo
(fitto) riferito a fine anno. Il reddito lordo equivale al canone
annuo di
fitto riferito a fine anno; esso può essere reale se il
fabbricato è locato,
presunto se non è dato in locazione;
c)
determinazione
delle spese medie annue. Le
spese e perdite a carico del proprietario annue approssimative relative
a
fabbricati di abitazione sono:
‑ spese
condominiali a
carico del locatore 2‑3%;
‑ lavori
periodici
(manutenzione straordinaria ecc.) 6‑8%;
‑ sfitto e
insolvibilità 2‑3%;
‑ imposizioni
fiscali
(IRPEF, ICI) variabili in base al reddito del proprietario 26%;
‑ spese di
gestione 2%;
‑ spese medio
annue
incidenti sul fitto lordo circa il 41%;
d)
determinazione
del beneficio fondiario
(Bf) da capitalizzare; il Bf si ricava sottraendo dal reddito lordo
tutte le
spese e perdite che il proprietario del fabbricato deve sostenere.
Quindi il Bf
= R‑S dove: Bf beneficio fondiario, R canone di fitto annuo, S spese e
perdite;
e)
scelta del
saggio di capitalizzazione e
risoluzione della relativa formula. Il valore capitale «V»
è dato da V = Bf/r.
Dalla formula si evidenzia che capitalizzando il beneficio fondiario
Bf, cioè
dividendolo per r, è possibile conoscere il valore del capitale
V capace di
generarlo. La scelta del tasso di capitalizzazione r è molto
delicata, infatti,
nella stima analitica, operare con un tasso differente in più o
in meno anche
di un punto, significa approdare a risultati notevolmente diversi in
quanto
aumentando il tasso diminuisce il valore del capitale e viceversa. La
ricerca
del tasso di capitalizzazione va fatta dal professionista sulla base
del
mercato vigente in loco, precisamente occorre rilevare dal mercato
prezzi e
redditi recenti di fabbricati simili a quello da stimare e determinare
i
rispettivi benefici fondiari; dal rapporto
|
Σ Bf |
= r |
ΣVf |
||
si ottiene il
saggio
medio da applicare.
Qualora il
mercato non
sia in grado di fornire un risultato attendibile il professionista
esegue una
ricerca sulla base di ragioni politico‑economicosociali e sulla
base della
sicurezza dell'investimento. Comunque in base all'esperienza personale
si
consiglia di adottare i seguenti tassi di capitalizzazione (r):
dal 2% al 3%
per case di abitazione, negozi, magazzini; dal 3% al 4% per fondi
rustici; dal
4% al 5% per investimenti industriali, essendo più
rischiosi;
f)
eventuali
aggiunte e detrazioni al valore
capitale trovato. Una volta determinato il valore V dell'immobile
secondo il
principio dell'ordinarietà, occorre effettuare eventuali
aggiunte e/o
detrazioni per riportarlo alle sue reali condizioni.
Le aggiunte
principali
sono:
-
aree annesse;
-
servitù
attive;
-
opere d'arte
non asportabili;
-
esenzione
temporanea dell'imposta sui
redditi; impianti in più rispetto all'ordinarietà.
Le detrazioni
principali sono:
-
mutui
ipotecari;
-
diritti di
usufrutto, abitazione o
superficie;
-
servitù
passive;
-
spese di
riparazione;
-
eventuali
debiti fiscali, o accertamenti
in corso che possono avere privilegi sull'immobile;
-
impianti o
dotazioni mancanti rispetto ad
edifici simili della zona.
Dalla stima
relativa
alla formula V = Bf/r scaturisce il probabile valore di mercato di un
fabbricato nuovo, capace di assicurare quel determinato fitto; se il
fabbricato
da valutare è vecchio o costruito da oltre 15 anni il valore di
stima deve
essere ridotto di una certa quota di vetustà, a seconda della
età della
costruzione ed indipendentemente dalle detrazioni o aggiunte che
l'estimatore
ritiene opportuno di fare per tener conto delle altre circostanze.
Tale quota di
vetustà
si può dedurre dalla presente tabella:
Detrazione per
vetustà |
Considerazioni |
dal 3% al 5% |
Fino a 15 anni
abbisogna solo di piccole riparazioni e verniciature |
dall'8% al 15 % |
Intorno ai 40
anni abbisogna di manutenzione straordinaria sia sulle strutture che
sugli impianti |
dal 20% al 25% |
Intorno agli
80 anni abbisogna di radicali rinnovamenti |
dal 30% al 50% |
Abbisogna di
riattamento, rafforzamento delle struttura portante, rifacimento
copertura |
Nota Bene:
questo genere di tasso r è diverso dal tasso di interesse che
rappresenta il
costo del denaro praticato nelle operazioni bancarie e che adottiamo
nella
determinazione delle spese da computare nei procedimenti di stima.
Questo tipo di
stimasi
adotta quando il fabbricato è vetusto a tal punto che si ritiene
conveniente la
demolizione, onde poter disporre del sito e dei materiali di
risulta
riutilizzabili. In questo caso il valore del fabbricato Vf è
dato dal valore
del sito più quello del materiale di risulta riutilizzabili. A
tale valore
verranno sottratte le spese per la demolizione, le spese per il
recupero dei
materiali e le spese per il trasporto; quindi si ha la formula:
Vf = Vsito +
Vmater.
Riut. ‑ Sp
Le spese per
la
demolizione di un fabbricato sono variabili ed aumentano con
l'aumentare
dell'altezza del fabbricato stesso e secondo le macchine e sistema di
demolizione che si adotta. Se la demolizione viene eseguita a
braccia con
martelli demolitori e con uso di ponteggi, in presenza di
difficoltà le spese
aumentano sensibilmente. Dato l'alto costo della manodopera si
recuperano pochi
materiali che finiscono anch'essi a discarica o vengono ceduti
gratuitamente
ai trasportatori.
Questa stima
viene
utilizzata quando si deve valutare un fabbricato che per la sua
particolare
caratteristica costruttiva esula dall'ordinarietà ed il mercato
non offre
sufficienti termini di confronto. La stima a costo di costruzione di un
fabbricato consiste nel determinare il costo per la costruzione di
esso. Tale
costo di costruzione comprende le spese generali più l'utile del
costruttore
che oscilla intorno al 15/20 %; comprende anche le spese di
progettazione,
direzione lavori, collaudo ed accatastamento del fabbricato
nonché gli oneri
concessori, interessi passivi, tasse ed oneri. Di questo metodo di
stima si fa
uso particolarmente durante le espropriazioni per causa di
pubblica utilità.
La stima va eseguita sulla base di un dettagliato computo metrico delle
varie
parti che compongono il fabbricato e dei lavori e prestazioni
accessorie
connesse all'edificazione. Con questo metodo di stima si ottiene il
valore a
nuovo del fabbricato; se esso già è esistente e si deve
stimare a valore di
ricostruzione, allora il valore a nuovo che si determina deve essere
ridotto di
una certa quantità, a secondo del grado di vetustà e
dello stato di
manutenzione.
Si ottiene per
differenza tra il valore dell'immobile a trasformazione avvenuta
ed il costo
necessario per la trasformazione stessa.
Si ricorre a
tale
aspetto economico per stimare fabbricati a cui si vogliono apportare
trasformazioni e miglioramenti; questi fabbricati si prestano a
trasformazioni
di vario genere quali: trasformazione di una caserma in ospedale,
in scuola,
in appartamenti; trasformazione di un appartamento grande in più
appartamenti
ecc. Si può dire che la trasformazione e conveniente se il
valore di trasformazione
è maggiore del valore di mercato del bene originario da
trasformare.
Tale tipo di
stima può
essere richiesta:
Il valore
complementare
di un fabbricato è dato dal valore di mercato del fabbricato
considerato
integro, meno il valore di mercato del medesimo considerato privo
della parte
da stimare; più sinteticamente si può dire che è
dato dalla differenza fra il
valore dell'intero fabbricato ed il valore della parte residua. Da
quanto
detto, il valore complementare di un fabbricato non è altro che
il valore di
mercato di una parte integrante del fabbricato stesso. Per chiarire
meglio il
concetto si svolge il seguente esempio.
A seguito di
esproprio,
un alloggio al piano terra composto di quattro camere ed accessori
viene
privato del pranzo soggiorno; determinare l'indennità di
espropriazione.
Posto che:
-
prima
dell'esproprio il proprietario
ritirava un affitto netto di euro 3.098,74;
-
la parte
residua viene trasformata in
magazzino; il costo di tale trasformazione viene valutata in euro
61.974,83;
-
affittando il
magazzino il proprietario
può ritirare un fitto annuo netto di euro 2.169,39.
L'indennità
di
esproprio viene determinata dalla differenza fra il valore
dell'immobile prima
dell'espropriazione ed il valore dell'immobile dopo l'espropriazione:
a) valore
dell'immobile
prima dell'espropriazione:
Bf/r =
3.098,74/0.045 =
euro 68.860,92
b) valore
dell'immobile
dopo l'espropriazione:
Bf/r =
2.169,19/0.045 =
euro 48.202,64
la differenza euro 20.658,28
c) spesa per
la
trasformazione del fabbricato residuo a magazzino, a carico della ditta
esproprianda
euro 6.197,48
indennità
di
espropriazione euro 26.855,75
Premesso che
tali
edifici hanno particolari caratteristiche costruttive proprie che
si
discostano quasi sempre dall'ordinarietà si può affermare
che raramente è
possibile adottare la stima sintetica a favore della stima analitica a
costo di
costruzione, per capitalizzazione dei redditi o a sito e cemento.
È bene
ricordare che un
fabbricato rurale è parte integrante dell'azienda agricola e
pertanto forma un
tutt'uno con il capitale fondiario. Quando la stima non ha per oggetto
una
azienda agricola ma un comune fabbricato rurale con o senza annessa
porzione di
terreno agricolo, questo si può valutare eventualmente
aggiungendo il valore di
mercato del terreno. In questo caso si adotterà la stima a
prezzo di
costruzione o a sito e cemento se il fabbricato è troppo vecchio.
Il credito
fondiario è
una forma di finanziamento, riservato ai proprietari di beni immobili,
che
viene effettuata dagli istituti bancari previa una garanzia da
parte del
richiedente. La garanzia consiste nell'accendere una ipoteca di primo
grado sui
beni immobili del beneficiario a favore dell'istituto di credito.
L'ipoteca,
secondo l'art. 2808 c.c., è un diritto reale di garanzia
concesso dal debitore
(o da un terzo) su un bene, a garanzia di un credito, che
attribuisce al
creditore il potere di espropriare il bene e di essere soddisfatto con
preferenza, rispetto ad eventuali altri creditori, sul prezzo ricavato.
Generalmente si tratta di mutuo a lunga scadenza che viene estinto
mediante la
restituzione della somma in quote di ammortamento costanti,
comprensive di
quote capitale ed interessi. Le scadenze delle quote possono essere
frazionate
in rate mensili, bimestrali, trimestrali, quadrimestrali, semestrali.
La rata
costante da restituire può essere calcolata mediante le formule
viste nella
matematica finanziaria. Normalmente l'entità del mutuo non
eccede il 50% del
valore dell'immobile offerto in garanzia eccezionalmente può
arrivare al 70%.
Per
l'accertamento del
valore dell'immobile da ipotecare gli istituti di credito
forniscono precise
istruzioni di natura prudenziale ai periti, affinché il credito
concesso sia
garantito abbondantemente. A1 bene bisogna attribuire un valore, che
nel caso
di futura vendita all'asta verrà certamente realizzato.
Dell'immobile offerto
in garanzia viene assunto il minor valore di mercato che esso
può assumere
durante la durata del mutuo, servendosi del Bf corrispondente alla
rendita
annua minima, certa e continuativa, che l'immobile può dare
durante il periodo
di durata del mutuo. Anche il tasso di capitalizzazione deve essere
assunto con
prudenza, pertanto, esso sarà più alto di quello
effettivo; a tal proposito
spesso gli istituti di credito indicano entro quali limiti esso deve
oscillare.
Il valore dell'immobile offerto in garanzia va determinato sottraendo a
quello
attuale di mercato calcolato tenendo conto delle restrizioni sopra
descritte,
la sommatoria del deperimento annuo per vetustà per l'intera
durata del mutuo,
scontata all'attualità. Le quote di vetustà del
fabbricato possono essere
desunte da apposite tabelle oppure si possono calcolare con le formule
della
matematica finanziaria:
L'usufrutto
è un
diritto reale di godimento su cosa altrui. Si concreta nel diritto
riconosciuto
all'usufruttuario di godere ed usare della cosa altrui, traendo da
essa tutte
le utilità che può dare, compresi i frutti che essa
produce, con l'obbligo di
non mutarne la destinazione economica (artt. 981, 984 c.c.).
All'usufruttuario
non competono solo specifiche forme di utilizzazione del bene, come
avviene
negli altri diritti reali di godimento, ma tutte le forme di
utilizzazione che
non sono escluse dal titolo. Sotto questo profilo si può dire
che l'usufrutto è
il tipico diritto reale di godimento a contenuto generale,
subordinato solo ai
limiti della temporaneità e dell'obbligo di rispettare la
destinazione
economica del bene. L'usufrutto, a differenza degli altri diritti
reali, è
caratterizzato dalla temporaneità: esso non può
eccedere in nessun caso la
vita dell'usufruttuario, se si tratta di persona fisica, o i trenta
anni se si
tratta di persona giuridica. I:usufrutto può acquistarsi per
legge, per
contratto, per testamento, per usucapione.
Per la stima
che ci
riguarda, la cosa goduta può anche essere concessa in locazione.
L'uso è un
diritto reale limitato di godimento che attribuisce al suo titolare il
potere
di servirsi di un bene e, se esso è fruttifero, di raccoglierne
i frutti, ma
solo limitatamente a quanto occorre ai bisogni suoi e della sua
famiglia (artt.
1021, 1023‑1026 c.c.). Il diritto di uso ha carattere personalissimo e
non può
essere ceduto o dato in locazione; secondo la giurisprudenza il divieto
di
cessione può, tuttavia, essere superato con il consenso del nudo
proprietario.
L’abitazione è il diritto di abitare una casa
limitatamente ai bisogni del
titolare e della sua famiglia (artt. 1022‑1026 c.c.). Ha carattere
personalissimo, quindi, non può essere ceduto, né locato,
né sottoposto a
sequestro. È un diritto che può essere costituito per
atto di volontà e anche
per legge. Tali diritti e gli immobili che ne sono oggetto si valutano
con le
formule dell'estimo. Il caso più frequente di valutazione
è quello di un
immobile gravato da servitù oggetto di compravendita o divisione
ereditaria.
Premettendo che il nudo proprietario può godersi l'immobile solo
alla cessazione
della servitù, il valore attuale dell'immobile è dato
dalla differenza tra il
probabile prezzo di mercato del bene considerato libero dalla
servitù, ed il
cumulo dei futuri redditi netti che l'immobile è capace di
produrre dal giorno
della stima all'anno in cui viene liberato l'immobile, scontato
all'attualità.
Il valore di
un'area
edificabile varia da luogo a luogo anche nell'ambito dello stesso
centro abitato
per cui la sua stima va sempre preceduta da indagini approfondite
ed il prezzo
di mercato va analizzato dall'estimatore, tenendo presente lo strumento
urbanistico vigente nel Comune. Il piano regolatore generale ed il
piano
regolatore esecutivo, insieme ai piani particolareggiati ed al
regolamento
edilizio sono gli strumenti urbanistici attraverso i quali viene
disciplinato
lo sviluppo urbanistico del territorio del Comune. Analizzando tali
strumenti
urbanistici, il perito deve riconoscere: se l'area ricade in zona
edificabile
urbana o in zona agricola; se l'area è vincolata; se l'area
è da espropriare.
Nel caso in cui l’area da stimare ricada in zona edificabile il
suo valore
varia in funzione di fattori o condizioni intrinseche ed estrinseche.
Tra le
condizioni
intrinseche sono da ricordare:
-
il
coefficiente di edificabilità If;
-
le dimensioni
del lotto (in genere il
lotto più piccolo ha valore unitario maggiore);
-
la forma
geometrica del lotto (le forme
regolari valgono di più);
-
la lunghezza
del fronte stradale (un
fronte stradale maggiore da più valore al lotto);
-
l'ampiezza
della strada;
-
la giacitura
del terreno (i lotti
pianeggianti valgono di più);
-
l'esposizione
(le aree esposte a sud
valgono di più);
-
la natura del
terreno (il paludoso vale di
meno);
-
la distanza
del lotto dagli allacciamenti
(la vicinanza delle reti di servizi influisce positivamente sul
valore);
-
facilità
di accesso dalla strada
principale;
-
aspetto
paesaggistico dell'area;
-
grado di
inquinamento dell'aria e
dell'acqua.
Tra le
condizioni
estrinseche sono da ricordare:
-
la posizione
del lotto (zona centrale,
periferica ecc.);
-
la vicinanza
ai servizi (scuole, uffici
ecc.);
-
la
salubrità della zona (se vicina a
parchi o vicino ad industrie);
-
la
panoramicità;
-
l'efficienza
dei servizi pubblici (opere
di urbanizzazione primarie e secondarie);
-
la
rumorosità della zona;
-
vincoli legali
(possibilità di esproprio
pubblica utilità, servitù attive e passive).
I terreni
edificabili
si valutano secondo il libero mercato cioè secondo come varia la
domanda e
l'offerta; a tale scopo si può utilizzare la stima sintetica o
stima analitica.
La stima sintetica delle aree edificabili si ottiene applicando alla
superficie
del terreno da valutare il prezzo di mercato corrente nella stessa zona
per i
terreni simili a quello da stimare già oggetto di compravendita.
Qualora il
bene da valutare differisca sensibilmente dal bene di riferimento, il
tecnico
ne terrà conto mediante aggiunte o detrazioni.
La stima di un
fondo
rustico si dice a «cancello aperto» quando riguarda solo il
capitale fondiario,
a «cancello chiuso» se comprende anche le scorte. In questo
ultimo caso al
valore del fondo a «cancello aperto» si dovrà
sommare il valore delle scorte.
La stima di un
fondo
rustico si può eseguire secondo due aspetti economici:
-
il più
probabile valore di mercato;
-
il più
probabile valore complementare.
Il
procedimento di
stima che generalmente si segue è il procedimento diretto o
sintetico basato
sui reali valori di mercato.
Nella stima
secondo
l'aspetto economico del valore di mercato il perito deve giudicare la
quotazione che il fondo potrebbe spuntare in una libera contrattazione
di
compravendita con riferimento al momento in cui viene effettuata
la stima. È
quindi indispensabile:
-
che esistano
fondi simili che siano stati,
di recente, oggetto di compravendita;
-
che di questi
fondi simili si conoscano i
prezzi di vendita.
Per la
determinazione
del valore di mercato con il procedimento sintetico si applica la nota
equazione:
Dove:
ΣVm = sommatoria
dei prezzi di mercato dei fondi simili
Σp =
sommatoria dei
parametri relativi ai fondi simili
Vm = valore
ordinario
del fondo oggetto di stima
p = parametro
relativo
al fondo oggetto di stima